Siamo fatti per la felicità e la vita, non per la paura
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16 Gennaio 2022C’era, e c’è tuttora, nel cuore di uno dei borghi più caratteristici della mia città natale, una piccola edicola religiosa situata all’angolo fra via Pracchiuso e via Tomadini, adornata da un mosaico a vivaci colori che rappresenta il volto semplice e benevolo di un uomo che pareva sorridere a me bambino, quasi ammiccando a qualche segreto noto solamente a noi due. Più tardi ho scoperto che quell’uomo dal sorriso simpatico era san Vincenzo de’ Paoli, un autentico gigante della carità; così come un gigante della carità era stato Francesco Tomadini, che a poche decine di metri da quel luogo aveva fondato un glorioso istituto per ragazzi orfani, per i quali non esitava a chiedere personalmente l’elemosina spingendo un carretto, e accettava gl’insulti e talvolta le percosse, per poi chiedere all’aggressore, senza perdere il suo sorriso: Bene, queste sono per me. E adesso, per i miei ragazzi cosa mi date?
Chi studia la figura e l’opera di san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660) – il fondatore della Congregazione della Missione, i cui membri sono comunemente chiamati Lazzaristi, e poi, insieme a Luisa de Marillac, delle Dame della Carità, divenute nel 1633 Figlie della Carità – rimane particolarmente colpito dalla sua mitezza, spinta fino all’eroismo. Ad esempio fino al rifiuto di difendersi davanti alla più odiosa delle calunnie, quella di essere un ladro, che fa arrabbiare e reagire vivacemente anche il galantuomo più mansueto; e ciò quando era ancora un giovane prete che cercava, studiando nella capitale francese, l’indirizzo definitivo da dare alla propria vita e alla propria missione sacerdotale.
Ecco come racconta tale episodio Tito Casini — uno scrittore che è stato pressoché ignorato dalla cultura ufficiale, quasi certamente perché cattolico dichiarato, e dunque non assimilabile alle culture dominanti, la fascista prima, la catto-comunista dopo il 1945; fino alla sua aperta critica delle riforma liturgica del 1969 e di tutto il clima sopravvenuto dopo il Concilio Vaticano II (vedi il nostro articolo: «Martin Buti non piglia resti!», pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/01/18) – nella sua bella biografia dedicata a san Vincenzo, scritta quando un glorioso editore fiorentino pubblicava opere veramente cattoliche come la sua, e non ancora gli scritti rivoluzionari e modernisti di don Lorenzo Milani (T. Casini, San Vincenzo de’ Paoli, Libreria Editrice Fiorentina, 1937, pp. 30-32):
Abitava, nel quartiere di Saint-Germain des Prés, in una camera di poca spesa, presa a mezzo, perché la spesa fosse ancor meno, con un suo compatriota, il giudice conciliatore di Sore. Per poco ricco che fosse, il giudice doveva essere assai più ricco del baccelliere suo conterraneo, perché nella comune stanza il comune armadio conteneva una borsa tutta sua con dentro quattrocento scudi. Una mattina che il giudice era fuori per le sue cose e il baccelliere a letto per indisposizione, venne nella stana, a portar una medicina al malato, un giovane mandato dal farmacista. Cercando nell’armadio un bicchiere, il giovane vide la borsa, e gli scudi sparirono. Tornato di fuori e avvistosi della mancanza, il giudice chiese conto a Vincenzo dei suoi denari, e poiché Vincenzo disse di non averli né presi né visto prendere, lo accusò di averglieli rubati, inveì contro di lui, lo cacciò via da sé, lo diffamò per ladro con quante più persone poté, cercando di preferenza quelle che egli aveva più care, gli fece intimare un monitorio… Vincenzo, per tutte le sue insolenze, non ebbe che una risposta: «Dio conosce la verità». E la conobbero anche gli uomini, dopo sei lunghi anni nei quali pesò sul povero prete una delle accuse da cui più rifuggono anche coloro che avrebbero, almeno dinanzi a Dio, ragioni maggiori di arrossire: l’accusa di furto. Arrestato a Bordeaux per altri reati, il ladro confessò anche quello commesso ai danni del giudice. Il giudice scrisse a Vincenzo che sarebbe andato a chiedergli perdono in ginocchio della sua colpa.
