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I migliori non si piegano perché hanno una parola sola

Quando un uomo viene sottoposto a pressioni, minacce, intimidazioni, affinché si pieghi alla volontà altrui, si vede ciò che non traspare in tempi ordinari, quando tali cose non avvengono, o comunque non avvengono in maniera aperta ed esplicita: si vede di che pasta è fatta quella tale persona; se conserva la schiena dritta oppure la piega; se ha una parola sola, quella data quando le cose andavano per il verso giusto, o ne ha una seconda e una terza, le parole di riserva, da pronunciare quando le cose vanno male e si tratta di tutelarsi, di proteggersi, anche a costo di rimangiarsi promesse e giuramenti. Lo si vede anche nella vita collettiva, vita di società, di popoli: nel caso del popolo italiano, pesa su di lui la macchia dell’8 settembre 1943, e continuerò a pesare fino a quando esso non dimostrerà di essere un popolo degno di questo nome, capace di seguire la strada prefissata nella buona come nella cattiva fortuna, senza inchinarsi davanti ai nemici e senza pugnalare alla schiena gli amici. Lo stiamo vedendo anche oggi, quando un governo infame impone col ricatto e con mille pressioni illegittime al’intera popolazione una vaccinazione di massa che pure non osa imporre per legge, sapendo benissimo che non di vaccinazione si tratta, né di tutelare la salute pubblica, ma di schedare e sottomettere i cittadini e trasformarli in sudditi docili e terrorizzati, ai quali si chiede qualunque sacrificio, anche quello delle libertà fondamentali, anche quello della solidarietà familiare, anche quello di non poter dare l’estremo saluto ai propri cari con delle esequie decenti, purché lo si spaventi al punto giusto e gli si faccia intravedere una possibile via di salvezza, a patto che faccia il bravo e obbedisca ciecamente a qualsiasi follia e prepotenza gli vengano imposte dall’alto.

Un momento privilegiato per vedere di che pasta sono fatte le persone ed è fatto un popolo è la guerra; e il luogo forse più idoneo sono i campi di prigionia. I prigionieri di guerra rivelano, nel loro contegno, sia la forza d’animo, la coerenza e la fierezza dei singoli individui, sia il senso della patria che c’è o non c’è nel loro animo: cose dalle quali il nemico, che li ha sconfitti ma sta continuando a combattere su altri fronti, approfitta per chiarirsi le idee circa le future strategie da adottare. Se il nemico arguisce che quel popolo non è coeso, che quegli uomini non hanno sufficiente dignità e fierezza, seguiterà la guerra ricorrendo a ogni astuzia e ad ogni basso stratagemma, a che quello di allearsi con la mafia, come avvenne con lo sbarco angloamericano in Sicilia nel luglio del 1943, per favorirne la resa nella maniera più rapida, anche se disonorevole, ovviamente cercando anzitutto di mettersi d’accordo con i capi, con i pezzi grossi, nei quali probabilmente vi sono meno fierezza e meno amor di patria e maggiore disponibilità a lasciarsi sedurre, o corrompere (ciascuno scelga il vocabolo che gli sembra più adatto) di quanta ve ne siano nell’umile fante, nel semplice marinaio o nell’aviatore che fanno il proprio dovere e sfidano la morte ogni giorno, magari lottando ad armi impari contro forze soverchianti.

Valga per tutti l’esempio di vita vissuta che viene testimoniato da un prigioniero di guerra italiano catturato dai britannici in Africa Orientale, durante la Seconda guerra mondiale (da: Costantino Demuru, Alla fine dell’Impero. Dall’Abissinia ai lager inglesi, diario africano di un soldato di Dualchi, La Nuova Sardegna, 2014, pp. 154; 155-156):

Il campo era ancora molto unito [cioè il campo di prigionia britannico POW 351, presso Nairobi; è il gennaio del 1943]. Nulla sembrava potesse incrinare l’incrollabile fede nella nostra patria, anzi il patriottismo sempre vivo nei nostri cuori alimentava continuamente la speranza di un’alba nuova e i sogni di una rivincita da tempo sospirata. Il fatto che gran parte dei prigionieri era impegnata nei lavori all’esterno riduceva enormemente i tempi di attrito ed eliminava sul nascere i possibili screzi di una massa così diversa costretta in cattività. (…)

Fu all’incirca in quel periodo che al campo venne annunciata la visita del generale Nasi, l’eroe di Gondar, l’ultimo baluardo dell’Impero contro gli inglesi, l’erede morale del Duca d’Aosta. La sua visita faceva parte di un vasto piano che interessava tutti i campi di prigionia del Kenya, dove erano rinchiusi i prigionieri italiani, ed aveva soprattutto lo scopo di porre fine a una questione che per noi prigionieri era di primaria importanza: se cioè fosse giusto o meno lavorare alle dipendenze dei britannici.

