Magia nera e satanismo nascosti nella letteratura?
9 Dicembre 2021Da un mondo in putrefazione nasce il mondo nuovo
12 Dicembre 2021Sant’Agostino non è stato solo un grande filosofo, ma anche un grande scrittore: nelle Confessioni ha saputo fondere mirabilmente il tema autobiografico, che ha come sfondo la vita di tutti i giorni, e lo scavo interiore, che lo porta naturalmente ad affrontare e sviluppare alcuni dei più grandi temi sui quali da sempre si affatica il pensiero umano: la grazia, il peccato, il tempo. La sua riflessione è ancora e sempre di estrema attualità, perché questi sono i temi centrali della fede; le grandi domande che gli uomini continuano a farsi e che li fanno soffrire, sino a quando non incominciano a trovare le risposte. Come mai ci sono così tanto dolore e così tanta ingiustizia nel mondo, se il mondo è stato creato da Dio ed è stato creato per un fine buono, addirittura per la felicità degli uomini? Come si concilia la divina Provvidenza con lo spettacolo sconcertante e quotidiano del male, che sembra non conoscere limiti e che sovente appare tanto più forte del bene? E ancora: cos’è il tempo? Cos’è questa modalità dell’essere che consuma e ci porta via, a poco a poco, insensibilmente, le cose e le persone più care; che le trasforma, che le fa sparire, che agisce su noi stessi, al punto che quasi non ricordiamo più chi eravamo in passato e quasi non ci riconosciamo più guardandoci allo specchio, se ci confrontiamo con ciò che eravamo in precedenza? Sono queste le domande che ciascuno di noi si fa e alle quali vorrebbe trovare una risposta, perché pesano su di noi come macigni, come ostacoli sul nostro cammino, e sentiamo che dal fatto di trovare o no una risposta, dipendono la nostra serenità, la nostra pace, la nostra possibilità d’indirizzare nel senso giusto tutta la nostra vita.
Questi temi sono affrontati da S. Agostino nelle Confessioni, a proposito delle quali scrivono Luciano Stupazzini e Gian Piero Benedetti in La scena il tempo l’anima. Plauto Tacito Seneca Agostino. Autori latini per il liceo classico, vol. 3, Milano, Principato, 1984, pp. 317-318):
Erede diretto, anche se in forme del tutto nuove, della capacità platonica di fondere scene della vita quotidiana con la discussione di problemi di grande profondità, Agostino affronta in questa autobiografia alcuni punti che resteranno fondamentali nella cultura cristiana e moderna.
Innanzitutto il tema della Provvidenza: non trattato in forma teorica, esso è tuttavia presente nell’intera opera. È il disegno di Dio che regge tutta la vita di Agostino e fa sì che anche ciò che è a prima vista tormentoso e ingannevole divenga per lui una tappa verso la verità: tali sono, ad esempio, l’incontro con il manicheo Fausto (V, 7,13), la fuga verso Roma (V,8,14), l’ambizione che lo spinge a Milano (V,13,23), la lettura dei libri neoplatonici (VII,9,13). Della Provvidenza divina l’uomo ha veramente bisogno, perché da solo egli è capace soltanto di peccare. ("Quid enim sum ego mihi sine te nisi dux in praeceps?" è scritto in Conf. IV,1,1), essendo il peccato così connaturato in lui da macchiare persino i primi istanti di vita, poiché per Agostino l’innocenza infantile è solo un mito (Conf. I,7,11).
Il secondo problema filosofico è quello del male. Agostino individua due tipi di male. Quello morale, cioè la scelta umana errata, consiste in una deviazione della volontà, che perverte ciò che Dio ha creato come bene a un fine che non è quello voluto dal Creatore; questo tipo di male è discusso nell’episodio celeberrimo del furto di pere (Conf. II,4,9 ss.). Quello fisico, sul quale Agostino riflette in occasione della morte di un amico, radicato nella stessa esistenza di ciò che è diverso da Dio (Conf. IV,10,15).; esso è tuttavia un male soltanto se rapportato a noi stessi, mentre diventa un bene nell’ordinamento cosmico, per la coerenza globale che si scopre in esso (VII,13,19).
Oltre a questi due problemi, che percorrono come fili conduttori la parte autobiografica delle "Confessiones", l’opera contiene una trattazione più sistematica, negli ultimi libri, di alcuni temi fondamentali della teologia e filosofia cristiana. Il libro X è dedicato a una descrizione dell’itinerario che la mente umana deve compiere per giungere alla visione di Dio; tale itinerario deve prescindere dall’esperienza, perché la conoscenza sensibile (e quella razionale che ne deriva) non può cogliere l’Essere supremo, che è fuori dello spazio e del tempo. Dio è attingibile solo nella profonda interiorità della memoria (X 24,35-26,37).
