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Cosa pensavano e pensano gli ebrei di Gesù Cristo

Che cosa pensavano gli ebrei di Gesù Cristo, negli anni immediatamente successivi alla sua vita terrena? E che cosa ne pensano ancora oggi, a duemila anni di distanza? Prima di rispondere a queste domande, vogliamo qui precisare, con estrema chiarezza, che non adoperiamo la parola "ebreo" nel senso di membro del popolo d’Israele, bensì esclusivamente nel significato religioso, ossia come seguace della religione ebraica. Più precisamente ancora: non un qualsiasi seguace della religione ebraica, magari poco praticante e intimamente agnostico, come oggi ve ne sono tanti, un po’ fra tutti gli appartenenti nominali alle varie religioni; ma un seguace osservante e rigoroso, cioè che prenda molto sul serio non solo il corpus tradizionale di quella dottrina, la Torah (che coincide con il Pentateuco dei cristiani), ma anche con la Torah orale, che nel corso dei secoli è confluita nel Talmud ed è stata fissata per iscritto.

La risposta si trova non solo nei testi cristiani del Nuovo Testamento, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere paoline e le altre Lettere cattoliche (di Pietro, di Giacomo, di Giovanni, di Giuda), ma anche nei libri dello storico ebreo Giuseppe Flavio, autore della famosa Guerra giudaica e delle Antichità giudaiche, che sono le fonti principali per la conoscenza di quel periodo della stria d’Israele, nonché nello stesso Talmud, il quale, essendo stato codificato per iscritto, conserva in maniera definitiva l’insegnamento tramandato oralmente dai rabbini, e nel quale trova posto anche la risposta alle nostre domande. Beninteso bisogna andare a leggerselo direttamente e non contentarsi di ciò che dicono praticamente tutte le storie dell’ebraismo, nelle quali il contenuto del Talmud, per ciò che riguarda i giudizi su Gesù Cristo e sui cristiani, vengono pudicamente passati sotto silenzio, in nome del "dialogo" e della "buona volontà" (a senso unico) ma con poco o nessun rispetto della verità storica.

Al Talmud bisogna poi aggiungere il Toledoth Yesu, una raccolta di testi violentemente anticristici e anticristiani, nei quali la figura di Gesù viene diffamata nel modo più oltraggioso; racconti che sono stati messi per iscritto nel corso del Medioevo, ma la cui tradizione orale sembra essere molto antica, pare del II secolo d.C. Essi non fanno parte ovviamente del bagaglio delle scritture canoniche, tuttavia, essendo di argomento religioso, sia pur ferocemente polemico, sono presi sul serio da quegli ebrei che tendono ad accogliere con devoto rispetto tutto ciò che viene dalla loro tradizione religiosa.

Nel Toledoth Yesu non soltanto si lega la divinità di Cristo e la sua nascita verginale da Maria, ma si afferma che Egli è nato da una relazione adulterina di Maria con Giovanni Pantera, nascita doppiamente impura perché il Bambino fu concepito quando sua madre era mestruata; e naturalmente che morì (non sulla croce, ma impiccato, oppure, secondo un altro racconto, di morte naturale) e non risorse affatto, ma il suo cadavere venne nascosto dal giardiniere e i suoi discepoli inventarono la favola della Resurrezione per nascondere la sua morte ignominiosa e il fallimento di tutte le sue affermazioni di essere l’atteso Messia. Quando il contenuto di questo libro trapelò all’esterno, fra i non ebrei, suscitò un immenso scalpore e alcune forti reazioni da parte dei cristiani. La bolla Cum sicut nuper di papa Giulio III del 1554 ordinò che i libri ebraici blasfemi dovessero venire confiscati e bruciati, ma che le altre scritture ebraiche dovevano essere rispettate, e lasciati in pace i loro possessori.

