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E la mafia comprò l’Italia dagli USA, chiavi in mano

È ormai arcinoto e storicamente documentato in maniera inoppugnabile che gli Anglo-americani, per facilitare le loro operazioni di sbarco in Sicilia nel luglio del 1943, si servirono della volonterosa collaborazione della mafia, e più precisamente di quella mafia italoamericana che aveva già steso in profondità le sue radici criminali nella società statunitense e aveva potuto anche arruolare i mafiosi colpiti duramente dal regime fascista, specie ad opera del prefetto Cesare Mori alla fine degli anni ’20 ed espatriati negli Stati Uniti. Quel che è meno noto, ed è stato meno trattato dagli storici, è che la collaborazione tra la mafia e i servizi segreti americani non si limitò alla fase strettamene operativa; ma che, per assicurarsi alle spalle una popolazione tranquilla e un certo grado di consenso, gli americani – i quali, dopotutto, erano nemici e invasori, almeno se e parole hanno un senso – decisero di favorire l’inserimento dei loro "informatori" mafiosi nelle posizioni di comando dell’amministrazione pubblica. Lucky Luciano, il pericoloso pregiudicato appositamente scarcerato dalle galere americane, fornì delle liste con decine di nomi di "amici" sui quali gli alleati avrebbero potuto fare pieno assegnamento.

Ciò, naturalmente, ebbe delle grosse conseguenze politiche di lungo periodo: una volta insediati nel ruolo di sindaci e pubblici amministratori, i mafiosi tornati in Sicilia nel 1943, o usciti dalla clandestinità nell’isola stessa, posero un’ipoteca sulla futura vita politica dell’isola e indirettamente, dello Stato italiano. Dopo l’8 settembre tutta l’attenzione degli alleati, del re e di Badoglio era rivolta a vincere la resistenza tedesca in Italia e liquidare la Repubblica Sociale di Mussolini; il fatto che le retrovie del Regno del Sud fossero ingombre di personaggi mafiosi, la cui sola presenza sarebbe stata più che imbarazzante fino alla vigilia del 10 luglio, passò completamente in secondo piano. E ciò fece sì che a guerra finita le posizioni acquisite dalla mafia nell’amministrazione dell’isola divennero anche politiche, e si estesero ben presto fino a Roma, perché certi deputati e senatori siciliani avevano bisogno del voto mafioso per essere eletti e andare in Parlamento; e una volta eletti, si può bene immaginare quanto sul serio si posero il problema di ripulire l’isola della presenza di cosa nostra. Ecco allora che se gli Stati Uniti ebbero un ruolo decisivo nel ritorno della mafia in posizioni di potere nell’Italia "liberata" del 1945, si può anche leggere questa proposizione al contrario, e affermare che la mafia ricevette le chiavi dell’Italia dai vincitori angloamericani, quale ricompensa per ciò che avevano fatto per colpire alle spalle ogni tentativo di resistenza nel luglio del 1943, disarticolare i comandi, diffondere lo spirito disfattista: e ci riuscirono così bene che le truppe italiane, che ancora nel maggio si erano battute magnificamente in Tunisia, quando avvenne lo sbarco offrirono una resistenza debolissima e si sbandarono quasi subito; mentre i tedeschi, a duemila chilometri dalla loro patria, si batterono come leoni, uno contro cinque, per ritardare l’avanzata del nemico.

A titolo di esempio, ecco quanto racconta il giornalista e saggista britannico Rodney Campbell, a lungo corrispondente negli Stati Uniti per il London Sunday Times, nel suo libro Operazione Lucky Luciano. La collaborazione segreta tra mafia e marina statunitense durante la Seconda guerra mondiale (titolo originale: The Luciano Project, 1977; traduzione dall’inglese di Francesco Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1988, pp. 170-172):

«Uno dei progetti di maggiore importanza — riferì Alfieri [ufficiale della Marina statunitense] — consisteva nel mettersi in contatto con persone espulse dagli Stati Uniti per crimini ivi commessi ed estradati nella natia Sicilia. E uno dei miei primi successi, dopo essere sbarcato a Licata, consistette appunto nel riuscire a prendere contatto con parecchi di costoro. Essi si rivelarono prontissimi a collaborare e di grande aiuto, perché parlavano sia il dialetto locale, sia l’inglese».

Alla domanda, se questi siciliani amici degli alleati erano membri effettivi della mafia, Alfieri, riluttante a rivelare l’identità dei suoi informatori, rispose: «Be’, non l’avrebbero mai ammesso, ma sapevo che lo erano in base alle esperienze che avevo avuto modo di fare durante le indagini compiute a New York». E questi contatti erano tutti frutto della collaborazione con Luciano? «Sì, nella stragrande maggioranza dei casi». E le informazioni così ottenute si rivelarono utili? «Indubbiamente.»