Nel libro X è trattato il problema del rapporto fra Dio e il tempo. Il tempo è estraneo alla realtà di Dio, in quanto connaturato al mondo. Esso, infatti, non è realtà permanente perché trapassa dal passato, che non è più, al presente, che non permane, al futuro, che non è ancora. Il tempo è qualcosa che esiste soltanto nella coscienza umana, la quale conserva il passato nella memoria, vede il presente e attende il futuro.
Il libro XIII tratta infine del mistero della Trinità, di cui Agostino rinviene un’analogia in quelli che ritiene i caratteri fondamentali della natura umana, espressi con gli infiniti "esse", "nosse", "velle" (XIII,11,12).
La domanda: «Dov’è il tuo Dio, in questo momento?» è quella che ci si sente rivolgere quando le cose vanno male, quando le sventure si abbattono sugli uomini, e soprattutto quando non sembrano fare alcuna differenza nel colpire i buoni e i malvagi. Ed è anche la domanda, confessiamolo, che molti noi si sono fatti, almeno una volta nella vita, quando hanno visto minacciate o distrutte le cose più care, quando hanno visto calpestati i loro sogni, i loro affetti, la loro pace, la loro reputazione, il frutto di ciò che avevano costruito nel corso di una vita. È la domanda che si fanno i sopravvissuti di un terremoto, di una guerra, di una pestilenza. Una pestilenza vera, sia chiaro, come quella del 1348 o come quella 1630; e non una fasulla, come quella che ora viene usata dal malvagio potere finanziario per imporre una dittatura sanitaria che di sanitario non ha nulla, se non la veste esteriore, ma in realtà finalizzata a ridurre in schiavitù l’intera popolazione mondiale. È anche la domanda che si fanno i genitori di un bambino di tre mesi, morto di meningite; o il marito che sopravvive a un incidente automobilistico in cui è stata distrutta la sua famiglia; o l’onest’uomo che perde il lavoro e viene denigrato e calunniato da ogni parte perché ha fatto il proprio dovere e ha seguito la strada che gli indicava la sua retta coscienza, non piegandosi ai desideri di qualche potente e rifiutandosi di servire gli interessi di qualche oscura organizzazione. «Dov’è Dio, in questo momento? Perché non interviene, perché non fa qualcosa? E perché non ascolta le nostre preghiere, non accoglie le nostre suppliche?». Domande scomode; domande difficili; domande che mettono alla prova anche la fede più salda: almeno in certi particolari momenti, quando tutto sembra tingersi di grigio e la speranza appare un lusso che non ci si può più permettere, oppure un sogno da bambini ingenui, che ancora non conoscono davvero il mondo.
La questione della Provvidenza divina non è, tout-court, la questione della bontà di Dio, ma certo ne è una delle principali manifestazioni. Se c’è la Provvidenza, così ragionano in molti, allora Dio è buono; ma se non c’è, allora non è buono, o è impotente di fronte al male — e dunque non è un vero Dio. Evidentemente queste persone non hanno mai considerato attentamente la loro stessa vita. Potremmo definire la Provvidenza come l’azione costante esercitata da Dio per portare ogni anima a Sé – beninteso, purché questa non vi si opponga con tutte le sue forze, nel qual caso Egli non può fare altro che abbandonarla ai propri appetiti disordinati e al proprio destino di perdizione. Ma chi, con animo retto e con coscienza pura, esamina il corso della propria vita, comprese le disgrazie e i momenti difficili che per tutti, prima o poi, arrivano a presentare il conto, difficilmente non vi scorgerà una mano misteriosa, ma dolce, che ha condotto le cose in quella tale maniera: che ha favorito oppure ostacolato un certo progetto, una certa amicizia, un certo lavoro, un viaggio, un trasloco, un trasferimento, un nuovo inizio, anche se doloroso. A chi sa guardare bene, apparirà chiaro che tali cose non sono accadute per effetto di un caso tanto imprevedibile quanto capriccioso, ma che per ciascuna di esse vi era un disegno nascosta, benevolo ma anche rispettoso del nostro libero arbitrio, il quale ci offriva una serie di occasioni per avvicinarci al Creatore, senza però forzare le cose, senza imporre una conclusione in maniera autoritaria, ma sempre lasciando a noi la facoltà di trarre i necessari insegnamenti da ciascuna delle esperienze che la vita ci ha permesso di fare. Come un padre affettuoso, ma non invadente, Dio ci ha dato cento e cento occasioni di crescita, di maturazione, di perfezionamento; cento e cento occasioni per capire che la vita è preziosa, che ciascuno di noi è prezioso, perché ciascuno di noi è stato chiamato all’esistenza da Lui, per svolgere un compito preciso: portare al grado più alto le proprie possibilità morali e spirituali e raggiungere così la felicità. E la felicità si trova in un luogo e uno soltanto: in Lui, dal quale tutte le cose hanno avuto principio e tutte aspirano a fare ritorno.
