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Assassinio nella cattedrale di Eliot, tragedia cristiana?

Il 29 dicembre 1170, a Canterbury, l’arcivescovo e primate d’Inghilterra Thomas Beckett durante la celebrazione dell’ufficio divino cadeva sotto le spade di quattro cavalieri che avevano preso alla lettera una frase del re Enrico II, impegnato da tempo in una lotta per rafforzare il potere monarchico, limitando quello della Chiesa: «Chi mi libererà da questi preti turbolenti?». Seguirono, nel gennaio successivo, l’interdetto contro gli Stati di Enrico II (proclamato non direttamente dal papa, ma dall’arcivescovo francese di Sens), la scomunica ai vescovi che si erano ribellati a Beckett e più tardi, nel maggio del 1172, l’assoluzione da parte dei legato pontifici dello stesso Enrico II, la cui responsabilità diretta nell’assassinio non era mai stata provata. Un culto si sviluppò velocissimo intorno alla figura dell’estinto; appena due anni dopo la sua morte, nel 1173, papa Alessandro III lo proclamò santo e martire della Chiesa.

A questa vicenda storica si è ispirato il poeta Thomas Stearns Eliot (Saint-Louis, 1888-Londra, 1965), il quale dagli Stati Uniti si era portato in Inghilterra, assumendone la cittadinanza, e si era convertito all’anglo-cattolicesimo, cioè al ramo della Chiesa anglicana più vicino alla Chiesa di Roma, per comporre una delle sue opere più note e più efficaci: il dramma teatrale poetico in due parti e un interludio Assassinio nella cattedrale (Murder in the Cathedral), appartenente al genere della Sacra rappresentazione, nel 1935, che venne dato per la prima volta il 15 giugno dello stesso anno, proprio nella sala capitolare di quella Cattedrale di Canterbury ove, nel XII secolo, si era consumato l’atroce delitto.

L’apparente anacronismo di un poeta del Novecento che va a cercare materia d’ispirazione e forme espressive nel lontano Medioevo, voltando le spalle alla modernità (paradosso nel paradosso, questo poeta si forma nella corrente del modernismo, che, nei Pesai anglosassoni, non esprime un’adesione ideologica ai valori moderni, ma una particolare tecnica stilistica basata sull’uso dell’immagine in funzione di correlativo oggettivo) trova la sua spiegazione nel fatto che Eliot, dopo la conversione al cristianesimo, non che inseguire le ultime mode culturali, cerca nella nuova fede quel che di perenne vi è nell’anima umana; e vede appunto nel cristianesimo l’elemento catalizzatore che accentua l’eterna lotta fra il bene e il male e costringe l’uomo a prender posizione, abbandonando ogni atteggiamento attesista e opportunista.

Scrivono P. Dagna Campagnoli e A. Martini (in: L’avventura del lettore. Antologia per il biennio delle scuole superiori, Edizioni Il Capitello, 1991, vol. II, pp. 956-958):

Fin dal saggio "La tradizione e il talento individuale" (1919), Eliot aveva sottolineato l’importanza della tradizione in campo letterario. La sua opera poetica era stata, già ne "La terra desolata", fittissima di echi, nutrita degli apporti più diversi: dai poeti medievali, l’amato Dante prima di tutti, a Shakespeare, ai poeti "metafisici" del Seicento inglese, ai simbolisti francesi, ecc. La conquista della fede religiosa viene a rinsaldare questo senso della tradizione, perché il cristianesimo appare a Eliot l’elemento fondante di gran parte della letteratura, dell’arte figurativa e della filosofia occidentale. La produzione saggistica dello scrittore tocca spesso argomenti religiosi, da "Religione e letteratura" (1935) a "L’idea di una società cristiana" (1939)

[Per "assassinio nella cattedrale"]si è parlato di un ritorno a Eschilo, il primo grande poeta tragico greco, per la presenza del coro (le donne di Canterbury che lo formano hanno una parte rilevante nella tragedia). O addirittura si potrebbe definire "Assassinio nella cattedrale" una tragedia pre-eschilea, perché il solo vero personaggio caratterizzato come individuo è Thomas Beckett: gli altri sono estremamente stilizzati e fungono, nel loro insieme — i tre preti, i quattro tentatori, i quattro cavalieri -, da anti-coro. (…)

Non è tanto lo sviluppo del’azione, che certo, nella seconda parte, si fa più tesa e concitata, a costituire motivo di interesse per il lettore o lo spettatore. È invece il contenuto di pensiero, che costringe chi legge o assiste alla rappresentazione ad interrogarsi sul significato della vicenda.

