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Chi ha paura della letteratura nazista in America?

Chi ha paura degli scrittori nazisti che vivono e pubblicano le loro opere nelle due Americhe, quella del Nord e quella del Sud? Nessuno, per la semplice ragione ch non ci sono e non ci sono mai stati. E allora, perché questa domanda? Perché uno scrittore cileno che va per la maggiore negli ambienti della cultura di sinistra, Roberto Bolaño (Santiago del Cile, 28 aprile 1953-Barcellona, 14 luglio 2003) ha avuto la bella pensata di pubblicare una seriosa raccolta di biografie immaginarie, scopiazzando un’idea di Fernando Pessoa e ricavandone un libro surrealista e fantastico, che la critica, incredibilmente, ha preso sul serio, così come ha preso sul serio l’insieme della sua opera. Con la differenza che Pessoa era un gigante e che se inventava alcune biografie di scrittori, scriveva anche le poesie che ciascuno di essi avrebbe composto, vale a dire che si sdoppiava, si faceva in tre, in quattro, in otto (alla fine ne hanno contati centotrentasei, fra i quali quattro più importanti), per aderire allo stile di ciascuno ed esprimere il particolare stile poetico di ciascuno; e sono tutti coerenti, tutti distinti, tutti ben definiti e riconoscibili, come se fossero stati davvero scrittori diversi; mentre alla morte di Pessoa, aprendo i suoi bauli e i suoi cassetti, ci si rese conto che tutti quei poeti erano uno solo, e quell’unico era proprio lui, Fernando Pessoa, il genio misconosciuto di Lisbona, una delle voci più interessanti e inquietanti di tutta la letteratura moderna. Mentre Bolaño si è inventato una trentina di biografie immaginarie di scrittori di estrema destra e con dichiarate simpatie per il nazismo e il fascismo, le ha catalogate per Paese d’origine, dagli Stati Uniti all’Argentina e al Cile, e le ha cucite insieme in una silloge noiosa, banale, ripetitiva, nella quale non si saprebbe cosa ci sia da ammirare, se non la capacità di perdere tempo da parte di chi le ha scritte, e di farne perdere a chi dovrebbe poi leggersele, tranne forse una certa imperterrita sfacciataggine nel rubare idee altrui: oltre che a Pessoa, a Jorge Luis Borges, altro grande scrittore argentino (ma certo assai meno grande di Pessoa e comunque un tantino sopravvalutato, che ricorda in qualche modo, ma ovviamente in meglio, il nulla al cubo che è Umberto Eco). Anche quando si ruba, però, ci vorrebbe un po’ di creatività, un po’ di originalità, se non di genio (se ci fosse il genio, non ci sarebbe la necessità di rubare); mentre in Roberto Bolaño si ha la netta sensazione che dietro la facciata estrosa e scintillante ci sia poco più del niente. Sensazione che si può estendere non solo all’insieme della sua produzione, ma alla sua stessa persona e all’immagine che ha voluto lasciare di sé.

Cominciando dalla sua biografia. Nasce a Santiago del Cile, da un camionista e un’insegnante, ma la famiglia, formata da quattro persone (una sorella oltre a Roberto) si trasferisce successivamente in una serie di città del Cile centromeridionale, per poi trasferirsi in Messico nel 1968, quando il futuro scrittore aveva quindici anni. Petanto quando n Cile il governo socialista di Salvador Allende viene abbattuto dal generale Augusto Pinochet, e si catena un’ondata di repressioni contro i militanti di sinistra, Bolaño, che simpatizza per quell’area politica, si trova a migliaia di chilometri della sua patria d’origine. Egli racconta bensì di essere tornato in Cile poco prima del colpo di Stato dei militari, appunto sull’onda dell’entusiasmo delle riforme avviate dal governo Allende; e di essere poi stato arrestato dalla polizia a Concepcion e fortunosamente liberato per l’intervento di due ex compagni di studi dell’adolescenza, per poi rientrare a Città del Messico, presso la famiglia,. Tutto molto avventuroso e perfino un po’picaresco: con il viaggio dal Messico al Cile che Bolaño avrebbe fatto, insieme ad un gruppo di amici, parte in autostop, parte in corriera e parte addirittura in barca, e l’arrivo pochi giorni prima del colpo di Stato, e la miracolosa liberazione quando tutto sembrava ormai perduto, a una settimana appena dall’arresto. Peccato che probabilmente non c’è niente di vero, è tutta un’invenzione dell’autore e perfino il rientro in Cile alla vigilia del golpe, per non parlare dei particolari più o meno saporiti, si svolto solo nella fantasia della sua camaleontica personalità. A confermare il racconto di Bolaño c’è solo la parola di un amici, Jaime Quezada; mentre a mettere in dubbio che egli si trovasse in Vile all’epoca del golpe di Pinochet, e quindi che sia masi stato arrestato e poi anche liberato, sono in più di uno: in particolare il sociologo Riardo Pascoe e la poetessa Carmen Boullosa (vedi l’articolo di Ennio Caretto su Il Corriere della Sera Né eroinomane né fuorilegge: Bolaño si divertiva a fingere del 29/01/09 e quello di Larry Rother Verdades y mentiras de Bolaño sul quotidiano cileno El Mercurio del 31/01/09). Sta di atto, però, che su quel romanzo della sua immaginazione, e in particolare sulla mirabolante liberazione per opera di due ex compagni di scuola, Bolaño ha costruito un altro dei suoi racconti, I detective, incluso nella raccolta Chiamate telefoniche (quattordici racconti brevi dedicati alla moglie, pubblicati nel 1997 e tradotti per la prima volta in italiano nel 2000). Più tardi questo nucleo verrà sviluppato in un romanzo vero e proprio, I detective selvaggi (Los detectives salvajes), del 1996, nella cui seconda parte si alternano i punti di vista di ben cinquantaquattro personaggi diversi. Perché contentarsi di due o magari di tre, come hanno fatto Pessoa o Borges, Pirandello o Unamuno? Bolaño non è un hombre da starsene dietro ad alcuno; anzi, è lui che indica agli altri la strada da percorrere; e quando decide di fare una cosa, la fa in grande. Il camaleonte è bravissimo ad alimentarsi delle proprie fantasie; e intanto rafforza il mito del suo stesso personaggio, che si affianca, come sarebbe piaciuto a Pirandello (ma anche a Miguel de Unamuno, per restare in ambito ispanico) ai protagonisti dei sui libri e s’intreccia con loro a un punto tale che, da ultimo, non si capisce più se l’autore sta giocando a nascondersi dietro le sue creature, i personaggi, o se questi ultimi stanno prendendo il posto della persona viva in carne ed ossa, cioè dell’autore, sostituendolo a tutti gli effetti.

