
Il vicolo cieco della ricerca che si avvita su se stessa
5 Dicembre 2021
Cupi, angosciati, disperati: perché farne dei maestri?
6 Dicembre 2021Per comprendere il discorso che ci accingiamo a fare, invitiamo il lettore a sgombrare la mente da tutta una serie di tenaci pregiudizi che sono il prodotto della cosiddetta cultura moderna, ma che, considerati attentamente uno per uno, non si rivelano essere che dei tratti patologici, anormali, malsani, ai quali ci siamo talmente abituati, da non percepirne il carattere tossico e deviante, ma da averli assunti quali abituali compagni di viaggio della nostra esistenza e quali elementi fondativi della nostra visione del mondo. La quale, inevitabilmente, risulta intossicata, patologica, anormale: del che non ci accorgiamo per la stessa ragione per cui una persona, rinchiusa in un ambiente maleodorante, dopo un certo tempo finisce per abituarsi e non avverte più il fetore, ma gli sembra di stare in un luogo tutto sommato respirabile, come ce ne sono tanti altri. Così siamo noi: cittadini di una città malata, folle, delirante, i quali, per la lunga abitudine e per la gradualità con cui è avvenuto lo sprofondamento, si credono perfettamente sani e comunque capaci di distinguere con sicurezza il bene dal male, il vero e dal falso, il bello dal brutto.
La domanda sottintesa, naturalmente è sempre quella: come è stato possibile che un giorno ci siamo svegliati nel pieno di un incubo divenuto realtà, e non ci siamo resi conto che la realtà era una cosa completamente diversa dall’incubo? Come è stato possibile che una banda di farabutti, al soldo del capitale finanziario globale, proclamasse un’emergenza che non ha motivo di essere e ci togliesse, una ad una, tutte le libertà e tutti i diritti fondamentali, fino a quelli di lavorare e di scioperare, con la complicità e l’attiva partecipazione di tutti gli organi dello Stato, dell’informazione, della magistratura e perfino della Chiesa cattolica, per non parlare della cosiddetta intellighenzia? Come è possibile non vedere che Mario Draghi è il servitore delle grandi banche, che è stato messo lì per fare il suo brutto lavoro non per il bene, ma contro il popolo italiano, per impoverirlo, terrorizzarlo, sottometterlo, e che nulla gl’importa della sua patria, nulla gl’importa della gente onesta che lavora e paga le tasse, ma si serve cinicamente di un terrore mediatico irrorato in dosi industriali da due ani a questa parte per presentarsi come il salvatore del momento e l’unico uomo capace di riportare il Paese alla normalità? Come è possibile che quando un ministro Speranza continua a minacciare provvedimenti restrittivi, un ministro Lamorgese dichiara normale usare la forza poliziesca contro pacifici manifestanti, giornalisti come Andrea Scanzi e Michele Serra ripetono i loro insopportabili mantra terroristici, e sedicenti filosofi come Umberto Galimberti dichiarano che chi non crede alla pandemia è un pazzo che andrebbe sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, mentre la libertà, in fin dei conti, non esiste, ma è un dono grazioso che ci vien fatto a condizione che noi tutti ci comportiamo da "bravi" cittadini, sottomessi e obbedienti: come è possibile che un coro, un mare, un oceano di pernacchie non li sommerga, non li riduca al silenzio, non li costringa ad alzare i tacchi e sparire dalla nostra vista? Come è possibile che la gente sopporti tali e tante limitazioni, perfino quella sulle visite ai propri cari ricoverati in ospedale per motivi che nulla hanno a che fare col Covid, senza farsi due domande, senza chiedersi come mai Bill Gates da anni andasse facendo simulazioni per una pandemia, e ora quello stesso signore ci vende a caro prezzo i suoi pretesi vaccini, che vaccini non sono, ma sieri genici sperimentali, e al tempo steso dichiari che se la vaccinazione verrà fatta come si deve, sarà raggiunto l’agognato obiettivo di ridurre del 10 o del 15% la popolazione mondiale ormai in eccesso? Insomma: come è possibile che neppure in presenza di tali evidenze, di tali dichiarazioni, di tali aberranti propositi non più tenuti nascosti, ma dichiarati ad alta voce e messi nero su bianco, come nei libri di Klaus Schwab o di Jacques Attali, la gente non si renda conto di essere vittima della più turpe e della più sfrontata beffa della storia, qualcosa che passerà nei libri di storia come un esempio classico d’inganno globale perfettamente riuscito a causa della passività e del conformismo generali?