Il dramma può essere letto — e così è stato — in modi diversi: in chiave politica, se si considera come tema centrale la lotta tra Chiesa e Stato; in chiave psicologica, se si focalizza l’attenzione sul confitto interiore di Thomas Beckett e la sua vittoria contro se stesso (le tentazioni); in chiave simbolica e religiosa, se si scorge nella vicenda l’emblema del difficile cammino dell’umanità verso Dio (esemplare, in questo senso, l’evoluzione che attraverso i cori si può scorgere nelle donne di Canterbury), e nel martirio di Tommaso la riproposta del sacrificio di Cristo. Conosciamo, da una dichiarazione dello stesso Eliot quali fossero i suoi intenti: «Non ho voluto scrivere una cronaca della politica del XII secolo, né manomettere senza scrupoli gli scarsi documenti […]. Ho voluto concentrarmi sulla morte e sul martirio». Chiarissima perciò l’ispirazione religiosa di "Assassinio nella cattedrale"; il che tuttavia non impedisce di gustare il dramma, anche al lettore meno interessato a questa problematica.

E tuttavia, potrebbe obiettare qualcuno: la visione cristiana della vita è compatibile con la tragedia? Oppure la tragedia è una forma espressiva caratteristica ed esclusiva del mondo pre-cristiano, in particolare del mondo greco, nel quale la condizione umana è gravata da un cupo pessimismo a causa dello strapotere inesplicabile del Fato?

Osservano sempre gli autori sopra citati a questo proposito (Ibidem, 963):

Secondo George Steiner, non si può parlare in nessun caso di tragedia cristiana, perché, egli sostiene, l’interpretazione cristiana della vita porta a una negazione della tragedia: il cristianesimo presuppone sempre, oltre la morte,la possibilità della salvezza: non esistono, nella sua visione del mondo, forze incontrollabili (il Fato degli antichi Greci) cui l’uomo non riesca ad opporsi, e all’uomo, anche quando sbaglia, non è mai preclusa la via della salvezza: «non c’è mai stata una tragedia specificamente cristiana, nemmeno quando la fede era in pieno rigoglio. Il cristianesimo esprime una condizione antitragica del mondo. […]

Il cristianesimo prospetta all’uomo la certezza del riposo finale in Dio. Guida l’anima verso la giustizia e la resurrezione. La Passione di Cristo è un avvenimento di inenarrabile dolore ma è anche la chiave che svela l’amore di Dio per l’uomo. Alla luce fosca della sofferenza di Cristo, il peccato originale si trasforma in un felice errore (felix culpa). Attraverso di esso l’umanità sarà restituita ad una condizione assai più elevata di quanto non fosse l’innocenza di Adamo. Nel dramma della vita cristiana, la freccia vola contro vento ma punta verso l’alto., Poiché è una soglia verso l’eternità, la morte dell’eroe cristiano può essere causa di dolore, non di tragedia. […]

La prospettiva cristiana conosce soltanto la tragedia parziale o episodica. Nel suo essenziale ottimismo vi sono momenti di disperazione; nell’ascesa verso la grazia si possono verificare crudeli contrattempi. Ma, come dice un proverbio portoghese, «Deus escrive direito pro linhas tortas» [Dio adopera linee storte per scrivere diritto; da G. Steiner, "Morte della tragedia", Milano, Garzanti, 1976, p. 256].

Innanzitutto due parole su George Steiner, l’autore della tesi secondo la quale non si dà in alcun caso una tragedia cristiana, perché la visione cristiana della vita, sorretta dall’idea della Provvidenza e perciò da un fondamentale ottimismo, non si concilia con la tragedia, che, come si è detto, presuppone una sfiducia di fondo nella bontà della vita, o quantomeno nell’affermazione della giustizia. Ebreo di origine austriaca, ma nato a Parigi, poi emigrato negli Stati Uniti, è il classico intellettuale cosmopolita che si stenta a collocare in una cornice e collegare ad una precisa identità. Infatti su Wikipedia è definito uno scrittore, saggista e accademico francese, mentre l’Enciclopedia Treccani lo definisce uno scrittore e saggista di origine austriaca, di famiglia ebraica, nato a Parigi e naturalizzato statunitense. Nemmeno il suo ebraismo lo caratterizza in modo univoco, perché, caso raro ma non unico, Steiner considera un male la nascita dello Stato d’Israele e rimprovera a Hitler di averla inconsapevolmente favorita, il che farebbe di lui un falso messia ebraico, un po’ come il famoso Sabbatai Zevi. Egli ritiene che la vera missione del popolo ebreo sia di natura spirituale e non politica; a parte questo, lo si potrebbe considerare un tipico intellettuale mitteleuropeo, peraltro imbevuto di marxismo e capace di rompere i ponti con l’Europa, facendosi americano, il che rappresenta una doppia negazione di quell’ideale. E adesso chiediamoci: è condivisibile, è verosimile la tesi di Steiner riguardo alla radicale impossibilità di una tragedia cristiana? Sarebbe impossibile pertanto considerare Assassinio nella cattedrale una "vera" tragedia, e bisognerebbe trarne la conclusione che T. S. Eliot ha composto un’opera ibrida e intrinsecamente contraddittoria, quindi artisticamente velleitaria e non riuscita?