La biografia di Bolaño dopo questo problematica episodio non presenta spunti o divagazioni altrettanto interessanti. Era un tipo introverso e alquanto umbratile; da ragazzo aveva frequentato assiduamente le sale di lettura delle biblioteche e coltivato pochissime amicizie; scriveva qualche pezzo per dei giornali locali e in sostanza trascorreva quasi tutte le sue giornata fra le pareti domestiche, a eccezione delle escursioni n biblioteca; così, almeno, lo descrive il suo amico Jaime Quezada. Lo stesso che ha affermato di averlo ospitato in Cile al tempo del suo supposto rientro nel 1973, all’epoca del golpe dei militari, allorché Bolaño era costretto a nascondersi, in attesa di poter espatriare clandestinamente. In Messico si era fatto notare come il principale animatore di un movimento letterario d’avanguardia, da lui denominato infrarealismo, in vivace polemica con l’establishment culturale di quel Paese, che però passò totalmente inosservato. Nel 1977 Bolaño emigrò in Spagna (pardon, quale terribile gaffe: in Catalogna!), stabilendosi a Barcellona, al seguito della mamma e della sorella che l’avevano preceduto, e adattandosi a fare vari mestieri poco qualificati per mantenersi, fra cui il vendemmiatore. Il suo primo romanzo, La pista di ghiaccio, è del 1993: stampato in pochi esemplari, scivolò via senza che nessuno lo notasse. Una certa notorietà gli venne l’anno dopo con La pista degli elefanti, che vinse un premio letterario indetto dalla Città di Toledo; seguirono in totale otto raccolte di poesie, quattro di racconti e una quindicina di romanzi. Il consolidamento definitivo della sua fama arrivò comunque con il già ricordato I detective selvaggi, che vinse l’importante Premio Herralde di Barcellona: da quel momento Bolaño è entrato, a toro o a ragione, nell’Olimpo degli scrittori di lingua spagnola a livello mondiale e vi è rimasto fino alla morte, avvenuta nel 2003. Negli ultimi anni lo si era visto pochissimo fuori di casa; sposato, aveva riversato sui figli l’ipocondria che lui steso aveva manifestato da giovane, confermando la sua natura di sognatore, propenso a vivere le sue "avventure" più sulle pagine dei libri che scriveva, proiettandosi nei loro variegati personaggi, che nella sua vita reale. Fedele anche in questo alla lezione del suo (probabilmente sconosciuto) maestro ideale, Luigi Pirandello, che aveva affermato: la vita o la si vive, o la si scrive.