Questo tipo di lavoro veniva risolutamente osteggiato da una parte ancora prevalente di prigionieri, provenienti dall’ala più fanatica e intransigente dei fascisti, per i quali Mussolini era sempre il loro Capo supremo e la fiducia nella vittoria finale incrollabile. Frasi del tipo: «Colui che in terra britannica fa nascere anche una sola spiga di grano, tradisce il Duce e l’Italia», correvano veloci da un capo all’altro del Kenya.

Il compito di Nasi era quello di illustrare a noi prigionieri i contenuti del cosiddetto Accordo di Eldoret, che si riferiva all’impiego dei prigionieri in una serie di attività lavorative che non avessero alcun rapporto con le attività di guerra.

Il nostro campo era per lo più costituito da "lavoratori", cioè da prigionieri che già svolgevamo questa attività all’esterno, e che solo apparentemente sembrava produrre qualche ben edificio a favore del nemico. All’interno dei campi di detenzione il problema era stato esaminato e discusso e la convivenza fra i due gruppi di prigionieri, finché rimasi in quel campo, non era stata intaccata. Il fatto stesso che al suono della campana, che annunciava il loro rientro nel campo, ci precipitavamo all’ingresso per accoglierli e intrattenerci con loro in lunghe discussioni sulle notizie che riportavano, dimostrava che non c’era fra noi alcun problema di convivenza. Io steso annoveravo molti amici e vecchie conoscenze in entrambe le squadre.

L’ingresso del generale venne salutato da tutti i prigionieri schierati nell’ampio spazio centrale, e qui ascoltammo in silenzio il suo discorso. Il suo pensiero, tendente a giustificare con nobili sentimenti la legittimità di alcuni tipi di lavoro non direttamente connessi con lo sforzo bellico, trovò ampi consensi nel nostro campo e riuscì a strappare un applauso convinto che pose fine a qualsiasi dubbio in merito a questo problema. In onore dell’ospite si svolsero giochi sportivi e spettacoli teatrali che, insieme alla musica e i canti, resero bella e memorabile quella giornata.

Personalmente, però, nonostante la profonda ammirazione che nutrivo per l’uomo e per il soldato, rimasi fermo nella mia idea: nessuna collaborazione con l’odiato nemico inglese. Col senno di poi posso affermare che questa scelta causò il mio trasferimento a Naivasha e di conseguenza dettò, peggiorandolo, il mio futuro di prigioniero. Nairobi era in effetti un "campo lavoratori" e gli inglesi volevano che rimanesse tale a tutti gli effetti, allontanando coloro che rifiutavano di collaborare.

Questa è una testimonianza preziosa, che ci mostra una cosa taciuta dai libri di scuola e in genere dai libri della cultura dominante: che molti soldato italiani fatti prigionieri conservarono sia la loro fierezza personale, sia quel patriottismo che li induceva a non dubitare della vittoria finale, il che ci dà un’immagine alquanto diversa da quella che abbiamo introiettato dopo settant’anni di sistematica falsificazione del passato e d’indottrinamento ideologico. Secondo la vulgata resistenziale e democratica gli italiani non aspettavano che il momento di scuotersi di dosso il giogo della dittatura, che in cuor loro non avevano mai accettato: il che è falso Ed è una menzogna che è stata costruita per la semplice ragione di rendere più accettabile, o se si vuole meno ripugnante, il desolante spettacolo del voltafaccia di Badoglio, il quale ancora alla vigilia dell’armistizio aveva giurato e spergiurato, sulla propria parola di soldato, parlando col generale Kesslring, che il governo da lui gridato sarebbe rimasto fedele all’alleato e l’Italia non avrebbe mai tradito la parola data. Questa narrazione falsificata della nostra storia recente era necessaria alla classe dirigente per attenuare le proprie responsabilità: prima nell’aver sostanzialmente accettato la tanto deprecata dittatura, poi per averla abbandonata quando le cose volsero al peggio, senza minimamente preoccuparsi del fatto che, quando è in corso una guerra totale per la vita e per la morte, la Patria e il suo governo formano una cosa sola; e che il vero patriottismo non consiste nell’unirsi agli invasori che stanno calpestando, a suon di stupri di massa e di criminali bombardamenti aerei, il suolo della Patria, neppure in nome di una astratta libertà: perché la libertà che concederanno i vincitori sarà pur sempre la libertà limitata del cagnolino tenuto al guinzaglio dal suo padrone, al quale solo spetta decidere dove andare e cosa fare.

