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Per s. Tommaso si può insegnare qualcosa agli altri?

Si può insegnare qualcosa a qualcuno? E cosa vuol dire, propriamente, insegnare: far scoprire, o magari ricordare qualcosa che l’altro sapeva già, pur non sapendo di saperla; oppure creare in lui una conoscenza del tutto nuova, che egli non possedeva affatto? Entrambe le tesi sono state sostenute, fin dall’antichità, sia col ragionamento che con l’osservazione. Socrate, Platone, Sant’Agostino propendevano per la prima risposta; san Tommaso d’Aquino, partendo dal pensiero di Aristotele, ma facendo anche tesoro della lezione platonica e neoplatonica e di quella agostiniana, propendeva maggiormente per la seconda.

Scrive San Tommaso d’Aquino nella Sumnma Theologica (in: Fabrizio Ravaglioli, Educazione occidentale. Storia, problemi e documenti, Armando Editore, 1998, vol. 1, Il mondo antico e il mondo medievale, pp. 318-320):

Pare che un uomo non possa insegnare ad un altro, poiché dice il Signore: «Non fatevi chiamare maestri, affinché — commenta la glossa di Girolamo — non attribuiate un onore divino agli uomini». Dunque propriamente l’essere maestro è onore divino; ma l’insegnare è proprio del maestro, dunque l’uomo non può insegnare, e ciò spetta solo a Dio. (…)

Ma in contrario sta il detto dell’Apostolo, nella 1a Epistola a Timoteo: «Per il quale (Vangelo) io son fatto predicatore e apostolo…, dottore delle genti nella fede e nella verità».

Rispondo: va detto che su questo argomento diverse furono le opinioni. Averroè infatti, nel commento al III "De Anima". Ha sostenuto che unico è l’intelletto possibile in tutti gli uomini, come abbiamo già visto; da ciò derivava che le specie intelligibili siano le stesse in tutti gli uomini. Secondo questo presupposto, egli sostiene che un uomo nell’insegnamento non produce nell’altro un sapere diverso da quello che egli stesso ha; ma gli comunica la stessa scienza che egli ha, spingendolo ad ordinare le immagini sensibili nella sua anima perché siano convenientemente disposte alla comprensione intellettuale. (…)

Diversa è l’opinione dei Platonici, i quali affermarono ce il sapere è insito nelle nostre anime fin dalla loro origine per la partecipazione delle forme separate, come si è visto (Sum. I, quaestio 84, art. 3); ma l’anima, per la sua unione con il corpo, trova impedimento nel contemplare liberamente quelle cose di cui ha scienza.(…)

Si deve invece dire che il maestro causa il sapere nel discepolo, portandolo dalla potenza all’atto, come si legge nell’VIII della "Fisica". Perché ciò sia evidente si deve considerare che, degli effetti prodotti da un principio esterno, alcuni dipendono solo dal principio esterno, come la forma della casa è prodotta nella materia solo dall’arte; altri invece dipendono ora da un principio esterno, ora da uno interno: così come la salute è causata in un malato ora da un principio esteriore, cioè dall’arte medica, altre volte invece da un principio interno, come quando uno guarito per la capacità stessa della natura. (…)

L’uomo dunque acquista il sapere sia per un principio interiore – come è chiaro in chi acquista il sapere con personale scoperta –, sia per un principio esteriore, come è chiaro in chi impara dal maestro. In ogni uomo infatti v’è un principio del sapere, cioè la luce dell’intelletto agente, con la quale si vengono immediatamente e naturalmente a conoscere alcuni universali principi di tutte le scienze. Quando poi uno applica tali principi universali a dei particolari di cui abbia diretta esperienza o ricordo, acquista scienza di quelle cose che non conosceva per propria scoperta, procedendo dal noto al’ignoto. Del pari, qualsiasi maestro, dalle cose che il discepolo conosce, lo conduce alla conoscenza delle cose che ignora, secondo quanto Aristotele dice nel I libro degli "Analitici posteriori", che cioè OGNI INSEGNAMENTO E OGNI APPRENDIMENTO DERIVANO DA UNA PRECEDENTE CONOSCENZA.

Il maestro conduce il discepolo dalle cose già note alla conoscenza delle cose ignote in due modi: primo, offrendogli degli aiuti o strumenti di cui il suo intelletto si possa servire per acquistare il sapere, come ad esempio proponendogli delle proposizioni meno universali che tuttavia il discepolo è in grado di giudicare con l’aiuto di proposizioni già note; o proponendogli degli esempi sensibili, simili o opposti o altri del genere; da cui l’intelletto del discepolo vien guidato alla conoscenza della verità ignota. In un secondo modo quando rinforza l’intelletto del discente, non con qualche facoltà attiva quasi di natura superiore, come è stato detto innanzi dell’illuminazione da parte degli angeli (tutti gli intelletti umani sono infatti dello stesso grado nell’ordine naturale), ma in quanto indica al discepolo il rapporto tra i principi e le conclusioni, mentre forse egli da solo non avrebbe avuto tanta capacità discorsiva da dedurre le conclusioni dai principi. Per questo nel primo libro degli "Analitici posteriori" è detto che LA DIMOSTRAZIONE È UN SILLOGISMO CHE DÀ SCIENZA. E con questo metodo chi dimostra dà il sapere a chi l’ascolta.

