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La Cabala è una mistica? Sì, ma alla rovescia

La Cabala: che cos’è? È una mistica? È una filosofia? È una dottrina esoterica? Ci sembra importante capirlo, visto l’enorme influsso da essa esercitato, sia pure in maniera sotterranea, sul pensiero e sulla cultura di matrice cristiana nel corso di lunghi secoli. Per introdurre il nostro discorso, citiamo una pagina del saggio di Mauro Perani, già professore straordinario di ebraico presso l’Università di Bologna, nonché presidente della European Association for Jewish Studies (EAJS), La mistica ebraica (nei quaderni di Credere, n. 3 del 2003, Ebraismo, pp. 114-117):

La Qabbalàh ebraica solo con le necessarie distinzioni può essere definita una "mistica". Se con questo termine noi intendiamo un processo di annichilimento del’essere umano e il suo perdersi, assorbito dalla divinità, secondo un’accezione comune della mistica cristiana, allora il termine "mistica" si adatta a fatica a definire la Qabbalàh ebraica, perché essa è essenzialmente un sistema di dottrine esoteriche relative alle relazioni spirituali che regolano le emanazioni delle energie divine che scendono nel mondo, il loro effetto positivo su di esso, e il loro ritorno o risalita nella sfera superiore dell’intima vita divina, a cui il cabalista (mequbbàl) contribuisce in maniera decisiva mediante azioni, riti, preghiere e l’osservanza dei precetti della Toràh. Lungi dall’annientare la personalità umana del mistico per assorbirla nella divinità, la mistica ebraica esalta l’individualità e l’azione umana del cabalista, della quale, in qualche modo, Dio stesso ha bisogno. Dunque la Qabbalàh è piuttosto un sapere segreto relativo ai misteri nascosti della vita divina, ossia una vera e propria "teosofia", piuttosto che un’ascesa mistica verso le altezze del divino, mediante l’annullamento dell’essere umano (bittùl ah-Yèsh), secondo lo schema classico della mistica cristiana e di altre concezioni mistiche. Questa idea è rilevabile solo in alcune tendenze della Qabbalàh ebraica. Inoltre, non è elemento caratterizzante la Qabbalàh un ascetismo e uno spirito di rinuncia alle realtà di questo mondo, e neppure alcuna forma di fuga dal mondo, ché al contrari oil mistico ebreo realizza piuttosto il suo ideale vivendo pienamente la sua realtà umana e immergendosi nelle realtà terrestri, piuttosto che rifuggendo da esse. Ne è un esempio il rapporto del mistico ebreo con la sfera della sua sessualità che (…), lungi dal costituire un ostacolo alla "unio mystica", ne è in un cero senso una via privilegiata. (…)

Se volessimo proporre una definizione della dottrina esoterica ebraica, potremmo dire che essa è un sistema simbolico di significati relativi ai rapporti nascosti che regolano l’interazione fra mondo divino e quello umano, attraverso un processo discendente in cui la divinità, in qualche modo, si deve contrarre per far posto al creato, con la conseguente comparsa del male; quindi Dio si manifesta attraverso dei processi di emanazione, con i quali egli crea il mondo. Ma, a causa di questa discesa, la stessa luce divina si è oscurata e frammentata, disintegrandosi in infinite scintille di luce che si sono mescolate con le tenebre. Il cabbalista, attraverso la speculazione teosofica e il compimento di atti teurgici, fra cui l’osservanza dei precetti, compie una specie di spigolatura delle scintille di luce disperse nelle tenebre del creato, le riunifica, reintegrando in tal modo la dispersione della luce divina causata dal processo di "contrazione" (tzimtzùm) a cui Dio ha volto sottoporsi per fare posto al creato, e fa affluire verso l’alto, nella sfera divina le energie che egli stesso ha contribuito a riparare, attraverso un processo di restaurazione (tiqqùn), che reintegra la divinità nella sua pienezza. Il concetto di una contrazione della divina presenza (shekinàh) è già presente nella letteratura midrashica (ad es. il "Midràsh ha-ne’elàm", o Midrash nascosto), e viene ripresa da Nachmanide nel sec. XIII: Mosheh Cordovero (1522-1570) uno dei più grandi cabbalisti del sec. XVI, esprime con queste parole il concetto in esame: «L’emanazione è il luogo della sua presenza, in cui egli si contrasse per mostrare alle genti la propria gloria, cosicché ne potessero intuire, sebbene solo in parte, la grandezza». Il concetto di tzimtzùm diventa centrale nel pensiero del più importante mistico del XVI secolo: Isac Luria (1534-1572). (…) Secondo la cosmogonia cabbalistica di Luria, in seguito al processo di contrazione, la luce divina, come un liquido sui raccolse in vasi, corrispondenti alle varie sefiròt; mentre i vasi delle emanazioni più alte e vicine a Dio, ressero nel contenere queste possenti energie divine, quelli inferiori non ne furono capaci e si ruppero, sicché i frammenti di luce si dispersero nelle tenebre del mondo terreno. Allora il processo fu ripetuto emanando una luce più attenuata, che questa volta i vasi inferiori seppero contenere. Ma i frammenti dei primi vasi spezzatisi tennero prigioniere le scintille di luce, rinchiuse come dentro delle scorze chiamate qelippòt; esse costituiscono delle forze del male, che saranno eliminate attraverso il processo di restaurazione o tiqqùn. Come si vede, nella concezione cabalistica il male è una necessaria conseguenza del processo di manifestazione di Dio mediante emanazioni e del processo creativo, ed esso risulta condizione imprescindibile per la stessa manifestazione del bene. Al processo di reintegrazione della pienezza della divinità, e di eliminazione del male mediante la raccolta della luce divina nascosta nelle tenebre, l’opera dell’uomo è indispensabile: solo lui è in grado di raccogliere le scintille di luce disperse nelle tenebre e liberarle verso l’alto perché si riuniscano alla luce divina.

