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«Tu, o Dio, ti sveli nelle profondità della memoria»

Nel precedente articolo La Provvidenza, il male, il tempo in S. Agostino (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/21) abbiamo introdotto, accennandovi solamente, un concetto originale e potentissimo che si trova nelle Confessiones: il luogo più certo per avvertire la presenza di Dio è nel tempo, e precisamente nella memoria del tempo in cui noi lo abbiamo trovato, e forse in qualche piega di essa ancora più antica. Il vescovo d’Ippona ne tratta in tre capitoli, il XXIV, il XXV e il XXVI del Decimo libro (e al principio del XXVII); e sono pagine di una bellezza, di un’intensità, vorremmo dire di una sublime drammaticità, tali che meritano di essere lette, rilette, mediate e assaporate in tutto il loro splendore, in tutta la loro ardente stupefazione, come si addice a un’anima che si sofferma sulla visione pressoché inesprimibile del suo Creatore. Prima di proseguire la nostra riflessione, pertanto, invitiamo chi ci sta seguendo a fare altrettanto, e ad immergersi in quelle pagine divinamente ispirate, dove non si sa se ammirare di più il genio dell’uomo o il riflesso della Grazia divina, che chiaramente traluce da ogni frase, da ogni riga (da: Sant’Agostino, Le Confessioni, traduzione di Onorato Tescari, Torino, Società Editrice Internazionale, 1935, pp. 355-357; e se qualcuno ci chiedesse perché spesso citiamo traduzioni così vecchie, rispondiamo: perché allora l’Italia vantava fior fiore di latinisti e di grecisti, e li ha avuti fino agli anni ’60 del secolo scorso; poi, man mano che ci si avvicina ai nostri dì, e ringraziando soprattutto il ’68, quelle eccellenze si sono diradate fino quasi a sparire):

XXIV.

Quanto spazio ho io percorso nella mia memoria, o Signore, per cercarti! Né Ti ho trovato fuori di essa. Ché nemmeno ho trovato nulla che Ti riguardasse, di cui non mi ricordassi dal tempo in cui T’ho conosciuto. Poiché dal tempo in cui T’ho conosciuto non mi sono dimenticato di Te. Dive ho trovato la verità, ivi ho trovato il mio Dio, la Verità stessa, di cui non mi sono dimenticato dal tempo in cui l’ho conosciuta. Perciò dal tempo in cui T’ho conosciuto Tu dimori nella mia memoria, ed è qui ch’io Ti trovo, quando mi ricordo di Te e gioisco di Te. Queste sono le delizie sante che Tu mi hai donato, volgendo l’occhio misericordioso alla mia povertà.

XXV.

Ma in qual punto della mia memoria dimori, o Signore? Dimmi: in qual punto di essa dimori? Quale stanza vi Ti sei fabbricato? Quale santuario vi Ti sei costruito? Tu hai fatto quest’onore alla mia memoria di dimorare in essa. Senonché io vo’ indagare in qual parte di essa Tu dimori. Nel ricordarmi di Te, ho trasceso quelle parti di essa che anche le bestie possiedono, perché non vi Ti ho trovato tra le immagini delle cose corporee; e sono arrivato a quelle parti dove ho riposto le affezioni dell’animo, e nemmeno lì Ti ho trovato. E sono entrato proprio dove ha sede l’anima mia, nella sede che essa ha nella memoria (poiché anche di sé si ricorda l’anima), ma Tu ivi non c’eri. Come non sei un’immagine corporea, né una di quelle affezioni che i viventi provano quando gioiscono, s’attristano, bramano, temono, ricordano dimenticano e simili, così nemmeno Tu sei l’anima, ché sei il Dio Signore dell’anima. E mentre tutte le cose che ne circondano sono mutabili, Tu invece, permani immutabile sopra tutte le cose. E Ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal tempo in cui T’ho conosciuto. Ma perché vo io cercando in qual luogo di essa Tu abiti, come se ivi ci fossero dei luoghi? Certo è che Ti abiti nella mia memoria, poiché mi ricordo di Te da che T’ho conosciuto, ed è in essa ch’io Ti trovo, quando mi ricordo di Te.

