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25 Dicembre 2021Uno dei segnali infallibili che indicano come e perché la teologia contemporanea tanto spesso ha abbandonato la retta via e si è smarrita nel labirinto dei sentieri perduti, che non conducono da nessuna parte se non al relativismo e alla progressiva perdita della fede, è l’abuso della psicologia, o meglio dello psicologismo, nella lettura e nell’interpretazione dei passi scritturali.
Citiamo a titolo d’esempio una pagina del teologo Alfred Läpple (1915-2013), che fu docente di Catechesi e pedagogia religiosa presso la Facoltà teologica dell’Università di Salisburgo, tratta dal suo lavoro Messaggio biblico per il nostro tempo. Manuale di catechesi biblica; titolo originale: Biblische Verkündigung in der Zeitenwende, Verkbuch zur Bibelkatechese in 3 voll., Don Bosco Verlag, München; versione italiana delle benedettine di S. Maria in Rosano, Modena, Edizioni Paoline, 1973, pp. 424-425 e 426-427):
A differenza di Gesù di Nazaret, Paolo era un TIPICO UOMO DI CITTÀ. Cresciuto un una grande città (At 21,39), amava il dialogo e la discussione. Non provava alcun timore nel comparire davanti a gruppi piuttosto numerosi. Conosceva la retorica e possedeva meglio di qualsiasi altro apostolo l’arte del manager. Sapeva organizzare, sapeva pianificare a lunga scadenza e far lavorare altri per i suoi scopi. Nello stesso tempo era geloso e vigile nel difendere il suo ruolo di guida e non permetteva che lo si ignorasse e lo si misconoscesse. Uomo della grande città, sapeva far fronte anche alle situazioni più aggrovigliate e apparentemente senza via d’uscita. Nei suoi discorsi e nelle sue lettere sapeva manovrare il registro della teologia e dell’ascesi altrettanto bene di quello della polemica, della caricatura e talvolta anche del sarcasmo.
Indicativi della sua origine cittadina sono anche i paragoni da lui usati nelle lettere, paragoni desunti spesso dal CAMPO DEL DIRITTO DELLO SPORTO O DELLA VITA MILITARE.
Paolo era tutt’altro che un uomo giovanile [o gioviale?] e cordiale. Era un COMPAGNO "DIFFICILE", che doveva combattere con se stesso e non rendeva la vita facile ai collaboratori. Era duro e inesorabile con sé ed esigeva dai collaboratori lo stesso impegno e la stessa dedizione disinteressata.
Qualche volta si è tentato di spiegare il suo carattere difficile come una conseguenza della sua costituzione e della sua salute. Non ci si è peritati di additare in lui uno psicopatico, un neurotico, addirittura un epilettico, richiamandosi in qualche modo a quelle parole: «Spina nella carne» (2 Cor 12,7).
Qualche volta si ha la sensazione che egli abbia avuto delle fasi di sovraffaticamento e di esaurimento e che dopo essersi riposato e ripreso, volesse recuperare con un’attività frenetica quanto aveva dovuto tramandare [o tralasciare?] durante le settimane di malattia. Alcune difficoltà da lui incontrate con alcune comunità cristiane dipendono certamente anche dalla sua mentalità, dal suo temperamento, dalla sua pretesa di dirigere e dalla sua attività missionaria spossante. (…)
Una caratteristica della teologia paolina consiste sicuramente nel fatto che si tratta della TEOLOGIA DI UN CONVERTITO, elaborata in netto confronto e contrapposizione alle concezioni e agli aderenti alla religione precedente. La psicologia dei convertiti predilige la pittura in bianco e nero e talvolta sottolinea anche intenzionalmente certi punti, che in realtà non meriterebbero tanto rilievo.
Altra nota peculiare della mentalità e della pietà dei neoconvertiti è quella di porre elevate esigenze alla nuova vita di fede di essere critici verso i correligionari di più antica data, che si accontentano di un impegno piuttosto mediocre.
La teologia paolina è conseguentemente una TEOLOGIA POLEMICA sia nei confronti del giudaismo, sia soprattutto nella critica vigile di fronte ad ogni svuotamento e minimizzazione del messaggio di Cristo in campo cristiano. Tutte le volte che l’evento di Cristo veniva decurtato e frainteso con le parole o nella celebrazione della eucarestia, Paolo è insorto appassionatamente. Senza questo continuo confronto con gli altri, Paolo non sarebbe Paolo. Altrettanto appassionatamente reagiva, quando si attaccava o si metteva in dubbio la sua missione e la sua autorità di apostolo. Allora diventava veramente polemico, sorretto da una fiducia molto lucida in se stesso: «Quand’anche noi stessi o un angelo disceso dal cielo vi annunziasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia scomunicato!» (Gal 1,8).