Il modo in cui S. Agostino affronta il problema del male offre una risposta che ancora oggi soddisfa pienamente la nostra inquietudine al riguardo. Il male, ontologicamente parlando, non esiste: è solo mancanza di bene o una forma stravolta di bene. Non esiste un male assoluto: perfino il demonio non è che un angelo decaduto, una creatura che era stata destinata a vivere nella luce, ma ha preferito le tenebre. Quando gli uomini fanno il male, in realtà cercano una qualche forma di bene: perfino il ladro, l’adultero, l’assassino, cercano una qualche forma di bene: un bene deviato, un disordinato, un bene che essi hanno assolutizzato nelle loro brame dettate dalla concupiscenza, ma pur sempre un bene. Il ladro cercava la ricchezza, l’adultero cercava il piacere e forse l’amore, l’assassino voleva proteggersi da un male o forse voleva vendicare un’offesa, gratificando il proprio io: sono tutte forme deviate di ricerca del bene. Quanto al male fisico, anche per esso c’è una risposta, ma per comprenderla bisogna liberarsi del punto di vista antropocentrico. Il nostro punto di vista deve sforzarsi di essere teocentrico, sempre. Solo quando ci si abitua a fare di Dio il centro di tutto, anche della propria vita morale, si arriva a comprendere che la morte di una persona cara non è, di per se stessa, un male, perché chi muore si libera del fardello della carne ed entra nell’eternità: che è la nostra meta finale verso la quale siamo tutti incamminati. Solo chi assolutizza la dimensione terrena si dispera perché qualche anno di vita è stato sottratto alle nostre aspettative: dimenticandosi che il tempo non appartiene a noi, ma a Dio. Stolto, questa notte stessa morirai, dice Gesù parlando del ricco che ha accumulato grandi beni sulla terra e pensa di goderseli in pace, ma senza aver fatto i conti con il giudizio di Dio, che può arrivare in qualsiasi momento. Ciò non significa che noi dobbiamo disprezzare la dimensione terrena, né che non sia cosa del tutto normale soffrire per la morte di una persona cara: Gesù stesso non ha forse pianto davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro? E se Gesù ha pianto per la morte di una amico, come non ci rattristeremo noi per la morte di un amico o di un congiunto, noi che non abbiamo neppure la millesima parte della forza morale di Lui! Ma da qui a ribellarci alla morte; da qui a sentirci defraudati da un destino ingiusto, ce ne corre. Nel caso di un bambino, poi, è certo che tornare al Cielo dopo pochi anni di vita non è, per lui, un cattivo affare: quante cose brutte, quanti dolori e incomprensioni, quante amarezze e umiliazioni gli verranno risparmiati! E tuttavia, è giusto che i suoi genitori soffrano: se così non fosse, non mostrerebbero neppure di avergli voluto bene. Però ribadiamo il concetto: chi si ribella alla morte, o al dolore, o alla malattia, mostra di essere più attaccato alla terra che al Cielo: il che significa non aver compreso quali sono le cose che passano e quali le cose eterne.
Infine il tempo. Il tempo è un mistero: ogni volta che cerchiamo di afferrarlo, ci sfugge: o è già passato o non è ancora. Alcuni credono di aver risolto il problema aggrappandosi alla filosofia dell’hic et nunc, qui e ora: come se nell’atto stesso di dire "ora" noi non stessimo già parlando di un istante che appartiene al passato, che ci è sfuggito come sabbia fra le dita. E anche dire "qui" non ha molto senso, a ben guardare: qui, dove? Anche lo spazio, come il tempo, è nelle mani di Dio; ma in senso umano non è un solido fondamento sul quale costruire le nostre certezze. Non sappiamo neppure cosa sarà di noi fra ventiquattro ore, come possiamo dire dove ci porteranno le circostanze in senso fisico? Forse le vittime di un incidente aereo avrebbero mai pensato che un punto anonimo sulla carta dell’oceano sarebbe stato il luogo dell’ultimo istante della loro vita, il luogo che avrebbe trattenuto per sempre i loro resti mortali? Eppure fra quei passeggeri, ce n’erano anche di sedentari, persone tranquille che forse avevano fatto quell’unico viaggio e che s’illudevano di dire: la mia vita si svolge qui, nel mio paese; niente me ne potrà allontanare. Ma la verità è che noi non possiamo controllare nulla, né del tempo né dello spazio. Eppure il tempo ha la sua importanza. In esso c’è il ricordo del passato, che reca con sé una sorta d’indistinta nostalgia. Una nostalgia come d’infanzia, di pulito, di calore domestico: è il ricordo ineffabile e inesprimibile dell’amore divino. Attingere a quel ricordo, a quel senso di pulito, di calore domestico, è come ritrovare la strada che porta a casa.
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