Marsloe, l’ufficiale di più alto grado del gruppo del Naval Intelligence sbarcato, confermò le dichiarazioni di Alfieri: «Può riuscire sorprendente ma quella missione ebbe inizio nel territorio degli Stati Uniti. L’Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia, che vide in azione il nostri gruppo diviso in due sezioni, può essere sintetizzata dal successo di uno dei membri di questo gruppo, che riuscì a penetrare nelle linee nemiche dopo aver individuato la ubicazione segreta del comando navale italiano».

L’uomo che riuscì a far tanto fu Alfieri, il quale, sotto una pioggia di proiettili d’artiglieria, mortaio e mitragliatrice, raggiunse di corsa le crollanti macerie delle postazioni nemiche Il suo obiettivo era effettivamente costituito dalla sede segreta del comando di marina italiano: già in Africa, Alfieri era stato infornato che questo non si trovava negli edifici ufficiali di un qualche porto, bensì in una bella villa con uno splendido parco a una certa distanza dalla costa. I confidenti mafiosi di Alfieri gliela indicarono con assoluta esattezza e, quando l’ufficiale americano vi penetrò, vi trovò alcuni italiani che restarono a bocca aperta e che parvero più preoccupati dell’eventualità che i tedeschi calassero dai monti che non dell’arrivo degli americani. Senza incontrare la minima resistenza, Alfieri entrò nell’ufficio dell’ammiraglio italiano, che trovò vuoto. S’avviò a una cassaforte (sapeva esattamente dove stava) e in quattro e quattr’otto l’ufficiale del Naval Intelligence che durante l’operazione congiunta mafia-marina a New York aveva avuto modo di specializzarsi nel ramo, si accinse ad aprire lo sportello. Si accorse però che non c’era tempo sufficiente per farlo. L’andamento della battaglia era troppo fluido, e Alfieri non sapeva se stessero per giungere i tedeschi, e c’era anche il rischio che gli italiani assumessero atteggiamenti ostili. Decise pertanto di non usare l’abilità, bensì la forza: aprì la cassaforte con la dinamite, spolettando la carica praticamente a scoppio immediato. Avvenuta l’esplosione, si buttò sulla cassaforte ancora fumante, abbrancò il fascio di documenti che vi si trovavano, e via di corsa alla spiaggia.

Alfieri ritrovò Marsloe, e i due, elettrizzati e giubilanti, chiesero di essere portati a bordo della nave dell’ammiraglio Connolly, che restò a bocca aperta vedendosi sciorinare davanti quella bracciata di documenti. V’erano i cifrari e i codici tedeschi e italiani, di importanza decisiva per il successo dell’invasione, essendo la battaglia tuttora in corso; e c’erano soprattutto – ed era il trofeo più prezioso — i documenti, per impadronirsi espressamente dei quali Alfieri si era recato alla villa. Marsloe era entusiasta di quella che definì «la cattura di documenti indicanti la dislocazione di tutte le forze navali italiane e tedesche nel Mediterraneo, nonché dei campi minati del settore, insieme ai lucidi preparati dai tedeschi dei campi minati stessi, con l’indicazione precisa dei corridoi di transito». Marsloe, noto in tutto il Terzo distretto navale per la sua tipica abitudine all’"understatement" [eufemismo], sintetizzò così l’importanza di quel bottino: «I documenti furono portati a bordo della nave che batteva la bandiera dell’ammiraglio Connolly, mentre gli sbarchi erano in pieno corso; trascritti, contribuirono notevolmente ad accelerare la resa dell’Italia».

Il tenente colonnello Cincotta non mancò di sottolineare a sua volta il valore dell’impresa di Alfieri: «è stato questi ad aprire la cassaforte, col rischio di restare ucciso dall’esplosione, e a impadronirsi dei piani». Per l’opera compiuta a Licata, Alfieri venne insignito della Legion of Merit con la seguente motivazione: «Grazie al suo spirito di iniziativa e al suo coraggio, uniti al suo profondo senso del dovere, ha reso disponibili informazioni di grande valore in vista della preparazione di future operazioni, in tal modo contribuendo in larga misura al successo delle nostre forze d’invasione».