La teologia paolina è una TEOLOGIA MISSIONARIA, che mira a conquidere, convincere, conquistare. Paolo vuole tutt’altro che comunicare una semplice informazione neutrale. Nella sua vita egli ha sperimentato Cristo come la cosa più grande, più beatificante, pacificante e affascinante che ci sia e si sente spinto a dischiudere agli altri la via che porta a Lui. La sua teologia missionaria sa sottolineare gli accenti giusti sia dal punto di vista psicologico che teologico. Parla agli abitanti di Efeso in modo diverso che a quelli di Atene. Prende visione dei problemi e dei bisogni degli ascoltatori e poi formula la risposta adatta. Lavorando come missionario delle prima ora su un terreno vergine, non si è preoccupato di elaborare un catechismo completo. Quel che egli presenta è un catechismo di punti focali, in cui tratta le questioni decisive e scottanti, ma in cui lascia anche aperte e senza risposta non poche altre domande, appunto perché non costituivano un problema per quella data comunità. Egli ha anticipato e praticato come cosa ovvia quel che il Vaticano II ha denominato "hierarchia veritatum".
Non da ultimo la teologia paolina è una TEOLOGIA DELL’ESPERIENZA ED ESISTENZIALE. Non è la teologia di una testa calda e di un cuore freddo. Paolo non è pensabile senza la sua teologia, ma meno ancora senza il suo incontro e la sua vita con Cristo. Egli è uno che è stato colpito da Cristo. Per lui le sottili questioni della filosofia ellenistica sono pula e stoltezza, poiché in Cristo ha trovato tutta la sapienza.
Läpple, che fu un caro amico di Ratzinger ai tempi del Concilio, e perciò condivise le sue aperture moderniste, è fra quelli che nutrono seri dubbi sulla paternità di alcune lettere paoline, anche se non entra nello specifico di tale discussione, ed è anche persuaso che non si debba salvare ad ogni costo "l’armonia" fra i quattro Vangeli, vale a dire la loro concordanza finalizzata a fornire un quadro unitario e coerente, ma che sia più giusto accettare la"sfida" delle incongruenze e delle cesure che emergono da una considerazione puramente storico-critica fra essi. Pur non ponendosi, insomma, sul versante estremo dei "demitologizzatori", seguaci diretti o indiretti della lezione di Rudolf Bultmann, è insomma un teologo progressista, che non esita ad affrontare con piglio deciso i nodi che la Tradizione, a giudizio di costoro, ha lasciato irrisolti, e che devono essere invece sciolti per guadagnarsi la patente di cattolici adulti.
Nel tratteggiare il ritratto morale di san Paolo e nel porre la questione di come vadano lettere le sue lettere, lo storicismo che è alla base di tale concezione appare in maniera piuttosto evidente. Nel delineare le sue caratteristiche psicologiche, si notano sottili ma frequenti forzature, allo scopo di "umanizzare" il più possibile la figura dell’Apostolo, in modo da ridurne l’eccezionalità e abbassarla al livello degli uomini comuni. Nulla da obiettare sul fatto che egli fosse un tipico uomo di città; il fatto però che non avesse alcun timore a presentarsi davanti a gruppi numerosi di persone non ci sembra sia una conseguenza del suo essere tipicamente cittadino, ma un aspetto del suo temperamento. Gesù, che era un "tipico" uomo della campagna, e san Pietro e gli altri Apostoli, dopo l’inizio della loro missione evangelizzatrice, che erano pescatori o comunque abitanti di villaggi e modeste cittadine, sapevano fare altrettanto, e con pari disinvoltura. Che poi san Paolo fosse un abile organizzatore, non c’è dubbio; ma da qui a definirlo in possesso più di ogni altro dell’arte del manager, ce ne corre, almeno stando al vocabolario: il quale dice che il manager è il dirigente o l’amministratore di un’azienda o un’impresa, oppure colui che cura la rappresentanza degli interessi di uno sportivo, di un attore, di un cantante, ecc. Insomma non esageriamo nel volerlo calare a tutti i costi nel clima della società produttiva; non facciamone un Machiavelli che adopera qualsiasi mezzo per giungere al fine. Sarà stato anche vero che san Paolo sapeva affrontare qualsiasi situazione, anche la più ingarbugliata, riuscendo sempre a trovare la via d’uscita; ma non è vero che sapeva far lavorare gli altri per i suoi scopi Non era il tipo d’uomo che non si fa scrupoli nello strumentalizzare gli altri; al contrario, lavorava con gli altri e più degli altri, anche fisicamente, per uno scopo comune che era lì, sotto gli occhi di tutti, assolutamente trasparente: l’evangelizzazione dei pagani. Dire poi che nei suoi scritti sapeva manovrare il registro della teologia altrettanto bene di quello della polemica o del sarcasmo è un’altra forzatura. Nelle lettere san Paolo ci si mostra in tutta la sua statura di teologo; che poi quel teologo, in alcuni passi a carattere più contingente, cioè rivolti a delle comunità affette da problemi e difficoltà specifici, sapesse talvolta usare con efficacia anche la polemica (non diremmo il sarcasmo), è un altro paio di maniche. La teologia è la sostanza del discorso, la polemica è — talvolta – la forma: non si possono mettere sullo stesso piano, come fossero due "registri" letterari di pari significato. L’ascesi, poi, è un’altra cosa ancora: se uno scritto è di carattere ascetico, lo è perché da esso traspare l’intima e ineffabile esperienza dell’anima che desidera innalzarsi verso Dio; non è un registro che si possa "manovrare" a piacere.