Se Vincenzo non tenne poi, su questa dolorosa e gloriosa prova della sua vita, il silenzio che tenne sopra la sua schiavitù — vi accennò infatti conferendo coi suoi missionari, il 9 giugno 1656, sul modo di ricever le correzioni — coloro che lo sentirono parlare non poterono certo dedurre dalle sue parole che si trattasse di lui: «C’è una persona nella Compagnia la quale, essendo stata accusata di aver rubato a un suo compagno e pubblicata per tale in tutta la casa, quantunque la cosa non fosse vera non volle difendersi. Essa pensò dentro di sé, vedendosi così ingiustamente accusata: – M’abbia a difendere? M’accusano di una cosa che certamente non è vera… Oh, no — disse elevandosi a Dio, – bisogna che io sopporti questa pazientemente -. E così fece. Come andò a finire? Sei anni dopo, quello che aveva rubato, ed era lontano di qui cento leghe, confessò la sua colpa…». Meglio avrebbe potuto, gli stessi, dedur qualcosa, dal tono infuocato cin cui, tre anni dopo, nella conferenza del 6 giugno 1659, parlava dell’uso da farsi della calunnia: «E quando piaccia alla sua divina bontà esercitarci, mandarci delle occasioni di patire, bisogna elevare i nostri occhi al cielo… ricever con gioia le calunnie e le persecuzioni come favore ch’egli ci fa, e dire con effusione di cuore: – Vieni, cara calunnia; vieni, dolce persecuzione; venite, care croci mandate dal cielo, io voglio far buon uso della visita che voi mi fate per parte di Dio -. La povera natura soffrirà, striderà, ma non vuol dire…»
Tale era l’uomo che, secondo alcuni storici anticattolici, si sarebbe addir ittita inventato il doloroso capitolo della sua prigionia a Tunisi, allorché delle navi barbaresche lo catturarono mentre era in viaggio per mare da Marsiglia a Narbona e lo vendettero come schiavo nella città nordafricana, ove rimase dal 1605 al 1607, finché non fu liberato dal suo stesso padrone, che egli aveva convertito e che volle fuggire insieme a lui. Un uomo che soffre in silenzio il martirio della calunnia, e sopporta di essere accusato come ladro, si sarebbe poi inventato la vicenda della sua schiavitù? E a quale scopo, poi: forse per rendere più affascinante la propria biografia, per arricchire la propria persona con un’aureola frutto di mera fantasia? Bugiardo e millantatore un sacerdote che, nelle sue conferenze edificanti ai confratelli, li invitava a dir così: Vieni, cara calunnia; vieni, dolce persecuzione; venite, care croci mandate dal cielo, io voglio far buon uso della visita che voi mi fate per parte di Dio? E se l’episodio della cattura e della schiavitù fosse stato davvero inventato a scopo di auto-glorificazione, perché egli non ne parlava mai, ad alcuno, né si lasciava sfuggire il più piccolo accenno ad una’esperienza che era durata ben due anni? Strano modo di far lavorare la fantasia per attirar l’attenzione su di sé!
Ma torniamo all’altro episodio di quel periodo della vita del santo, l’ingiusta accusa di furto, dalla quale egli non volle difendersi, rimettendo la propria causa e la propria onorabilità nelle mani del Giudice supremo, il solo nel quale confidava incondizionatamente. Anche qui i soliti sapientoni potrebbero andare a caccia del pelo nell’uovo e magari accusare san Vincenzo di essere stato troppo discreto, quasi rassegnato, mentre avrebbe avuto tutto il diritto, se non anche il dovere, di difendersi e respingere l’accusa, se non altro per il decoro dell’abito che indossava. E certo la virtù eroica della mansuetudine, da lui mostrata in quella occasione, contrasta in maniera stridente cin il clima morale che si respira ai nostri giorni, nel quale le persone sono generalmente estremamente suscettibili al proprio buon none; anche, sia detto fra parentesi, quando tale buon nome esiste solo nella velleità soggettiva dell’interessato. Siamo abituato a far valere i nostri diritti, magari a suon di carte bollate, sia quando sono stati ingiustamente negati, sia quando pretendiamo di farli valere ben oltre la loro giusta portata. Il clima culturale della nostra società è fatto così: questo è il momento d’oro per avvocati e gente d’ogni tipo accomunata dalla querela facile; salvo poi tacere e subire quando lo Stato, per la malizia diabolica di un pugno di massoni venduti alla grande finanza, si rivolta contro i cittadini e li priva dei diritti più fondamentali e più innocenti, come quello di uscir di casa per fare una passeggiata col bambino, o di sedersi al bar per fare una partita a carte con gli amici. In quei casi no, non ci sono visibili reazioni; anzi paradossalmente le reazioni sono spesso di segno opposto a ciò che dovrebbero essere, cioè di richiesta di ulteriori proibizioni e più severi controlli da parte delle forze dell’ordine. Ma torniamo al caso di san Vincenzo: fece bene a tacere e a non discolparsi? O fu una forma di rinuncia e quasi di disimpegno sociale, se non proprio una viltà pura e semplice? Dive andremmo a finire, potrebbero obiettare i soliti sapientoni, se gl’innocenti non proclamano la propria innocenza, e consentono ai ladri e ai calunniatori (e sia pure calunniatori inconsapevoli: ma Dio ci scampi da chi fa il male in buona fede, è la razza più terribile) di avere campo libero, gli uni per rubare, gli altri per rovinare la reputazione del prossimo?