Pur facendo la tara a quanto di esagerato e spettacolare può esservi in questa pagina, consono al palato grosso del pubblico americano, è tuttavia un quadro illuminante e desolante di come avvenne la caduta dell’Italia nell’estate del 1943. Uno sbarco e un’invasione nella quale l’ultima preoccupazione dei difensori è quella di resistere; delle guarnigioni che si lasciano disarmare senza sparare un colpo; delle casseforti abbandonate con il loro preziosissimo contenuto di documenti da ammiragli in fuga che si scordano, chissà perché, di metterli al sicuro prima di scappare; i codici cifrati dei difensori che cadono senza colpo ferie nelle mani del comando supremo nemico; e degli invasori che sanno già dove andare, in quale edificio entrare, e perfino in quale angolo è situata la cassaforte. Sembra il copione di un film poliziesco dai tratti ironici e grotteschi, più che una cronaca di guerra. Insomma pare più una commedia all’italiana che una tragedia, quale realmente è stata: l’inizio della fine dell’Italia indipendente e sovrana, per tutti i decenni che sarebbero venuti. Ricordiamo che quando l’aviazione alleata attaccò Pantelleria, munitissima fortezza posta quale bastione a difesa della Sicilia, l’ammiraglio Gino Pavesi si arrese senza aver sofferto neanche una perdita, con le scorte di armi e viveri ancora intatte e prima che un solo soldato nemico fosse sbarcato. E la stessa cosa, più o meno, accadde con la fortezza di Augusta, difesa, si fa per dire, dall’ammiraglio Priamo Leonardi: resa immediata e militarmente inspiegabile al primo affacciarsi dei nemici, sempre senza aver opposto neppure una resistenza simbolica. E poi, a guerra finita, c’è chi ha voluto prendere le difese di codesti ammiragli e ci ha scritto sopra dei libri, melodrammatici e pietistici fin dal titolo, come Fucilate gli ammiragli! (Gianni Rocca, 1987, Mondadori Editore), perché, poverini, erano stati condannati in contumacia da un tribunale della Repubblica Sociale con l’accusa di alto tradimento e resa al nemico. Alcuni di essi, come l’ammiraglio Francesco Maugeri, già capo di Stato Maggiore della marina, non solo non furono chiamati a rispondere della mancata difesa e anzi ebbero una quantità di medaglie da appuntare al petto, ma ricevettero anche decorazioni dall’ex nemico, come la Legion of Merit statunitense; in riconoscimento di quali meriti, ciascuno è libero di giudicare.

Dal brano emerge l’irrisoria facilità con cui gli alleati superarono le difese dell’isola, e da esso si può facilmente intuire la rapidità con cui le spie della mafia, che avevano dato loro tutte le informazioni necessarie per individuare e neutralizzare i centri nevralgici di essa, divennero dei validi interlocutori per gestire la fase dell’occupazione. E, di fatto, moltissimi uomini della mafia, anche per la loro conoscenza della lingua inglese, acquisita durante gli anni trascorsi negli Stati Uniti, si trovarono nelle condizioni ideali per svolgere il ruolo d’interpreti, fiduciari e nuovi responsabili dell’amministrazione civile. In luogo dei podestà di nomina fascista, squagliatisi come nebbia al sole, comparvero in quattro e quattr’otto dei sindaci notoriamente mafiosi, sovente rientrati dall’America dopo anni di assenza, i quali a loro volta si affettarono a circondarsi di collaboratori provenienti anch’essi dalla onorata società: il seme del separatismo siciliano, con l’assurdo programma di fare dell’isola uno Stato della Confederazione nordamericana, ebbe origine da qui. In altre parole, le conseguenze a lungo termine dell’operazione di intelligence americana, più precisamente del Servizio informazioni della Marina statunitense, andarono molto al di là degli obiettivi iniziali, i quali, dopotutto, erano essenzialmente di carattere militare. Si comprende meglio allora perché i vincitori vollero imporre al’Italia sconfitta, con il trattato di pace del 1947, l’odioso articolo 16, che vietava espressamente alle autorità italiane di perseguire penalmente quei cittadini italiani, e magari quei membri degli alti gradi delle forze armate (ma questo, è ovvio, non venne specificato) i quali si erano adoperati per la vittoria alleata fin dal 10 giugno 1940, e cioè ben prima del vergognoso capovolgimento di fronte dell’8 settembre 1943, allorché i nemici (gli alleati) divennero amici, e gli amici (i tedeschi), nemici.

Di questa storia dal finale amaro, col nostro Pese che importa un cancro destinato, un po’ alla volta, a minarlo sino alle radici, si parla ancora oggi molto poco, perché nessuno dei protagonisti ne esce bene. Non certo l’Italia "liberata" e democratica, che si adattò a convivere con quel cancro pur di tenersi cari gli "amici" d’oltre Atlantico, dei quali divenne, in pratica, una colonia; ma neppure gli Anglosassoni, i quali non esitarono ad allearsi con la peggiore criminalità organizzata per agevolare i propri piani militari. C’è un modo disonorevole di perdere, ma anche uno disonorevole di vincere.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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