XXXVI.

Ma dove T’ho io trovato, per conoscerti? Ché Tu non eri già nella mia memoria prima ch’io Ti conoscessi. Dove, dunque, T’ho io trovato per conoscerti, se non in Te, sopra di me? Né v’è luogo: ci allontaniamo e ci riaccostiamo a Te, e non v’è luogo. Verità, Tu siedi dinanzi a tutti coloro che Ti consultano; e rispondi a un tempo a tutti, anche se diverse sono le interrogazioni che Ti vengono rivolte. Tu rispondi chiaro, ma non tutti odono chiaro. Tutti Ti consultano su ciò che vogliono: ma non sempre si sentono rispondere quello che vorrebbero. Ottimo servo è colui che non bada tanto a sentirsi dire da Te quello ch’egli vorrebbe, quanto, piuttosto, a volere quello che da Te si è sentito dire.

XXVII.

Tardi Ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti ho amato. Ed ecco Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e Ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sopra codeste forme di bellezza che sono creature tue. Tu eri con me, ed io non ero con Te. E mi tenevano lontano da Te quelle creature che, se non avessero la loro esistenza in Te, nemmeno avrebbero l’esistenza (…).

Ci si sente sollevati da terra di due metri dopo una lettura di questo genere; ne ringraziamo il genio di S. Agostino e la divina Provvidenza che, dopo averlo ispirato, permette a noi tutti di abbeverarci ad una fonte così meravigliosa.

Vogliamo adesso riflettere su un aspetto di queste riflessioni al quale avevamo già fatto cenno in precedenza. Agostino afferma, sì, che egli “trova” Dio in quel punto della memoria che corrisponde al tempo in cui Lo ha trovato e Lo ha amato; però, a ben pensarci, se si prende questa affermazione nel suo significato puramente letterale, non è altro che una tautologia. Di ogni cosa ci ricordiamo dal momento in cui l’abbiamo conosciuta, e non prima: è logico, è inevitabile. Di che cosa ci potremmo ricordare, se prima non l’avevamo conosciuta? Dunque il significato non può essere quello puramente letterale: S. Agostino, qui, a nostro credere, voleva dire qualcosa d’altro, e di assai più profondo che non una banale constatazione temporale. È pur vero che, al principio del capitolo XXVI, egli dice: Tu non eri già nella mia memoria prima ch’io Ti conoscessi; poi però, all’inizio del XXVII, dice anche: Ed ecco Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e Ti cercavo qui, eccetera. Dunque Dio si trova innanzitutto in interiore homine: non si deve cercarlo nel mondo di fuori, nelle cose, se non come immagini o riflessi, molto ma molto imperfetti, del loro Creatore; Egli abita già in noi, e mentre Lo cerchiamo, e perfino quando non Lo stiamo cercando, Egli è qui, dentro di noi, vivo e presente, che attende il nostro risveglio spirituale, così come il buon Padre attende con trepidazione il ritorno del suo figliolo prodigo. Ed ecco la domanda che ci facciamo: se Dio è già vivo e presente dentro di noi, come è possibile che la nostra memoria non ne serbi la sia pur minima traccia? La coscienza, quella sì, può essere all’oscuro di ciò che non vede e non comprende, anche se è lì presente di fronte ad essa, o perfino dentro di essa; ma la memoria sa più cose della coscienza. La coscienza sa quello che per lei c’è; ma la memoria, talvolta, sa anche quello che c’era prima che la coscienza lo avesse chiaro. Ci sono persone che hanno dei ricordi estremamente precoci, di quando avevano tre anni, perfino di quando ne avevano due o poco più di due. E prima ancora? Pare che nessuno abbia ricordi più remoti di due anni di vita: la mente, infatti, tende a cancellare i ricordi, per creare nuovo spazio alla memoria e quindi alla possibilità di apprendimento di nuove nozioni, in vista di finalità utili. Ma i ricordi dei primi mesi di vita sarebbero dunque “inutili”?