Quando poi Läpple passa a definire san Paolo un uomo tutt’altro che cordiale e un compagno difficile, va molto al di là di ciò che i testi del Nuovo Testamento permettono ragionevolmente di dedurre, e si spinge arbitrariamente sul terreno delle congetture gratuite. Se la base per questo severo giudizio è Atti,15, 37-40, dove si narra di un dissidio fra Paolo e Barnaba a proposito di Giovanni detto Marco, ci sembra davvero un po’ poco: che cosa penseremmo di chi ci definisse delle persone difficili e litigiose (perché questo, in definitiva, significa tutt’altro che cordiali), solo perché una volta, in una singola occasione, abbiamo avuto un forte contrasto con qualcuno e magari abbiamo anche perso la pazienza? Un solo episodio è sufficiente per formulare un giudizio così tranchant sul nostro carattere? Si dirà che, oltre a quell’episodio nella vita missionaria di Paolo, ci sono dei passi, nei suoi scritti, dai quali emerge un atteggiamento fiero e risentito verso alcuni detrattori. Ebbene, ciò mostra che Paolo era dotato d’un temperamento appassionato, caldo, "meridionale": cosa ben diversa dall’essere una persona arcigna e un attaccabrighe. Quando poi l’autore propone di spiegare il carattere difficile di Paolo come l’effetto di non meglio precisabili problemi di salute, assume una cosa tutta da dimostrare, cioè che egli avesse realmente un "carattere difficile", come possibile spiegazione di un’altra cosa, i suoi problemi di salute. Ma che san Paolo rendesse la vita non facile ai suoi collaboratori (si noti la formulazione pudibonda, un tantino ipocrita, del concetto di rendere la vita difficile), è un’illazione che non trova appigli nei testi: da essi non risulta nulla del genere. Anche la congettura che lo stile di san Paolo tradisca fasi di sovraffaticamento (dovute anche alla sua non meglio precisata pretesa di dirigere) e fasi di ripresa, è del tutto gratuita: senza contare che fa rientrare dalla finestra l’ipotesi, in apparenza scacciata dalla porta, che egli fosse uno psicopatico, un nevrastenico o un epilettico, cioè un malato di mente.
Quello che poi l’autore dice della teologia di san Paolo, che è la teologia di un convertito, che è una teologia polemica, che è missionaria e che è una teologia dell’esperienza ed esistenziale, nella sostanza ci sembra abbastanza condivisibile; tuttavia è dall’insieme di queste puntualizzazioni e sottolineature che emerge un quadro a nostro avviso non troppo convincente. Ci spieghiamo meglio: è vero che san Paolo era un convertito recente e che perciò portava nella sua predicazione tutto l’entusiasmo e, se si vuole, tutta l’intransigenza che ai cristiani di più vecchia data dovevano apparire ammirevoli, ma forse un po’ eccessivi, e magari anche lievemente fastidiosi. Tutto vero. Sappiamo che chi si adagia e si "addormenta" nella fede non ama i bruschi risvegli: e san Paolo, come san Francesco d’Assisi, se si vuole, e anche come sant’Agostino, era un brusco risvegliatore, proprio perché sentiva l’urgenza di riguadagnare il tempo "perduto" e di comunicare agli altri il suo stesso zelo e il suo stesso entusiasmo. D’altra parte, porre l’accento su questo aspetto suggerisce che vi è qualcosa di esagerato nella teologia di Paolo, per non parlare del suo carattere duro e spigoloso. Stessa cosa per le altre sottolineature. Ma Paolo, come uomo, è — ovvia tautologia — null’altro che un uomo; la sua grandezza, come quella di tutti gli autori della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, viene dalla grazia. Ci chiediamo: dopo una simile scorpacciata di psicologia, anzi di psicologismo, non finiremo per dimenticarci che il vero Autore delle Sacre Scritture non è l’uomo, ma Dio stesso?
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