Ecco la traduzione dal latino del testo (da: Bullarium Romanum, Torino, 1860, VI, pp. 482-483):

… Disponiamo ed ordiniamo che a tutte le università degli ebrei, che si trovassero nella vostra giurisdizione, cominciate ed ordiniate da parte nostra che, passati quattro mesi dal giorno di questa intimazione e notifica, tanto nelle loro sinagoghe e nelle loro case pubbliche o private, quanto in ogni altro luogo, verrà fatta diligente ricerca di tutti e singoli i libri nei quali il nome del nostro Salvatore Gesù — da essi reso con Jesevi Anozri — venisse nominato in modo blasfemo o comunque senza rispetto; e che quanti saranno trovati in possesso di siffatti libri saranno senza pietà puniti con le dovute pene, così pecuniarie (sino alla confisca dei beni) come — se la loro contumacia, o il genere di delitto, lo richiederà — corporali, non esclusa quella capitale, ed altre, con le quali vengono puniti quelli che apostatano dalla fede cristiana. E tuttavia, anche dopo i detti quattro mesi, voi, oppure altri che voi deputerete a questo scopo, cercherete ed esaminerete diligentemente detti libri, o li farete ricercare ed esaminare, e senz’altro punirete quanti sorprenderete detentori di detti libri, con le pene che spettano ai suddetti apostati.

Quanto a Giuseppe Flavio, è noto che egli fa una citazione di Gesù Cristo nel Testimonium Flavianum che è contenuto nel libro XVIII delle Antichità giudaiche, e che tuttavia alcuni filologi hanno a lungo considerato come frutto di un’interpolazione dei copisti successivi; un ulteriore riferimento si trova poi anche nel libro XX. Va notato che oggi la maggior parte degli studiosi tende a restituire a Giuseppe Flavio la paternità del cosiddetto Testimionium Flavianum, escludendo che si tratti di una pura e semplice invenzione degli amanuensi cristiani delle epoche successive. Resta aperto il dibattito su quale fosse il tenore complessivo della citazione, se favorevole a Gesù, come appare dal testo tradizionale, o sfavorevole; e bisogna dire che la seconda ipotesi, ossia che lo storico ebreo formuli un apprezzamento totalmente negativo sulla figura e l’opera di Gesù Cristo, considerato come un falso Messia e un mestatore, appare quasi a tutti come decisamente più verosimile e in linea con i sentimenti costantemente manifestati dall’autore. E se è vero che questi si rese inviso ai suoi compatrioti per il suo atteggiamento incondizionatamente filo-romano, è altrettanto vero che quanto al giudizio su uomini e cose, Roma a parte, Giuseppe Flavio appare un tipico ebreo del suo tempo, portavoce del comune sentire del suo popolo in tutte le questioni, specialmente quelle di carattere religioso.

Citiamo adesso una pagina dal libro di Pier Luigi Baima Bollone Sepoltura del Messia e sudario di Oviedo (Torino, Società Editrice Internazionale, 1997, pp. 95-97):

Nelle "Antichità giudaiche" si trova un altro passo, noto come "Testimonium Flavianum", del quale oggi è perlopiù riconosciuta l’autenticità di base. La versione più contenuta, verrebbe fatto di dire la versione minima, è quella riportata nella "Storia universale" di Agapio, vescovo melchita di Geropoli di Siria nel X secolo:

«In quel tempo ci fu un uomo saggio chiamato Gesù la cui condotta era buona; le sue virtù erano universalmente riconosciute. Molti ebrei e stranieri divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò alla morte mediante crocifissione, ma coloro che erano diventati suoi discepoli predicarono la sua dottrina: raccontano che egli apparve loro vivo tre giorni dopo il supplizio. Forse era quel Messia su cui i profeti avevamo detto meraviglie.»

Questo è il testo come viene oggi proposto:

«Circa a quel tempo apparve Gesù, un uomo saggio (se davvero si può chiamarlo uomo); infatti egli era uno che faceva opere prodigiose, un maestro di uomini che accoglievano la verità con gioia, ed egli condusse con sé molti ebrei, e anche molti della popolazione greca. (Questo era il Cristo). E quando Pilato gli ebbe inflitto la punizione della croce, in base alle accuse dei nostri capi, quelli che lo avevano amato per primi non desistettero; (infatti egli appare loro il terzo giorno, nuovamente in vita, avendo i Profeti di Dio raccontato di lui questi e altri innumerevoli prodigi). E fino ad oggi la stirpe dei Cristiani, così chiamati da lui, non si è estinta.»

Il testo non era così nell’originale. Infatti il filosofo cristiano Origene (183-253), scrivendo nell’anno 250 affermava che Giuseppe non credeva che il nostro Gesù fosse il Cristo.

