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22 Dicembre 2021Dell’eroico fatto d’armi di Culqualber (che in lingua amhara significa passo delle euforbie, ed è la naturale via d’accesso alla regione di Gondar), in Etiopia, dal 6 agosto al 21 novembre 1941, ci eravamo già occupati in diverse occasioni, specialmente nell’articolo Un quadro al giorno: "Gli eroi di Culqualber", di A. Beltrame (1941) (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/12/17). In esso si distinsero specialmente due battaglioni di regi Carabinieri del Primo Gruppo mobilitato, più una compagnia di zaptié, più un battaglione di Camicie Nere, per un totale di circa 2.900 uomini, i quali lottarono fino al sacrificio supremo per sbarrare la strada alle preponderanti forze britanniche (22.500 uomini: un rapporto di dieci a uno) avanzanti sull’ultimo ridotto del generale Guglielmo Nasi a Gondar, e sostenute da reparti corazzati e dall’aviazione (un centinaio di velivoli), mentre da parte nostra l’aviazione era pressoché inesistente, anzi scarseggiavano perfino i viveri, le munizioni e il carburante, e bande di guerriglieri irregolari si aggiungevano alle forze nemiche nell’attaccare insistentemente e con efferata ferocia (vale a dire con la tortura e l’uccisione dei prigionieri) le vie di comunicazione e i rifornimenti del nostro avamposto, rimasto ormai del tutto isolato.
Così riassume la battaglia di Culqualber Gianni Oliva nella sua Storia dei Carabinieri (Milano, Leonardo Editore, 1992, p. 196):
La battaglia di Culqualber fu invece l’atto finale della presenza italiana in Africa Orientale. Il caposaldo, che comprendeva appunto la sella di Culqualber ed era attraversato da una rotabile a tornanti, era il passaggio obbligato verso il ridotto centrale di Gondar, ove il generale Guglielmo Nasi si era arroccato dopo la caduta di Cheren e dell’Amba Alagi. Nell’agosto 1941 la difesa venne rinforzata con il 1° gruppo Carabinieri mobilitato, articolato su due compagnie nazionali e una di zaptié e che già aveva combattuto sulle alture di Blagir e dell’Incer Amba. I carabinieri furono destinati a «occupare il Costone dei Roccioni che si protendeva, con ciglioni a strapiombo, ad ovest della rotabile verso Gondar, ed il retrostante Sperone del km. 39. il più avanzati a sud, dal lato Dessiè-Debra Tabor. In tal modo il Gruppo Carabinieri col proprio comando al centro di raccordo degli opposti speroni, aveva un occhio sul fronte principale, a Sud, e un altro a quello di tergo, a Nord» ("I Carabinieri, 1814-1980", a cura del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, p. 466). Per quattro mesi il contingente oppose resistenza all’avanzata inglese, «traendo dai burroni pesanti tronchi d’albero per rinforzare i ripari, sforacchiando la roccia e realizzando sul costone posti scoglio a feritoie multiple per assicurare continuità di fuoco su tutte le direzioni» (Ibid., p. 468). I combattimenti ebbero esiti alterni, con posizioni perdute e riconquistate a prezzo di gravi perdite, e con la costante minaccia del taglio dei rifornimenti per la penetrazione avversaria fra le linee difensive. L’esito si ebbe fra il 18 e il 21 novembre, quando l’aviazione inglese, con oltre cinquanta velivoli, prese d’assalto gli elementi difensivi del caposaldo: «prima bombardato, poi investito da nord e da sud da non meno di 20 mila assalitori, il 1° Gruppo Carabinieri fu infine costretto a cedere, dopo aver lasciato sul campo innumerevoli vittime» (Ibid., p.471). Alcuni superstiti si ritirarono a Gondar, contribuendo a un’estrema difesa conclusasi il 27 novembre successivo con la caduta del ridotto, che segnò la fine della guerra in Africa Orientale.