La prima osservazione che ci sentiamo di fare è che la questione qui sottoposta a ragionamento critico non è affatto peregrina, o teorica, o astratta. No: è estremamente concreta, terribilmente vitale per la nostra esistenza. Si può o non si può insegnare qualcosa a qualcuno? Per esempio: si può svegliare la gente dall’ipnosi isterica collettiva, per cui crede che ci sia una terribile pandemia, e che tale pandemia giustifichi un’emergenza sanitaria quale mai si era vista fino ad oggi, e che tale emergenza includa il dovere di vaccinarsi per tutta la popolazione, bambini e lattanti compresi? Perché se si può svegliare gli ipnotizzati, c’è ancora una speranza di salvezza; ma se non si può, non resta che rassegnarsi alla fine. Verranno a stanarci casa per casa, ci toglieranno la patria potestà, inoculeranno il siero malefico a noi e ai nostri figli e ai nostri nipoti; e lo faranno fra gli applausi della massa, la quale approverà, si compiacerà, sosterrà che era la sola cosa giusta da fare. Se invece non si può insegnare nulla, allora bisogna mettere nel cassetto ogni velleità di cambiare la situazione e rassegnarsi ai prossimi cinquanta o cento o mille anni di schiavitù perpetua: una schiavitù volontaria, come diceva Etienne de la Boëtie, ma pur sempre una schiavitù, chiara, indubitabile, immodificabile. E dunque, è questione di somma importanza se si possa o non si possa insegnare qualcosa a qualcuno; se, in particolare, si possa o non si possa trasmettere la verità a chi non è consapevole di essa, e si aggira a tentoni, come un cieco, nelle tenebre di un’ignoranza indotta dal potere. Del resto, lo stesso Gesù Cristo ammoniva i suoi discepoli che non bisogna dare le perle ai porci; perché i porci non amano le perle, non sanno che farne; vogliono le ghiande, perché quello è il loro cibo, e se qualcuno, invece delle ghiande, dà loro le perle, essi si arrabbiano, s’infuriano, si ribellano e lo calpestano a morte con i loro zoccoli, per punirlo di aver somministrato loro un cibo inadatto, per protestare e manifestare tutta la loro sacra indignazione, tutto il loro legittimo risentimento. E allora?

San Tommaso d’Aquino ci ricorda che sono sostanzialmente due le teorie dell’apprendimento. Secondo la prima, non si può parlare, propriamente, di trasmissione del sapere, perché il docente non trasmette al discepolo nulla che questi non abbia già in se stesso: il suo compito, pertanto, sarà piuttosto quello di aiutarlo a ricordare, o di riordinare, le conoscenze delle quali in realtà dispone, ma che ignora di avere. Secondo l’altra, il docente trasmette un sapere nuovo ed effettivo, e quindi fornisce al discepolo un nutrimento che non possedeva, e senza il quale non avrebbe potuto accrescere il proprio sapere. San Tommaso propende per la seconda. Pur ammettendo che vi è qualcosa di vero anche nella prima, sottolinea tuttavia il ruolo attivo e in certo qual senso creativo dell’insegnamento, riaffermando l’importanza di trasmettere il sapere da chi lo possiede a chi ne è privo, ma desideroso di riceverlo. La sua teoria riflette la fiducia che l’uomo cristiano ha in se stesso, con i doni della grazia, e che oltrepassa di molto la fiducia precaria ed instabile che aveva di sé l’uomo pagano, costretto a contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze umane. In ogni caso, noi siamo figli della visione educativa di San Tommaso, non di quella di Platone: nessun maestro serio pensa di avere solo il compito di risvegliare un sapere già esistente, o di aiutare il discepolo a organizzare una scienza della quale è già depositario, e sia pure in forma inconsapevole. D’altra parte, non basta poter trasmettere il sapere. È necessario che il discepolo sia nel giusto atteggiamento per riceverlo efficacemente, perché anche il miglior nutrimento spirituale non produrrà alcun effetto, se viene somministrato a colui che non lo desidera, non ritiene di averne bisogno, o, peggio di tutto, crede di possedere già tutto quel che gli occorre per muoversi con piena consapevolezza nello scenario della vita. Qui subentra un ulteriore problema, che è quello della consapevolezza di sé: non basta avere la necessità d’imparare, bisogna anche avere il giusto atteggiamento nei confronti della propria ignoranza e di colui, cioè il maestro, che può aiutare a colmarla, o a ridurla sensibilmente.