Il Vangelo è un segno di contraddizione: come dice Gesù, mette due contro tre e tre contro due; il padre contro il figlio e la figlia contro la madre (cfr. Luca, 12,51 sgg.). Altro che evitare le divisioni, altro che includere tutti quanti e dialogare anche coi nemici dichiarati di Gesù Cristo, come vanno blaterando i teologi del post-concilio e i preti modernisti che non hanno neppure il fegato di dichiararsi tali, ma si fingono cattolici per seguitare a prendere in giro le anime semplici dei fedeli. E allora vediamo: è plausibile la critica secondo la quale san Vincenzo non avrebbe dovuto tacere, ma discolparsi, perché se tutti facessero come lui, la società andrebbe a rotoli? No, non è plausibile, perché san Vincenzo ha fatto esattamente quel che fece Gesù davanti a Pilato che voleva interrogarlo: non disse nemmeno una parola (cfr. Matteo, 27,14). E davanti al comportamento di Gesù, è ovvio, non c’è da chiedersi se fece bene o fece male. Ci si può chiedere, certo, perché in simili situazioni, ossia quando si viene accusati ingiustamente, è bello tacere. Nel caso di Gesù, sarebbe stato un abbassarsi al livello dei suoi accusatori: gente che non cercava la verità, o perché era contraria ad essa, come nel caso del sommo sacerdote e dei membri del sinedrio, o perché indifferente, come nel caso del procuratore romano. Iddio non deve giustificare se stesso di fronte agli uomini che l’accusano: la Verità risplende da sé, e se qualcuno la rifiuta, è perché preferisce le tenebre alla luce, non perché non la veda. Nel caso di san Vincenzo de’ Paoli, se si fosse difeso, avrebbe per forza di cose dovuto accusare un altro: nella stanza ove erano custoditi i denari del giudice c’era lui solo, oltre al giovane di bottega venuto a portargli la medicina per la sua indisposizione. Se avesse negato di averli presi lui, automaticamente avrebbe dovuto puntare il dito contro quel giovane: ma è probabile che lui stesso non lo avesse visto nell’atto materiale di sottrarre la borsa. Era malato, forse febbricitante; tutto quel che vide fu il giovanotto che si accostava all’armadio, e poi se ne andava: che avesse rubato la borsa dovette dedurlo solo in un secondo momento, quando il proprietario di essa tornò in camera e si accorse della sparizione. Allora san Vincenzo stabilì di tenersi a una linea di scrupolosa prudenza: non volle accusare qualcuno che non era assolutamente certo fosse il colpevole. Forse era entrato qualcun altro, mentre lui riposava? Non lo si poteva escludere del tutto. Ecco: san Vincenzo de’ Paoli ha dato a tutti quanti una silenziosa, potentissima lezione di prudenza: non ci si può improvvisare giudici e giustizieri; non si può condannare qualcuno se non si ha la certezza assoluta della sua colpevolezza. Nel dubbio, bisogna sospendere il giudizio. Anche a prezzo di pagare di persona? Sì, dice san Vincenzo: anche al prezzo pesantissimo di prendersi, agli occhi del mondo, una colpa di cui si è innocenti. Ovviamente, allorché egli prese la sua solitaria ed eroica decisione, san Vincenzo non aveva alcuna certezza, anzi per dir meglio, non aveva la minima speranza che la verità sarebbe venuta a galla e che la sua reputazione sarebbe stata pienamente ristabilita e il suo nome riabilitato. Al contrario, era praticamente certo che avrebbe dovuto portarsi dietro per tutta la vita quel marchio d’infamia: tanto più che il giudice, nel suo cieco rancore, andava dappertutto a propalare l’odiosa calunnia, specialmente fra quelli che erano più cari al cuore di san Vincenzo. E non è facile, per la nostra mentalità di uomini comuni, immaginare qual genere di martirio devono essere stato quei sei anni di sospetti, di occhiate di traverso, di brusche risposte, di continue ferite. Sei anni durante i quali un giovane, che vive, si può dire, dell’opinione che il mondo ha di lui, perché ancora non ha le spalle abbastanza forti per sopportare il biasimo o il disprezzo generali, dovette vivere rassegnandosi a non potersi più togliere di dosso la vergogna del nome di ladro, o quanto meno il grave sospetto di aver rubato.
Quante cose s’imparano dalle vite dei Santi; più di quante se ne possano imparare limitandosi alla lettura di decine di libri di teologia morale. Nelle vite dei Santi c’è l’aspro profumo della verità vissuta sulla propria pelle e pagata a caro prezzo, di solito nell’indifferenza o nell’ostilità del mondo. Ma è quella la loro caratteristica, a quello sono chiamati. Essi ci ricordano che la via che conduce alla verità è aspra e solitaria, ma è la sola che meriti d’essere percorsa e che scaldi l’anima.
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