«Tu, o Dio, ti sveli nelle profondità della memoria»
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14 Dicembre 2021Se si domanda a uno storico di professione quando abbia avuto inizio la storia, molto probabilmente risponderà: quando è stata inventata la scrittura. Ma ci sono dei popoli che, pur disponendo di una ricca letteratura orale, non hanno mai inventato la scrittura, e l’hanno adottata solo quando sono stati raggiunti dagli europei. I Polinesiani e i Micronesiani, per esempio, erano dei navigatori più esperti e audaci dei Vichinghi, tanto che colonizzarono, un’isola dopo l’altra, tutti gi arcipelaghi del Pacifico orientale, fino alla terra più remota, l’Isola di Pasqua, superando distanze immense e orientandosi con incredibile precisione: ma non avevamo la scrittura. Sull’Isola di Pasqua, e anche in altri luoghi, costruivano statue colossali; a Ponapé costruirono palazzi e altri edifici giganteschi, però non avevano la scrittura (tranne i complicatissimi e indecifrabili glifi pasquensi chiamati rongo-rongo). Li si deve perciò considerare popoli preistorici? Neppure gli Amerindi dell’America Settentrionale avevano inventato la scrittura, però costruivano i giganteschi mounds e avevano sviluppato notevolmente altri aspetti della loro civiltà materiale e spirituale; neppure i bianchi che li avvicinarono con brutalità e disprezzo si sognarono di considerarli alla stregua di genti preistoriche. Un altro inconveniente di tale distinzione fra storia e preistoria è che rende impossibile stabilire una linea di separazione temporale uniforme, ma costringe lo studioso a introdurre una differenziazione caso per caso. E come deve regolarsi lo storico quando popoli con la scrittura vennero a contatto con popoli senza scrittura? Dovrà diversificare il quadro cronologico allorché i Germani, gli Unni e gli Alani vennero a contatto, sul Reno e sul Danubio, con i Romani, o quando i Mongoli vennero a contatto con i Cinesi lungo la Grande Muraglia? Romani e Cinesi erano già nella storia, mentre i loro vicini e antagonisti nomadi sbucavano fuori direttamente dalle nebbie della preistoria?
La distinzione fra storia e preistoria fondata sull’uso della scrittura è un pregiudizio di origine illuminista e positivista e nasce da un fraintendimento: che saper comunicar per iscritto equivalga, per un popolo, ad avere piena coscienza di sé, delle proprie radici, delle proprie tradizioni, insomma ad occupar e consapevolmente un posto nella sena del mondo; mentre queste cose sono possibili anche presso dei popoli che non hanno elaborato la scrittura. Certo, la scrittura consente di trasmettere nel tempo le informazioni precise sulla propria storia; ma vi sono altre manifestazioni della civiltà, a cominciare dall’espressione artistica. Gli ignoti pittori delle Grotte di Lascaux o delle Grotte di Altamira erano semplicemente dei cavernicoli, nel senso di uomini della pietra, senza storia e senza coscienza di sé? Ma quando un popolo sa esprimere forme così raffinate e ammirevoli di espressione artistica, chi mai potrebbe dire di esso che è un popolo preistorico, nel senso di privo di una chiara coscienza di sé, dei propri valori e dei propri ideali? Per saper esprimere la bellezza, al contrario, è necessario il possesso di un ricco bagaglio spirituale: la bellezza non è un valore che si possa improvvisare, ma è il punto d’arrivo di una graduale evoluzione. Dunque un popolo capace di esprimere la bellezza è un popolo che ha fatto molta strada, che ha riflettuto su di sé e su ciò che è importante nella vita, e che sa manifestare le sfumature del proprio animo, indipendentemente dal fatto che questa o quell’altra espressione della cosiddetta arte rupestre sia nata per delle ragioni contingenti e utilitarie.
Un caso tipico di ciò che stiamo dicendo è offerto dalla lunga e misteriosa civiltà dei Camuni, il popolo che abitava nella Val Camonica e che disseminò le pareti rocciose con una grandissima quantità d’incisioni (circa trecentomila!) le quali, evidentemente, dovevano avere anche una funzione estetica, come espressione di una ricchezza interiore e, ci si passi l’espressione, di uno slancio vitale, che non venne meno nell’arco di quasi un millennio: dal nono secolo a. C. fino all’arrivo dei Romani e un poco oltre, nel primo secolo a. C. Come si può pensare che un popolo capace di un tale magnifico sforzo di natura estetica non possedesse una elevata coscienza di sé, anche se non sapeva trasmettere con precisione i fatti della propria storia?