Ora, se Dio è dentro gli uomini fin dall’inizio, fin da quando, al momento del concepimento, Egli crea, per ciascuno di essi, l’anima immortale, allora vi è in noi qualcosa che la nostra coscienza certamente non ha potuto registrare e riconoscere fin dal principio, e dunque non “sa”. Talvolta non lo sa nemmeno da adulta. Ma se la memoria lo sapesse? Alcuni studiosi attribuiscono una memoria anche alle cose che consideriamo inanimate, ad esempio a un composto chimico come l’acqua, la quale conserverebbe una specie di “ricordo” delle sostanze con le quali è venuta a contatto. Il concetto di memoria dell’acqua è stato proposto per la prima colta da un immunologo francese (un immunologo accademico, non un ciarlatano qualsiasi), Jacques Benveniste, nel 1988; e anche se la questione è controversa e tuttora aperta, e la scienza ufficiale, come sempre accade in simili casi, si è espressa in senso negativo, nondimeno alcuni esperimenti suscitano una fortissima curiosità e suggeriscono che le teorie di Benveniste (riprese, in qualche misura e per certi aspetti, dal biologo e virologo Luc Montagnier) non sono affatto campate per aria. Ebbene, se le cose possiedono una loro speciale forma di memoria — prendiamo questa affermazione in via ipotetica, ma prendiamola sul serio — possiamo escludere che proprio l’uomo, la più perfetta (o, se si preferisce, la più “evoluta”) di tutte le creature, non possieda una memoria che abbraccia tutta la sua esperienza vitale non solo dal momento della nascita ma da quello del concepimento? Noi sappiamo che l’embrione ha delle sensazioni: esse vengono registrate e sono inequivocabili. Il feto di venti settimane reagisce a taluni stimoli esterni e perfino ad alcuni stati d’animo della madre. Si tratta di sensazioni, non di coscienza: la coscienza implica il riconoscimento delle sensazioni da parte del soggetto, ma la distinzione fra l’io e il mondo esterno, nel bambino, avviene solo nel corso di un graduale processo di maturazione psichica e affettiva; come ha chiarito Piaget, il neonato non distingue ancora fra il proprio io e il mondo esterno, compresa sua madre. Ma quelle sensazioni scivolano via senza lasciare alcuna traccia nella memoria?

Nel caso della creazione dell’anima, si tratta di un evento di natura totalmente spirituale, senza alcuna traccia di materialità. Vano pertanto sarebbe cercarvi un’eventuale traccia nella memoria materiale dell’uomo. Ma siamo certi che non vi sia, accanto alla memoria materiale, una memoria immateriale, nella quale sono per così dire registrate tutte quelle cose che non dovremmo sapere e che tuttavia sappiamo, come alcuni casi, eccezionali quanto si vuole, testimoniano però in maniera inoppugnabile? Potremmo citare diversi di questi casi avvenuti in tempi recenti o recentissimi, e che naturalmente gli scienziati della tendenza ideologica dominante hanno fatto finta di non vedere, per non dover tentare di spiegarli. Forse la memoria sa più cose e ricorda più di quanto non siamo disposti ad ammettere, anche nelle nostre ipotesi più audaci; forse sa tutto quello che concerne la singola persona, dal concepimento in poi, però dimentica, a meno che qualcosa di assolutamente straordinario non sciolga quella barriera insormontabile. La tradizione attribuisce a sant’Antonio da Padova, fra gli altri, questo miracolo particolarmente commovente. Trovandosi a Ferrara, dove si era recato a predicare, il santo si trovò di fronte a una famiglia sull’orlo del dramma: il marito, un nobile cavaliere, sospettava che il bambino appena nato fosse frutto di un adulterio, perché sua moglie era bellissima e desiderata da molti. Antonio allora prese in braccio il neonato, che ovviamente non sapeva ancora parlare, e gli disse dolcemente d’indicare chi fosse suo padre; il piccolo mostrò il padre e disse con voce chiara: Questo è mio papà! Al che il cavaliere, tubato e felice, come tutti i presenti, si profuse in ringraziamenti verso il santo e in scuse verso la sua sposa, che aveva ingiustamente sospettato d’infedeltà. Prendi tuo figlio e ama tua moglie, gli disse allora S. Antonio semplicemente, e il dramma familiare si ricompose nell’armonia e nella serenità. Ora, a parte il prodigio della parola, come poteva rispondere quel bambino con tale sicurezza, se non avesse saputo, o ricordato, l’evento del suo concepimento?