Un primo momento della verità, nei campi di prigionia, si ebbe quando il nemico propose ai prigionieri di lavorare nelle piantagioni, nelle segherie, nei cantieri edili, nella riattivazione di strade e ponti, ecc.: e quelli che rifiutavano venivamo trasferirti in campi "punitivi", dove il cibo era più scarso, la disciplina più dura e il trattamento complessivo assai peggiore. Come si è visto, nonostante ciò, molti rifiutarono di collaborare col nemico (la guerra era tuttora in corsa e il suo esito non era scontato); e, anche non volendo assolutizzare la situazione di quel campo, che poteva anche essere dovuta a circostanze particolari, resta il fatto che se dei prigionieri rifiutano un trattamento di favore per non sostenere, sia pure indirettamente, lo sforzo bellico del nemico e quindi la sua vittoria, e con ciò la sconfitta della propria Patria, vuol dire che il senso del dovere ce l’hanno ben chiaro, e sono disposti ad assumersi sacrifici aggiuntivi, che potrebbero, volendo, risparmiarsi, proprio per non venir meno ad esso. E ciò con buona pace dei tranquillizzanti discorsi del generale Nasi e di altri come lui, i quali, forse con il desiderio di alleviare la condizione di quei poveri soldati, prospettarono loro la via più facile, ma non la più onorevole, di fronte all’alternativa posta dal nemico.

Un secondo momento della verità si presentò all’indomani dell’8 settembre, allorché gli anglo-americani posero i prigionieri italiani di fronte all’alternativa tra seguire il governo "legittimo" del loro Paese, che aveva firmato l’armistizio di Cassibile e che, poi, aveva anche dichiarato guerra alla Germania, e la fedeltà a quella Patria ideale che non coincideva certo con il misero Regno di Vittorio Emanuele III e di Badoglio, ma che ardeva nel profondo dei loro cuori, perché vi era stata coltivata da generazioni, e adesso li faceva inorridiva all’idea di farsi complici di un voltafaccia così vergognoso. Per quanti nutrivano un siffatto amor di Patria, inteso nel senso più ampio e più vero della parola (mentre il Regno del Sud rispondeva solo formalmente alla continuità ideale con l’Italia di prima dell’8 settembre), la fedeltà a Mussolini e alla Germania poteva entrare nel conto, ma poteva anche non entrarci. E, di fatto, la maggior parte dei "fascisti" che si schierarono, in Patria, per la Repubblica Sociale, oltretutto ormai sapendo che la guerra era persa e che avrebbero dovuto pagare un alto prezzo di persona, e farlo pagare anche ai loro familiari, non erano mai stati fascisti, anche per ragioni anagrafiche; non avevano fatto la marcia su Roma e non amavano il fascismo come si ama un valore irrinunciabile; però non sopportavano l’idea di sputare sui tanti sacrifici affrontati, d’infangare la memoria dei camerati morti sul campo dell’onore, di vanificare le sofferenze dei parenti e degli amici rimasti in Patria sotto le bombe dei "liberatori" che mietevano inutilmente migliaia di vittime, poiché tali bombardamenti non avevano alcuna ragione strategica e il loro vero scopo era quello di terrorizzare la popolazione. Ed eco che tutto torna e ogni cosa risulta chiara, nella storia, se si trova il filo rosso che lega gli eventi. L’essenziale, per il potere, è tenere le popolazioni schiave della paura: la paura fa fare tante cose brutte e sciocche; spinge anche la gente ad agire contro se stessa, contro il proprio bene, e a calpestare la propria dignità e libertà. Una testimonianza di ciò che accade dopo l’8 settembre, quando gli alleati chiesero ai prigionieri italiani di optare per il re e quindi per la cooperazione con loro, gli ex nemici divenuti, chi sa come, alleati, e addirittura amici e liberatori, è stata quella dello scrittore Giuseppe Berto, il quale la visse nel famigerato campo di concentramento di Hereford, nel Texas (sissignori, anche quelli degli alleati si chiamavano campi di concentramento; costruirli non era una prerogativa esclusiva dei tedeschi), e optò per la non cooperazione, insieme a numerosi suoi camerati. I carcerieri si trasformarono allora in aguzzini spietati e sottoposero i "fascisti" ad ogni sorta di soprusi e maltrattamenti, in barba alle convenzioni internazionali: proprio loro che facevano la guerra, a parole, per ripristinare l’ordine e la legalità internazionali violati dalle dittature del Tripartito.

La guerra è una cosa bruttissima, ma è rivelatrice. Anche quella che stiamo vivendo ora, l’anno di grazia 2022, è una guerra: non l’hanno dichiarata, però la stanno facendo. Contro di noi, contro la nostra umanità. Questa pertanto è l’ora di mostrare chi ha la schiena dritta e il rispetto di se stesso…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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