Se si pensa al più grande poema cristiano della letteratura universale, la Divina Commedia, verrebbe da rispondere affermativamente. Dante scrive una comedìa, cioè un’opera che giunge, passando attraverso il dramma, al lieto fine, perché l’itinerario dell’anima che cerca Dio con sincero pentimento dei propri peccati si conclude felicemente col raggiungimento della meta sospirata ed il premio della vita eterna. E tuttavia Eliot, che era un grande ammiratore e conoscitore di Dante, come si vede già ne La terra desolata, non poteva non essersi posto l’interrogativo; come doveva esserselo posto Manzoni allorché sceglieva di dare una lieta conclusione ai Promessi Sposi, rendendosi però conto che un finale diverso — con Renzo che apprende al Lazzaretto che Lucia è morta di peste — non avrebbe minimamente scalfito l’impianto morale e religioso del romanzo. La Provvidenza infatti, la c’è, sia che la vita terrena degli uomini sia premiata dal raggiungimento dei loro desideri terreni, sia che ciò non avvenga, perché essa agisce in maniera misteriosa, in quanto le vie del Signore non sono le vie dell’uomo. E l’Adelchi, e il Conte di Carmagnola? Non c’è il lieto fine, né nell’una, né nell’altra tragedia; al contrario, il male sembra trionfare, e i buoni soccombono. Se poi si spazia sul panorama europeo e mondiale, ci si rende conto che gli scrittori cristiani molto raramente si sono confrontati con la tragedia, salvo alcune notevoli eccezioni: Milton col Paradiso perduto, Imre Madach con L’umana tragedia. Altrimenti hanno fatto come Dante: sono discesi negli abissi infernali, ma hanno anche mostrato la via della risalta verso Dio, come è specialmente il caso di Tolstoj e Dostoevskij, così diversi fra loro, eppure tanto simili nel cogliere il dramma di caduta e redenzione dell’uomo, alla luce dell’eterna lotta fra il bene e il male. Per alcuni romanzi contemporanei, come Leviatano di Julien Green o La fine dell’avventura di Graham Greene, forse non si può parlare di tragedia, perché non basta il contenuto drammatico per fare di un’opera una tragedia: è necessaria una costruzione tragica che coinvolga non solo il protagonista o i protagonisti, ma la condizione umana in se stessa. E dunque, torniamo a chiederci: è stato un "errore" Assassinio nella cattedrale? Oppure è un errore considerarla una tragedia?

Ci sembra che il dramma di Eliot rappresenti la felice eccezione alla regola. Sì, è vero: la visione cristiana della vita non può essere propriamente tragica, perché, se lo fosse, verrebbe meno la fiducia nella Provvidenza, e svanirebbe il significato stesso dell’Incarnazione del Verbo, nonché della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo. Al tempo stesso, non possiamo accettare la definizione di fondamentalmente ottimistica della visione della vita propria del cristianesimo. La visione della vita cristiana non è ottimista nel senso comune del termine, perché in essa l’ottimismo non discende da un orientamento dell’uomo, da un atto della sua volontà, ma dalla fede nella bontà di Dio, che controbilancia il pessimismo antropologico. La condizione umana, dopo la caduta di Adamo, è quella che è, ossia tragica: egli vorrebbe fare il bene e invece fa il male. D’altra parte è un po’ semplicistico definire il peccato di Adamo una felix culpa: è vero infatti che senza di esso non vi sarebbe stata l’Incarnazione, ma ciò significa assumere il senno del poi. Se non ci fosse stata l’Incarnazione, oggi non vi sarebbe il cristianesimo: ma come si fa a costruire la stria con i se? Non si può dire cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse peccato. È ozioso, e teologicamente pericoloso, mettersi su tale strada: potrebbero scaturirne dei mostri. Ciò che sappiamo dell’uomo, è che la sua natura è decaduta dopo il peccato di Adamo, e che Gesù Cristo l’ha risollevata, dando agli uomini la possibilità di divenire figli di Dio. La possibilità, non la certezza, come vorrebbero alcuni. Il dramma dell’uomo è qui, come aveva visto Kierkegaard: nella categoria della possibilità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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