L’eroica e sfortunata vicenda della difesa di Culqualber avrebbe tutti i caratteri per entrare nell’epopea: ma non c’è epopea per una guerra perduta, specialmente poi se quella guerra è stata perduta quando al governo c’era una dittatura che è stata letteralmente ricoperta dalle esecrazioni di tutti gli antifascisti della quattordicesima ora, mentre il 10 giugno del 1940, per non parlare del 9 maggio 1936, quando Mussolini dal fatale balcone di Palazzo Venezia proclamò la nascita dell’Impero, la folla osannante applaudiva ai grandi destini della Patria e provava un senso di fierezza e di orgoglio nazionale quale mai aveva provato fino ad allora, e mai più avrebbe provato in seguito. Tuttavia c’è stato un debole tentativo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, di tener viva la memoria di quegli eroi e di tutti gli altri soldati, aviatori e marinai che avevano sacrificato tutto, anche la vita, per la difesa di quella Patria precipitata poi negli orrori della guerra civile e umiliata da una sconfitta doppiamente vergognosa, perché frutto di un cedimento interno prima ancora che di una disfatta militare (la flotta, nel 1943, era sostanzialmente intatta, ed era una delle più potenti al mondo), e perché contrassegnata da una resa che equivaleva a un vero e proprio voltafaccia nei confronti di amici e nemici, cosa che avrebbe compromesso negli anni a venire l’onore e la stessa credibilità dell’Italia al cospetto delle nazioni, ex alleati divenuti poi nemici ed ex nemici divenuti, chi sa come, alleati e addirittura liberatori. Questo debole tentativo è stato portato avanti non tanto dalla classe intellettuale, tutta protesa a ritagliasi benemerenze democratiche repubblicane, anche se per vent’anni aveva brillato per il proprio silenzio o per aver glorificato il caduto regime, né dal cinema, anch’esso tutto proteso, sotto la bandiera del neorealismo (nato, in realtà, negli ultimi anni del fascismo) a cantare le lodi dei tempi nuovi, e quindi a scagliare maledizioni sul tempo andato e su tutto ciò che ricordava l’abominevole servaggio, ma da un filone minore e popolare della narrativa, affidato a piccole case editrici senza alcuna pretesa di nobiltà intellettuale. Infatti il filone principale, quando si è occupato della guerra, ha preferito farlo senza mai sbilanciarsi giudizi di merito sul valore politico e ideale del sacrificio di tanti soldati. Una prudenza che non c’era mai stata quando gli scrittori avevano trattato l’altra guerra, quella del 195-18: forse perché — ma siamo coscienti che è malizia soltanto pensarlo — essa si era conclusa con una vittoria, mentre quella del 1940 si era conclusa in maniera catastrofica, sancendo la fine di qualsiasi sogno dell’Italia non diciamo di potenza e di grandezza, ma anche soltanto di efficace difesa della propria autonomia e della propria sovranità.
Abbiamo trovato traccia di tale filone minore e popolare in una collana, intitolata Prima linea, della Società Editrice Romana Periodici (E.R.P.), che ebbe una certa diffusione negi anni ’60 grazie alla diffusione dei volumetti in edicola anziché in libreria, dunque preso un pubblico meno colto ed esigente, ma non per questo necessariamente meno sensibile ai valori del dovere, del sacrificio e dell’amor di patria che avevano animato appunto l’ultima generazione di italiani "in piedi": quelli nati fino al 1920, che avevano fatto la guerra e avevano creduto alla grandezza dell’Italia, fino ad affrontare per essa le prove più dure e i sacrifici più eroici. Anche se, alle loro spalle, una genia di traditori, con il pretesto di voler liberare la Patria da una aborrita dittatura, li pugnalavano alle spalle collaborando col nemico e favorendolo in tutti i modi, fino a passargli vitali informazioni militari, ad esempio sulla data e la rotta dei convogli diretti in Africa Settentrionale per rifornire l’esercito italo-tedesco che combatteva a El Alamein l’ultimo cimento per la libertà del Mediterraneo e la difesa dell’Italia dalla prossima invasione. I volumi pubblicati, di agile formato e mai superiori alle 150 pagine, furono quasi un centinaio: alla battaglia di Culqualber era dedicato il numero 68, I Carabinieri di Culqualber, firmato da Guido d’Alba. È un nome che non ha lasciato altre tracce di sé nel panorama letterario italiano (a meno che dietro di esso si celasse una diversa identità; possiamo solo dire che lo stesso autore aveva scritto altri due volumi della collana, il numero 640, L’equipaggio del gobbo volante, e il numero 63, Sulle rotte della morte: venendo così a comporre un trittico destinato a celebrare il valore di ciascuna delle tre armi: aviazione, esercito e marina. Un elemento di originalità consiste nel fatto che Guido d’Alba, ne I Carabinieri di Culqualber ha voluto ricordare l’eroismo degli ascari arruolati nell’arma dei Carabinieri, i famosi zaptié, dei quali dopo il 1945 l’Italia ufficiale sembra essersi completamente dimenticata: forse perché parlare di loro sarebbe equivalso a smentire la vulgata (come avrebbe detto De Felice) secondo la quale tutti gli etiopi, i somali, gli eritrei e i libici altro non desideravano che la cacciata dei colonialisti italiani e fascisti per porre mano all”indipendenza delle proprie nazioni. Infatti, se il colonialismo italiano era stato tutto un tragico errore (ma non quello britannico o quello francese, chissà mai perché), per non parlare del fascismo che lo aveva ripreso e condotto a nuovi successi, allora era intollerabile ricordare che le valorose truppe di colore avevano affrontato gli stessi rischi dei nostri soldati e si erano battute con coraggio contro un nemico preponderante, certo per la paga ma forse anche perché — incredibile dictu — amavano l’Italia, in alcuni casi perfino più di quanto l’amassero certi italiani; e per amor suo avevano rischiato le più atroci torture da parte dei loro stessi compatrioti (gli ascari catturati ad Adua nel 1896 avevano subito la mutilazione della mano destra e del piede sinistro, e quelli caduti prigionieri nel 1941 avevano conosciuto un trattamento, se possibile, ancor più barbaro e crudele).