Certamente però il "Testimonum Flavianum" risale almeno al IV secolo, giacché lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (265-340) pochi anno dopo Origene lo cita per esteso esattamente come lo conosciamo oggi, dopo aver rilevato che Giuseppe «fa menzione anche del nostro Salvatore in questo modo».

L’argomento di Origene consente un’utile osservazione: il brano di Giuseppe presupporrebbe che l’autore sia stato cristiano, ciò che certamente non fu. Inoltre l’argomento della collocazione . Infatti il racconto di Gesù segue il resoconto di sventure che colpirono gli Ebrei al tempo in cui era governatore Ponzio Pilato. Nelle pagine successive Giuseppe riporta le angherie sofferte nello stesso periodo dagli Ebrei a Roma, riferendo l’episodio di una matrona romana sedotta grazie alla complicità dei sacerdoti del tempio di Iside. È chiaro che nell’intervallo non potrebbe trovar luogo un passo di esaltazione religiosa

Con tutto ciò l’ipotesi che Giuseppe non abbia scritto di Gesù non è ragionevole, se non altro perché — come abbiamo visto — narra le vicende di quasi tutte le personalità che influirono sulla vita ebraica di quel periodo, cosicché il silenzio su Cristo non sarebbe plausibile, e infine perché il cristianesimo, come abbiamo visto negli scrittori latini, era ben conosciuto in Roma.

Il teso riportato in precedenza, purgati delle parti scritte in parentesi, potrebbe essere accettabile. Tuttavia ci è una considerazione che induce a ritenere che la situazione possa essere ben diversa. Dalle parole di Origene pare comprendere che Giuseppe neghi totalmente il carattere messianico di Gesù. Eppure noi sappiamo che Giuseppe riferì a Vespasiano la profezia giudaica dell’arrivo di un dominatore del mondo della Palestina. Egli intese, in sostanza, in senso politico una profezia religiosa, e pertanto non può averla trascritta nel corso di una narrazione di eventi storici.

Questi rilievi rendono accettabile la ricostruzione del testo base formulata da Eisler, che risulta la seguente:

«Ora, in quel tempo giunse (occasione per nuovi disordini) un certo Gesù, uno stregone di un uomo, se infatti può essere definito un uomo, il quale era il più mostruoso di tutti gli uomini, che i suoi discepoli chiamavamo Figlio di Dio, per aver fatto tali meraviglie che nessun altro uomo aveva mai fatti… era, infatti, un maestro di trucchi stupefacenti per uomini tali che accettavano la vita normale con gioia. E sedusse molti Giudei e anche molti della nazione greca e era ritenuto da loro il Messia. E quando, in base alle accuse degli uomini principali fra di noi, Pilato lo aveva condannato alla croce, ancora coloro che prima lo avevano ammirato, non cessarono di delirare. Perché sembrava loro, essendo stato morto per tre giorni, era apparso loro vivo, come i Profeti, ispirati da Dio, avevano predetto — queste e diecimila altre cose meravigliose su di lui. E anche ora la razza di coloro che sono detti "messianisti" da lui, non è estinta». (…)

I testi rabbinici del IV-V secolo contengono alcuni riferimenti, tutti ad intento palesemente denigratorio, a Gesù che pratica la magia, allontana il popolo dalla dottrina e viene crocifisso alla vigilia di Pasqua. Nelle 15.000 pagine del Talmud si riferiscono a Gesù una quindicina di passi diversi. I due più importanti si trovano nel Talmud di Babilonia.

«Gesù fu appeso alla vigilia della Pasqua (Ebraica). Nei quaranta giorni precedenti uscì un banditore e gridò: "Si è omesso di lapidarlo, perché praticò (la) magia e traviò Israele e la attrasse nell’apostasia. Chiunque abbia qualcosa da dire in sua difesa, lasciatelo venire e dichiararlo."Poiché nulla fu messo in luce in sua difesa, egli fu appeso alla vigilia di Pasqua (Sanhedrin 43a).»