E adesso veniamo al libro in questione, La letteratura nazista in America (titolo originale: La literatura nazi en América, 1996; tradotto in Italia prima da Sellerio, nel 1998 e poi da Aldelphi nel 2013). Questa, di un’estrema destra sempre minacciosa e pronta a risorgere dalle sue ceneri era, per il nostro, dichiaro intellettuale di sinistra, una vera propria ossessione e forse, Dio ci perdoni (anzi, Freud ci perdoni) nascondeva, come tutti i grandi odî, un amore segreto e inconfessabile. Sta di fatto che quando morì, in un ospedale di Barcellona, per insufficienza epatica, mentre era in attesa di un problematico trapianto di fegato, stava lavorando ad un romanzo rimasto incompiuto il cui titolo è tutto un programma, Il Terzo Reich (El Tercero Reich), incentrato sulla figura di un giovanotto, campione di giochi elettronici di guerra — guarda caso, un giovane tedesco — che si confronta con un misterioso avversario nel suo gioco preferito, appunto Il Terzo Reich, nel quale si "reinventa" la storia della Seconda guerra mondiale e si lascia che l’esito dello scontro fra l’Asse e gli Alleati venga determinato dalla bravura dei giocatori. Una possibilità di riscrivere la storia in chiave nazista, magari con la vittoria di Hitler e Mussolini, dunque, anche se limitata all’ambito virtuale d’un gioco elettronico. La letteratura nazista in America, per prima cosa, richiede una precisazione sul titolo: per i lettori italiani, America è sinonimo di Stati Uniti; ma per un latinoamericano, o comunque per un pubblico di lingua spagnola (e portoghese) America è un concetto geograficamente e culturalmente assai più ampio, che abbraccia le terre comprese fra l’Alaska e il Capo Horn e tutte le culture, bianche, indie, meticce, negre, in esse comprese e viventi in reciproco accordo, o meno. Il libro, che si fatica a descrivere come "romanzo", perché in effetti non ha una storia da raccontare, ma solo una trentina di biografie da mettere in fila, è stato definito dall’autore un’antologia vagamente enciclopedica della letteratura filonazista prodotta in America dal 1930 al 2010, un contesto culturale che, a differenza dell’Europa, non ha coscienza di cosa significhi cadere nell’eccesso (Wikipedia alla voce La letteratura nazista in America): affermazione tanto sentenziosa quanto discutibile, perché un europeo sa invece benissimo cosa significhi veder la propria cultura in preda alla febbre dell’eccesso, della dismisura, di sicuro non meno di quanto lo sappia un latinoamericano.

Le biografie sono raggruppate in tredici sezioni: 1, Il clan dei Mendiluce (tre biografie); 2, Gli eroi itineranti o la fragilità degli specchi (due biografie); 3, Precursori e figure di anti-illuministi (quattro biografe); 4, I poeti maledetti (due biografie), 5, Letterate e viaggiatrici (due biografie); 6, Due tedeschi alla fine del mondo (due biografie); 7, Preveggenza e fantascienza (tre biografie); 8, Maghi, mercenari e creature miserabili (quattro biografie); 9, I mille volti di Max Mirebalais (quattro biografie, che però sono un solo personaggio); 10, Poeti nordamericani (due biografie); 11, La Fratellanza Ariana (due biografie), 12, I favolosi ragazzi Schiaffino (due biografie); 14, Ramirez Hoffman, l’infame (una biografia). Segue una ricca bibliografia di autori minori, significativamente intitolata Epilogo dei Mostri. Perché questo sono, evidentemente, per lui gli scrittori elencati in questo libro: mostri, scherzi orripilanti della natura, che egli osserva con la pazienza e la freddezza dello scienziato e ingrandisce con la lente dell’entomologo. Essendo intellettuali di estrema destra, che il titolo definisce sbrigativamente nazisti, non vale la pena di comprendere quali possano essere i loro ideali, i loro presupposti culturali, le loro aspirazioni di natura spirituale e politica: sono mostri, nemici, non uomini, punto e basta. E questo è il tipico atteggiamento dell’intellettuale di sinistra: il quale, per la verità, si ritiene lui solo degno della qualifica di intellettuale; poiché, dal suo punto di vista, non esiste una cultura di destra degna di questo nome; l’intellettuale di destra è un non senso, e quindi gli scrittori e i poeti di tale area ideologica sono, semplicemente, non scrittori e non poeti, ma soltanto immondizia. Tuttavia, si potrebbe osservare che tutta l’opera, dalla prima all’ultima pagina, è permeata da una certa qual vena sotterranea di umorismo, così da togliere asprezza alla severità del giudizio; o meglio, che l’umorismo è sottinteso al romanzo, così come a tutta la produzione dell’autore. A ben guardare, però, tale osservazione non modifica la sostanza della questione: che i "nazisti" siano mostri dei quali inorridire, o mostri dei quali sorridere, sempre di mostri si tratta, che non vale la pena di prendere sul serio. La posizione di Bolaño, che parrebbe influenzata dal suo infrarealismo (che è una forma di surrealismo), è così pur sempre quella del perfetto illuminista, quasi del naturalista algido e impassibile che studia le curiosità della storia come quelle della storia naturale; e che si pone implicitamente al di sopra di esse, perché il giudice non può essere giudicato, né lo scienziato può essere a sua volta sottoposto ad esame. E infatti non è un caso che Bolaño ponga gli anti-illuministi fra i precursori della letteratura "nazista": o si è con Voltaire o con Hitler, tertium non datur. Almeno nella sua prospettiva; che non è una prospettiva seria, in alcun senso. Certo, se non si sa come occupare il proprio tempo, allora si può anche leggere questo tedioso elenco di scrittori immaginari: come l’insonne conta le pecorelle per addormentarsi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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