Emmanuel Anati, l’archeologo che ha dedicato gran parte della sua vita a studiare e far conoscere le incisioni rupestri della Val Camonica, fa in proposito le seguenti riflessioni (Da: E. Anati, I Camuni. Alle radici della civiltà europea, Milano, Jaca Bok, 1980, pp. 11-12):
Alcuni studiosi chiamano "storico" quel periodo della vicenda umana che inizia con la scrittura. In varie parti del mondo l’uomo cominciò a trasmettere informazioni per iscritto in date diverse; mentre nel Medio Oriente la scrittura era già in uso tremila anni avanti Cristo, nell’Europa settentrionale essa giunse solo verso l’inizio della nostra era, e in alcune regioni decentrate, anche più tardi. In certe parti del mondo la scrittura sta arrivando in questo secolo. Perciò in paesi diversi la stria avrebbe avuto inizio in momenti diversi. Ed anche in epoche considerate storiche, accade che un paese o una zona ricada in periodi oscuri, nei quali la popolazione torna ad essere analfabeta o dei quali poco o niente sappiamo. Sono questi, talvolta, ritorni alla preistoria?
Altri studiosi usano un diverso criterio e differenziano un periodo storico da uno preistorico secondo l’abbondanza d’informazioni che possediamo su di esso. Ma anche in tal caso la linea di divisione non è facilmente tracciabile. Ciò che sappiamo di alcune epoche a noi familiari perché appartengono, nel senso più chiaro de termine, alla storia, varia stranamente spesso siamo costretti ad affermare, con apparente controsenso, che sappiamo ben poco di un determinato periodo storico.
Nella concezione di molte popolazioni tribali, la loro storia, che noi chiamiamo "miti di origine"e "sequenze genealogiche", inizia con il primo uomo.
«La storia scritta — ci dice Gordon Childe — non è che un racconto frammentario e incompleto di quanto l’uomo ha fatto, in alcune regioni del mondo, negli ultimi cinquemila anni».
In più di un caso, annali, archivi, documenti ufficiali di ogni genere sono di prezioso aiuto per farci conoscere le successioni dei re o il numero di vittorie riportate da un condottiero, ma c’informano ben poco sull’aspetto del paese dove questi avvenimento ebbero luogo, sulle condizioni dei suoi abitanti, sulla vita quotidiana che essi conducevano, sulle relazioni sociali, l’organizzazione economica, le credenze, il pensiero e la vita intellettuale. Al contrario, una scoperta archeologica può rivelare una quantità di particolari su questi argomenti che ci permette di ricostruire certi aspetti determinanti di una società, pur lasciandoci nel buio riguardo ad altri aspetti. Dove documenti scritti non sono disponibili o decifrabili, non si possono apprendere i nomi dei capi, né quelli degli eroi. Ma quale di questi due aspetti ci insegna brani più salienti di storia: quello che precisa nomi e date o quello che rivela la vita quotidiana e l’evoluzione di un popolo? Nel nostro caso specifico, dobbiamo dire che la civiltà camuna appartiene alla preistoria o alla storia? Quasi cento iscrizioni finora scoperte, risalgono alle ultime fasi del ciclo camuno, quando Roma stava già fiorendo e quando influenze politiche, economiche e culturali esterne cominciavamo a pesare sulla civiltà camuna, che avrebbero in breve assorbita. Esse ci rivelano soprattutto dei nomi, prevalentemente di divinità. Di informazioni storiche, ne forniscono ben poche.
Prima di allora, i Camuni avevano vissuto le tappe di una articolata evoluzione, sviluppando, bei vari periodi, sempre nuovi aspetti della loro epopea, Questi millenni di vita narrata dalle incisioni rupestri ci rivelano sulla popolazione della valle molto più di quanto sappiamo poi, dalla conquista romana al Medio Evo. Possiamo dunque parlare di questa civiltà in termini di preistoria o di storia? In passato abbiamo detto che si tratta della "storia di una civiltà preistorica".
La vita dei Camuni dell’età del Ferro aveva molti elementi simili a quelli della popolazione rurale del Medio Evo e non differiva molto da quella di alcune popolazioni rurali europee di una generazione fa. Vi troviamo le origini o le più antiche evidenze di costumi e credenze che persistono ancor oggi. Nelle figure rupestri riconosciamo anche riti e miti che furono adottati e trasformati dagli Etruschi e dai Romani e della cui antichità non si era neppure sospettato. In Valcamonica le incisioni rupestri raccontano ben più della semplice storia di una rustica comunità "preistorica".