«Rabbi Giosuè stava raccontando lo Shema quando Gesù gli venne davanti. Egli intese riceverlo e gli fece un segno. Egli [Gesù pensò] che ciò fosse per respingerlo, gli diede in testa un mattone e lo adorò. "Ravvediti", disse Rabbi Giosuè a Gesù». Gesù rispose: «Io ho imparato questo da te: colui che pecca e spinge altri a peccare non ha compreso il significato del pentimento». E un Rabbi ha detto: «Gesù il Nazareno praticò la magia e traviò Israele» (B.T.B. Sanhedrin 107b).

Un gran numero di riferimenti si trovano nei "Toledoth Yesou", raccolta di leggende ebraiche conosciuta in una versione del X secolo. Si tratta pertanto di uno scritto tropo tardo e polemico per potergli riconoscere la minima attendibilità.

Riassumendo. Giuseppe Flavio, il cui pensiero è in linea con quello della maggior parte degli ebrei suoi contemporanei (eccezion fatta per la questione del rapporto politico di Israele con l’Impero romano), non ignora l’esistenza storica di Gesù Cristo, ma lo ricorda in un breve asso delle Antichità giudaiche, descrivendolo tuttavia sotto una luce fortemente negativa, presentandolo come uno stregone, un mago, un impostore e un ciarlatano che ha tentato di fuorviare il suo popolo e che ha pagato con una morte pubblica e vergognosa il fio delle sue colpe, anche se i suoi seguaci non si sono dati per vinti e continuano a propalare falsi racconti su di lui, sulla sua vita e la sua resurrezione dai morti, facendo credere che fosse proprio lui il Messia atteso con tanto desiderio dal popolo ebreo. Quel che pensavano le autorità ebraiche, e in particolare il Sinedrio, risulta dalle persecuzioni sanguinose che colpirono santo Stefano, lapidato dalla folla; san Giacomo detto il Maggiore, messo a morte per ordine di Erode Antipa; san Giacomo il Minore, uno dei dodici Apostoli, martirizzato verso il 62 d.C.; mentre il Sinedrio tentò di far assassinare san Paolo durante la detenzione ad opera dei Romani.

Quanto ai secoli successivi, il Talmud e il Toledoth Yesu offrono materiali più che sufficienti a capire cosa pensassero di Gesù e dei cristiani gli ebrei devoti e osservanti. Di certo non vi è mai stato, non diciamo un accenno di autocritica per quel che riguarda l’atteggiamento nei confronti di Gesù, ma neppure per le innumerevoli irregolarità che hanno caratterizzato il processo religioso celebrato davanti a Caifa (chi si è preso la briga di studiarle tutte alla luce della legge mosaica ne ha contate svariate decine) e dunque per l’evidente malafede di quanti vollero fermissimamente la Sua morte, e pretesero perfino che Pilato lo condannasse senza neppure interrogarlo, sulla base della loro sola parola (cfr. Gv 18,30). Non si pretende certo che vi sia, da parte ebraica, il riconoscimento della Sua divinità, e neppure della Sua natura messianica; ma che il Sinedrio sia stato ingiusto verso di lui e abbia agito in maniera illegale, questo, almeno in via dubitativa, qualche autorità ebraica, qualche rabbino, avrebbe potuto riconoscerlo, se fosse vero che anche da parte loro vi è una sincera volontà di dialogo e di superamento delle passate incomprensioni. Invece quel che si vede è una auto-mortificazione a senso unico della Chiesa: che inizia con la Nostra aetate e prosegue con l’assurda e blasfema affermazione, da parte dei papi post-conciliari, che i fratelli maggiori (espressione già di per sé ingannevole e fuorviante) non hanno alcuna ragione per convertirsi a Gesù Cristo, poiché L’Alleanza con Dio è sempre valida e Dio non si rimangia le Sue promesse. Ma allora l’Antica Alleanza e la Nuova sono esattamente la stessa identica cosa? Ai fedeli cattolici, per quasi due millenni, la Chiesa ha insegnato un’altra cosa: che la Nuova Alleanza ingloba e oltrepassa l’Antica; che la invera, ma al tempo stesso la supera e la perfeziona. In altre parole, che se si è fautori della crocefissione di Gesù Cristo, ritenendolo un bestemmiatore e un malvagio stregone, non si può anche essere eredi della Promessa divina e sedere alla stessa tavola dei cristiani. Questo è un assurdo sul piano logico, oltre che su quello dottrinale, storico e morale. Come può non vederlo chiunque sia in buona fede?

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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