Tali l’origine, la natura e le prospettive della Cabala, almeno nelle sue linee di fondo e nei suoi esponenti più qualificati: anche se in forma succinta, questo brano contiene una sintesi obiettiva di essa. E ora domandiamo: se non fossimo stati condizionati e addestrati da decenni d’ideologia dominante a guardare con sacro rispetto tutto ciò che viene da quell’ambito culturale; se dovessimo limitarci a giudicare da noi stessi, con mente sgombra di pregiudizi, potremmo non vedere che si tratta di favole banali, a volte grossolane, a volte sacrileghe, volte non tanto a spiegare l’origine del mondo e quella del male (i cabalisti erano presenti al fatto, visto che ne parlano con tale dovizia di particolari e sfoggio di competenza?), bensì a ritagliare per l’uomo, e non per l’uomo in generale, ma per quel particolare tipo umano che è il cabalista, un ruolo di tutto rispetto nel contesto della creazione. Di più: per assegnargli, cioè per assegnare a se stessi, un ruolo addirittura indispensabile, che ne fa non solo degli aiutanti di Dio, ma, in un certo qual senso, degli dèi essi stessi? Infatti se Dio ha bisogno di loro, perché senza di loro la creazione precipiterebbe nel caos e il male sarebbe scatenato, allora Dio non è più il Signore Unico e Onnipotente, ma una sorta di primus inter pares; e i pares sono appunto gli uomini, o meglio quegli uomini che, in virtù dei loro studi, delle loro meditazioni e soprattutto della loro audacia intellettuale, hanno compreso il grande arcano: che Dio, senza di loro è un Dio impotente e dimezzato; che non sa condurre a buon fine la sua stessa creazione; e che essi, pertanto, meritano di esser considerati non dei semplici uomini, delle semplici creature, ma qualcosa di più: delle divinità in potenza, il cui ruolo nel contesto dell’ordine divino è tanto necessario quanto quello dello stesso Creatore.

Ma andiamo con ordine. C’è un Dio creatore, nella visione cabalistica? A noi pare di no. C’è una progressiva emanazione del divino (del divino, non di Dio: si faccia attenzione alle parole, perché il trucco sta proprio nella voluta indeterminatezza del linguaggio), talmente progressiva e talmente pasticciona, con tanto di riprova dell’atto creativo avendo constato che i "vasi" inferiori non ce la fanno a contenere la luce divina, che non si riesce proprio, neppure con la migliore buona volontà, a vedere in ciò né la Persona del Dio unico, né, meno ancora, l’atto volontario e intenzionale, pienamente gratuito e perciò pienamente amorevole, della creazione del mondo. Che razza di divinità è quella che non sa fare bene i suoi calcoli; che sceglie delle modalità di creazione, anzi per meglio dire di emanazione, da creare il male senza averlo voluto? Intanto, però, un altro punto essenziale è acquisito a favore dell’uomo: il male non è entrato nel mondo per colpa dell’uomo, ma per colpa di Dio (ammesso e non concesso che Dio e uomo siamo realmente due realtà distinte e ontologicamente diverse: il che è tutto da vedere e da capire, e francamente non si capisce per nulla). Perciò non solamente l’uomo, o meglio il cabalista, svolge un ruolo fondamentale, indispensabile, nobilissimo, qual è quello di raccogliere le scintille di luce disperse nel mondo tenebroso e così eliminare le particelle di male ad una ad una, ma è anche innocente della presenza stessa del male: la quale non ci sarebbe, se la trasmissione della luce fosse stata studiata ed effettuata con maggiore perizia. Dunque, l’uomo è chiamato non solo a integrare, ma a correggere l’opera di Dio: e quale prova più evidente della sua stessa divinità? Non solo Dio sarebbe impotente e sconfitto se non ci fosse l’uomo; ma sarebbe l’eterno testimone della propria impotenza e della propria sconfitta, e quindi deve infinita riconoscenza all’uomo che gli toglie le castagne dal fuoco e gli restituisce la sua credibilità e la sua autorevolezza divine.