Ci piace riportare la pagina di chiusura del romanzo storico — rigorosamente documentato – di Guido d’Alba, la cui vicenda ruota attorno a un valoroso ascaro, Adirò Zereghiel, e alla sua giovanissima fidanzata Azlena (I Carabinieri di Culqualber, E.R.P., 1965, pp.125-126):
Ma noi, prima di chiudere, dobbiamo parlare dell’ulteriore destino dei due giovani protagonisti della nostra storia: uno dei pochi di cui si sia venuti a conoscenza.
Adirò Zereghiel e Azlena seguirono, all’inizio, la stessa sorte degli altri indigeni e indigene superstiti del caposaldo. Condotti in uno speciale campo di concentramenti e guardati a vista dagli inglesi per preservarli dalla furia sanguinaria delle truppe di colore, vennero poi rimpatriati in Eritrea. Successivamente Adirò Zereghiel, per essere stato graduato dei carabinieri coloniali italiani, venne nuovamente mobilitato dagli stessi inglesi per far parte di un corpo che tenesse l’ordine fra la popolazione,
Oggi egli è all’Asmara e appartiene alla Polizia Urbana di quella città. Azlema gli ha dato due figli: uno si chiama Mohammed, l’altro Alì.
Adirò adora sua moglie (egli sposò poi regolarmente Azlena davanti alle autorità), vive e respira per lei. E fra i ricordi che i due conservano cari, c’è il fez con la fiamma d’argento da muntaz degli zaptié, c’è la divisa kaki con gli alamari da carabinieri. Per essi quegli indumenti sono il passato, gli ascari e i carabinieri di Culqualber e gli altri soldati nazionali; sono il maggiore Serranti, il colonnello Ugolini [personaggi storici, n.n.], sono altresì le terribili settimane trascorse nella pazzesca "resistenza a oltranza" sul caposaldo. Un passato che vive nel loro sangue, , che essi stanno trasmettendo ai loro figli.
Un passato che si chiama Italia.
Complimenti a quella casa editrice e a quell’ignoto scrittore che hanno contribuito a tenere alto il ricordo di una pagina gloriosa della nostra storia militare e a ricordare che il colonialismo italiano, a differenza di quello di altre potenze europee, era fatto anche di rispetto e amicizia fra i popoli, fra conquistati e conquistatori (cfr. i nostri articoli: Il confronto tra colonialismo inglese e italiano, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/11/13 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 03/12/17; e Dobbiamo vergognarci del nostro passato coloniale?, sul sito dell’Accademia il 19/08/19). E allora perché stendere un velo d’oblio su pagine gloriose, come quella di Culqualber? Un’ipotesi, oltre al generale velo di pregiudizio anti-italiano, di cui sono esempio insigne le opere dell’africanista Angelo Del Boca (cfr. Angelo del Boca e la "sua" Africa, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/11/17), è che a quel fatto d’armi prese parte, come si detto, anche un battaglione di Camicie Nere. E non sia mai che venga fatta, sia pure indirettamente, l’apologia del fascismo! Se questa ipotesi è corretta, allora bisogna dire che non solo il paraocchi ideologico, ma anche l’ignoranza degli antifascisti all’ingrosso non hanno veramente limiti. Infatti, a parte il fatto che il coraggio è coraggio e non ha colore politico (a Bir-el Gobi i ragazzi in camicia nera si erano battuti benissimo, se si è intellettualmente onesti si deve ammetterlo) in Africa Orientale, come specifica in una nota a pag. 5 Guido d’Alba, molti operai e lavoratori civili italiani che si trovavano laggiù allo scoppio della guerra erano stati mobilitati con cartolina precetto e mandati a costituire i reparti chiamati appunto "Battaglione Camicie Nere d’Africa", perciò quei reparti non avevano alcun colore politico, erano militari come tutti gli altri.
Ma il valore sfortunato è una merce quotata pochissimo dove regnano i furbi, i voltagabbana e i traditori. Perché traditori ce ne furono, parecchi e in genere d’alto rango. È per loro che gli Alleati imposero all’Italia il vergognoso articolo 16 del Trattato di Pace, che vieta di perseguire i traditori…
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