Ah sì, certo, stavamo quasi per dimenticare: queste sono le favole che si raccontano intorno alle vite dei Santi; dei Santi medievali, poi, figuratevi un po’: cose che potevano andar bene per il pubblico della prima metà del 1200, che era di bocca buona e di cervello non troppo fino. Oggi però, non se ne parla proprio. Sebbene, a rifletterci un momento, si scopre che i cronisti medievali non erano affatto ipnotizzati dalle figure dei Santi come noi moderni pensiamo: li ammiravano infinitamente, questo sì, ma non sempre perdevano la testa nel raccontare le loro vite. Di Sant’Antonio, per esempio, non si fecero scrupoli a riferire che, durante una predica a Udine nel Borgo Pracchiuso, che aveva tenuto stando sui rami di un grande albero, a un certo punto si levarono tali fischi e parolacce, che dovette scendere e battere in ritirata senza indugio, prima che le cose si mettessero male davvero. Chissà cos’era successo; forse i bravi abitanti del borgo lo avevano associato a quei frati domenicani che si prestavano a condurre i processi per conto della Santa Inquisizione, e qualcuno aveva dei torti recenti da digerire. Sia come sia, la figura di Sant’Antonio non esce sminuita da un simile episodio, come la figura di Gesù Cristo non esce sminuita dall’onesta testimonianza degli evangelisti che a Nazareth poté fare solo pochi miracoli, e poi la folla lo cacciò via, minacciando di precipitarlo nel burrone. Quel che risulta chiaro è che l’uomo medievale non era poi così ingenuo come si crede, e sapeva riferire gli episodi belli e quelli meno belli della vita dei Santi. Perciò, andiamoci piano prima di confinare fra le pie leggende certi racconti di miracoli. E allora, da quale luogo della memoria il neonato aveva tratto la risposta? E questo non potrebbe suggerirci che Dio lo possiamo ricordare non solo dal momento in cui Lo abbiamo trovato, ma da prima ancora, perché Lui non si è mai scordato di noi e non si è mai allontanato da noi, anzi è sempre presente in fondo alla nostra anima, nella paziente attesa che noi ci ricordiamo di Lui e ci mettiamo a cercare le sue tracce?

Se così fosse, non possiamo certo avere di Lui un ricordo nitido e chiaro, come lo potrebbe un bambino già grande, o un adulto; sarà per forza di cose un ricordo vago e indistinto. Più che un ricordo, una specie di nostalgia che ci punge l’anima: la nostalgia di una dimensione felice, perfetta, nella quale noi e Lui siamo stati in intimità assoluta, come lo è il nascituro nel grembo della madre. Poi questo ricordo svanisce, e arriva il tempo in cui ci si domanda: dov’è Dio? Ma Dio era già con noi prima che noi nascessimo: vegliava sull’atto d’amore dei nostri genitori e infondeva in quel piccolo seme un’anima immortale, grazie alla quale saremo chiamati a partecipare, un giorno, alla vita eterna.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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