Ci sarebbero moltissime altre cose da dire, sviluppando la critica in profondità. Dio, per creare il mondo, si contrae, e così riesce a far posto alla materia. Ma che razza di Dio è quello che, per creare qualcosa, si deve rimpicciolire, e mettersi da parte, come se non ci fosse abbastanza spazio per il Creatore e le creature? Questa è una concezione puerile e del tutto materialistica di Dio: una concezione che non riesce a concepire la creazione come un atto d’amore che moltiplica le energie e non le riduce; che nulla sottrae alla perfezione e all’onnipotenza divina; e che mai e poi mai potrebbe dar luogo alla creazione del male, specie in forma involontaria. E come si fa a pensare che la luce divina, discendendo nel mondo, si oscura e perde il suo fulgore? La luce divina, se è veramente tale, rimane sempre uguale a se stessa: non si offusca e non perde nulla di nulla. E poi, perché parlare di discesa nel mondo, in un mondo di tenebre? Il mondo non è "in basso" rispetto a Dio; il mondo, creato ex nihilo, è il frutto della sovrabbondanza dell’amore di Dio. Certo, anche i cristiani usano il linguaggio della luce che illumina le tenebre; ma è un linguaggio figurato: e la Luce è Cristo, il quale non si offusca e non perde nulla del suo divino splendore, ma chiama gli uomini a parteciparvi. Attenzione: a parteciparvi, ad accoglierlo, non a reintegrarlo; non ha bisogno di questo, il Figlio, e non ne ha bisogno il Padre. Neppure lo Spirito Santo ha bisogno di essere reintegrato dalla buona volontà degli uomini, ché, anzi, la sua natura è proprio quella di venire in soccorso degli uomini, di ispirarli, guidarli, consigliarli, consolarli (Paraclito). Per cui la concezione cabalistica della creazione è per metà favolistica e leggendaria, e per metà grossolanamente materialista e antropocentrica. Eppure questa concezione esprime una costante tendenza di certi spiriti poco razionali, ma in compenso molto superbi: al punto che, fra i teologi e gi sacerdoti cattolici del Novecento (si pensi solo, per fare un nome, a padre David Maria Turoldo), è quasi un luogo comune parlare della povertà di Dio, della sofferenza di Dio, della insufficienza di Dio, e addirittura — questa è una delle più sonore bestemmie proferite dal signor Bergoglio — che Iddio non può essere Dio senza l’uomo (udienza generale del 7 giugno 2017). Il che dimostra fino a che punto idee e concetti provenienti, direttamente o indirettamente, dalla Cabala ebraica, sono penetrati nella Chiesa e hanno influenzato e storpiato il suo insegnamento. In realtà, tale penetrazione è tutt’altro che recente, anche se è diventata una vera e propria inondazione a partire dal Concilio Vaticano II, sull’onda della Dignitatis humanae e della Nostra aetate (ispirata, quest’ultima, o meglio addirittura redatta, dai rabbini del B’nai B’rith, con la nefasta mediazione del cardinale Bea e la benevola acquiescenza di Paolo VI).

Avviandoci a concludere queste brevi riflessioni. La Cabala non è una mistica, perché le mancano i tratti essenziali della mistica, in particolare la netta distinzione fra Creatore e creatura e fra bene e male; almeno se le parole hanno un senso. Se quella dei cabalisti è una mistica, allora vuol dire che ciascuno è libero di usare le parole come gli pare e piace. Essa è piuttosto un insieme di dottrine e di speculazioni astratte, e in ciò si differenzia anche dalla filosofia e dalla teologia, perché filosofia e teologia procedono seguendo il metodo razionale e la logica classica. Dunque, la Cabala non è né una mistica, né una filosofia o una teologia. Che cos’è, allora, scendendo dalla sfera delle sue grandiose astrazioni sul terreno concreto? A cosa serve, infine? A noi pare che si tratti in definitiva di un sistema di magia cerimoniale. Il cabalista, come il mago, si sente investito della missione di squarciare il velo del mistero cosmico e svolgere un ruolo attivo, da protagonista, nella scena della creazione. Non vuole contentarsi dello statuto di creatura: pretende per se stesso qualcosa di più. Non solo vuole prendere in mano il proprio destino, ma vuole giocare una parte decisiva nel processo cosmico del rapporto fra la creazione e le creature; vuole definire per se stesso una funzione salvifica, soteriologia, il che gli permette di salire parecchi gradini rispetto allo statuto semplicemente umano e porsi quasi al livello di Dio. Vi ricorda qualcosa, tutto ciò? A noi ricorda il peccato d’invidia e di superbua del primo uomo, che volle divenire immortale ed essere come Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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