A questo punto la domanda fondamentale che ci si deve porre è quale sia l’essenza dell’insegnamento. Qual è il denominatore comune di ogni sapere, nel momento in cui si tenta di trasmetterlo da chi lo possiede a colui che non lo possiede? A noi sembra che la risposa sia, senza ombra di dubbio, la verità. Di qualsiasi sapere stiamo parlando — quello dell’astronomia, o delle scienze naturali, o della filosofia, o della letteratura, o delle teologia, o di qualunque altro ambito del sapere — l’elemento comune è la verità. È utile e necessario il sapere che si fonda sulla trasmissione e sul rispetto della verità; è inutile o dannoso quello che prescinde da essa e si basa perciò sulla mera opinione (dòxa, dicevano i greci), perché la mia opinione vale quanto la tua, e viceversa: e una volta che ci si è spinti profondamente nelle paludi del relativismo, diventa impresa pressoché impossibile tirarsene fuori. Dunque, è utile e necessario il sapere vero; è inutile e dannoso il sapere falso. La battaglia di Socrate contro i sofisti nasceva da qui; e anche la battaglia di Savonarola, o quella di Kierkegaard, contro i cristiani tiepidi nasceva da qui. O si arde di zelo per la verità; o si è pronti a qualunque sacrificio per amore della verità; o si cerca la verità come fine e non già come mezzo per qualcos’altro, oppure non si è in grado d’insegnare nulla ad alcuno, ed effettivamente non c’è nulla da insegnare, perché insegnare qualcosa che non sia la verità è compito da ciarlatani e da imbonitori da fiera, non di autentici maestri. Sì, è vero quel che dice il Vangelo: c’è qualcosa di divino nell’autentico insegnamento, nell’autentica vocazione del maestro. Il vero maestro è colui che insegna la verità e nella verità. Ma per fare ciò, egli deve morire alle seduzioni del mondo, in particolare alla tentazione di piacere a coloro che lo ascoltano, e andare diritto per la propria strada, se occorre in perfetta solitudine, circondato dall’incomprensione generale, forse anche dalla disapprovazione e dall’ostilità altrui, ma senza mai deflettere di un millimetro dalla difesa del vero. Solo chi ama la verità in questo modo; solo chi la pone al di sopra di tutto, anche della propria vita, per non dire del proprio comodo, possiede la stoffa del vero maestro; e solo costui è degno d’insegnare qualcosa a qualcuno. Il mondo è pieno di falsi maestri, di ciarlatani e imbonitori da fiera, è pieno di falsi filosofi, di falsi teologi, di false guide spirituali: gente che accarezza le masse dicendo loro quel che è gradito ai loro orecchi, ciò che scusa le loro debolezze e assolve con noncuranza i loro vizi. No, il vero insegnamento non è e non può essere questo: il vero insegnamento è sempre insegnamento della verità, nella verità, con la verità. Se si deflette da questo sentiero, per stretto e faticoso esso sia, automaticamente si scivola nell’errore, nella menzogna, nella ciarlataneria.

Ma chi ci garantisce di essere nella verità? Perché questo è il vero nodo della questione. Non basta dire: io sono nella verità, per essere figli della verità. La verità è oggettiva: la si può riconoscere, purché si posseggano gli strumenti idonei, e la si può in un certo qual senso verificare. Anche dai suoi effetti, la verità è intransigente, è aspra, è perfino sgradevole agli occhi di chi ama le comodità e l’applauso del mondo; ma offre infinte consolazioni a coloro che la cercano con cuore sincero e con animo sgombro da secondi fini. Di questo, più che mai, si sente il bisogno, specialmente oggi; di questo sono assetate e affamate immense moltitudini, abbandonate e tradite dai loro maestri, dai loro pastori, dalle loro guide. Questo, più che mai, è il momento della verità. E non ci sono scorciatoie, né furbizie, né sotterfugi che tengano: la verità è esigente, sia riguardo a chi la insegna, sia riguardo a chi la riceve. Un degno maestro ha bisogno di un degno discepolo. Ci sono ancora, oggi, degni maestri e degni discepoli? Secondo noi sì, molto più di quel che non appaia. La società moderna è fatta in modo da far risaltare le nullità, i narcisistici, i palloni gonfiati, i vanitosi che si credono chi sa chi: sia come maestri, i quali ovviamente sanno già tutto, sia come discepoli, i quali ovviamente non hanno bisogno d’imparare, e fingono di ascoltare per mera cortesia, ma in realtà si ritengono più maturi e più evoluti di qualunque maestro. Ebbene, tutti costoro devono sparire nel nulla da cui pretendono di emergere. Il mondo di domani non ha bisogno di loro. Il mondo di domani, che richiederà un’immensa opera di bonifica e di ricostruzione – di bonifica dei miasmi pestiferi della falsa conoscenza e del falso sapere, di ricostruzione di tutti i valori e di tutte le giuste certezze, quelle che aiutano a vivere e alimentano la speranza — ha bisogno di tutt’altri tipi umani. Ha bisogno di veri maestri e di veri discepoli, perché ha bisogno di vero sapere e di vera trasmissione del sapere.

Avanti, dunque: rimbocchiamoci le maniche, perché il giorno sarà lungo e la messe è abbonante, ma gli operai sono pochi.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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