È difficile non sentirsi in sintonia con il ragionamento di Emmanuel Anati, così chiaro e persuasivo, e in particolare non condividere ciò che egli dice delle manifestazioni spontanee della vita di un popolo, una delle quali, appunto, è l’espressione artistica. Questo, d’altra parte, sollecita noi un cambiamento nel giudizio su ciò che qualifica un popolo come "civile" e, al tempo stesso, suggerisce un diverso approccio alla storiografia. Per la maggioranza di noi, storiografia è quasi sinonimo di conoscenza delle fonti scritte. Ma dopo che abbiamo letto e studiato a fondo le opere di Tito Livio, Cesare, Sallustio, Cornelio Nepote e Tacito, possiamo essere certi di aver appreso tutto quello che serve della civiltà romana, per farcene un’idea completa ed esaustiva? Oppure abbiamo appreso la storia politica e militare, i nomi dei consoli e dei tribuni, dei generali e dei re barbari, ma ci manca tutto ciò che riguarda la vita spirituale, estetica e religiosa di quel popolo? E come ci si può fare un’idea adeguata di una determinata civiltà se si trascurano aspetti così importanti e ci si limita alle vicende esteriori? Questo discorso è particolarmente significativo quando si studiano i popoli e le civiltà senza scrittura, i quali non ci hanno lasciato la narrazione delle loro gesta per mano di un Tito Livio, di un Cesare o di un Tacito. In compenso hanno lasciato abitazioni, oggetti lavorati, sepolture variamente preparate e soprattutto una quantità di pitture e d’incisioni rupestri, a volte bellissime per originalità di linee e sinteticità del disegno, un esempio notevole sono le pitture del Tassili e del Tibesti e di altre località sahariane, le quali testimoniano, fra le altre cose, la diversità di clima, di vegetazione e di fauna esistente in quelle regioni solo fino a pochissime migliaia di anni fa. Ecco allora che tali manifestazioni del senso del bello, con leoni, giraffe ed elefanti mirabilmente stilizzati, servono anche a testimoniare un aspetto della storia che altrimenti sarebbe passato inosservato, perché le fonti scritte non lo registrano se non in misura marginale: la progressiva trasformazione del paesaggio della prateria in deserto, e la scomparsa delle specie animali e vegetai, costrette a migrare molto più a Sud.
C’è poi un altro aspetto che occorre tener presente, quando si tende a identificare la storia di un popolo con la fase della scrittura. Il fatto che questo quel popolo disponga di un alfabeto e di una grammatica, insomma di un codice di comunicazione scritto, non significa che la maggioranza dei suoi membri ne possieda la conoscenza e lo sappia adoperare. Quanti romani erano in grado di leggere l’Eneide di Virgilio, e quanti italiani potevano leggere la Divina Commedia al tempo di Dante? Se la grande maggioranza di un popolo non è alfabetizzata, per tutte quelle persone è come se la scrittura non esistesse: quel codice di comunicazione non le riguarda, ed esse continuano a comunicare per mezzo della lingua orale. Non dimentichiamo che ancora ai primi del 1900 molti italiani erano analfabeti e firmavano i documenti ufficiali, compreso l’arruolamento sotto le armi, con un semplice segno di croce. Stiamo parlando di appena un secolo fa: fino a cento anni fa c’erano numerose persone che non leggevano libri o giornali, perché non ne erano capaci; e che, se dovevano scrivere una lettera a un parente lontano, la dettavano a qualcuno che sapeva farlo, e che sovente lo faceva per mestiere, proprio come oggi chi non è esperto di computer si affida all’assistenza di un tecnico informatico. La mancata alfabetizzazione di ampie fasce della popolazione implica una conseguenza che si tende a sottovalutare: che fino ad epoca assai recente la comunicazione scritta è rimasta, presso tutti i popoli e le società, appannaggio di piccole minoranze e non ha riguardato il mondo culturale e spirituale di tutti gli altri. Per cui, ad esempio, i canti popolarti, come le villotte friulane, sono stati una espressione tipica della gente comune, ma quella stessa gente non avrebbe saputo leggere quei canti da un libro di musica, poiché si limitava a tramandarseli oralmente. Era come se le società umane viaggiassero a due velocità ben differenti: c’erano quelli che sapevano comunicare per iscritto e quelli, invece, che non lo sapevano fare, e si affidavano ad altre forme di trasmissione dei pensieri, dei valori, delle emozioni, delle tradizioni. L’edilizia delle case rurali, i costumi popolari che cucivano con infinito amore e poi si indossavano in occasione delle feste, gli intagli su legno e le semplici pitture devozionali, come gli ex-voto, erano altrettante forme di comunicazione che aggiravano la barriera della scrittura, o facevano ricorso solo marginalmente alle poche persone che sapevano scrivere.
In conclusione, è bene che gli storici scendano dalla cattedra, qualche volta, e imparino ad ammirare le forme dell’espressione artistica dei popoli senza scrittura. Ne avranno tante, di cose da imparare.
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