Torniamo alla letteratura. Il nostro immaginario è influenzato e plasmato da tane cose: il cinema, la scuola, la televisione, la stampa, le arti figurative, l’architettura, l’urbanistica, ecc; una di queste cose è la letteratura. Tutti, o quasi tutti, leggono romanzi, mentre solo pochi leggono trattati scientifici o di filosofia. Di conseguenza la letteratura, in tutte le sua manifestazioni, quelle popolari e commerciali così come quelle cosiddette d’autore, influenza molto la nostra vita e la nostra visione del mondo, più di quello che non si creda. Moltissime persone hanno scritto poesie in qualche fase della loro vita; moltissime hanno tenuto un diario e non poche hanno provato a scrivere un romanzo: ne sanno qualcosa gli editori continuamente bombardati da proposte di pubblicazioni che arrivano ogni giorno con implacabile insistenza da parte di sconosciuti che pensano di avere in sé il genio di Manzoni o di Verga. Ora, è un fatto che nella letteratura degli ultimi tre secoli si delinea, e finisce per prevalere, un filone narrativo nel quale la realtà oggettiva diviene sempre meno importante, per essere gradualmente sostituta da una realtà soggettiva dai tratti sempre più inquietanti e paranoici. Alcuni scrittori di autentico genio, come Dostoevskij nei Ricordi del sottosuolo, hanno analizzato il fenomeno e vi hanno svolto delle riflessioni illuminanti; molti altri si sono limitati a cavalcare una moda e a popolare i loro romanzi di sogni, allucinazioni, deliri, spettri, fantasmi, incubi, mostri, assurdità e farneticazioni d’ogni genere, semplicemente perché il pubblico mostrava di apprezzare un tal genere di opere e perché è più facile mascherare dietro simili stramberie e morbosità e la propria mancanza di genio, la propria mediocrità letteraria, assumendo l’aria di ci la sa lunga ma parla solo per allusioni, in modo velato, però se volesse, ne avrebbe di verità da dire sul conto dell’uomo e della sua esistenza. Attenzione: non stiamo parlando semplicemente del filone gotico o della cosiddetta letteratura del fantastico o del terrore, generi che tutto sommato svolgono "onestamente" il loro ruolo, perché non presentano cose diverse da ciò che annunciano al lettore; ma della letteratura cosiddetta impegnata, che però non sa fare altro che pescare nei bassifondi della coscienza e sguazzare con compiacimento in mezzo a tutto ciò che è brutto, sporco, sordido, magari irrobustita da qualche potente iniezione di psicanalisi freudiana, così da aggiunger l’incesto e il parricidio al bel campionario delle sue prodezze: il tutto confezionato e presentato al pubblico come fosse il non pus ultra dell’intelligenza, della perspicacia e della capacità di andare al fondo dei segreti del cuore umano. Insomma immondizia di lusso, lodata e magnificata da tutta una serie di sedicenti critici letterari: incartata e infiocchettata come fosse merce di primissima qualità. Un prodotto letterario ormai talmente comune nel panorama moderno, da costituire piuttosto la regola che l’eccezione, e che ha contribuito enormemente ad abbrutire, incretinire, suggestionare negativamente milioni e milioni di lettori – magari agendo in maniera simultanea con le corrispondenti tendenze del cinema, dello spettacolo, e persino dei fumetti e dei giochi elettronici.
Abbiamo invitato il lettore a liberarsi dai pregiudizi e dai paraocchi; ora facciamo qualche nome per rendere l’idea, ben sapendo che molti alzeranno le sopracciglia e obietteranno come ci permettiamo di esprimere simili giudizi sui mostri sacri del firmamento letterario universale. Ebbene: avete mai provato a leggere Svevo, o Joyce, o Hawthorne, senza farvi condizionare da ciò che la critica dice di loro, ossia che si tratta di autori importantissimi, senza i quali (e questo è vero, purtroppo) la nostra visione del mondo non sarebbe quella che è? Italo Svevo: quanto è stato lodato e celebrato questo autore che scrive malissimo, in un italiano che pare quello di un corso accelerato di lingua per turisti stranieri; che solleva amati problemi senza prendersi mai la briga di proporre una soluzione; che dà dell’uomo e della sua condizione l’immagine più sconfortante e deprimente, ma con l’aria del grande saggio che ha capito tutto e si permette perfino (a conclusione de La coscienza di Zeno) di fare un pronostico funereo sul destino imminente dell’umanità? E dite sincerante avete provato piacere, avete apprezzato la forma, avete ammirato la densità concettuale di costui, o non vi siete annoiati terribilmente? Così come dubitiamo fortemente che qualcuno possa leggersi le ottocento pagine dell’Ulysses di James Joyce senza sbadigliare a partire dalla seconda; che qualcuno lo abbia davvero letto sino in fondo per altri motivi che un dovere d’ufficio o il ricatto culturale che ne fa una pietra miliare della letteratura novecentesca; insomma per ragioni diverse dal timore di sentirsi come un povero provinciale ignorante in mezzo a una folla di signorini perfettamente acculturati, saccenti, pretenziosi? Di scrittori più recenti e più piccoli, sempre più piccoli, che non hanno una sola idea da sviluppare o che la servono e la rigirano in tutte le maniere, perché ne hanno appunto una e nient’altro, meglio non dire niente. Che cosa c’è da dire del pornografo Alberto Moravia o del venditore di aria fritta Umberto Eco? E cosa del sedicente filosofo Umberto Galimberti? Il fatto che la critica li abbia presi sul serio e che il pubblico li abbia apprezzati è di per sé un attestato della profonda decadenza culturale nella quale versiamo da troppo tempo.
Il caso di Nathaniel Hawthorne è un po’ diverso, anche per ragioni cronologiche: la malattia della modernità non era giunta ancora, ai suoi tempi, ai limiti estremi, benché si profilasse minacciosa all’orizzonte. In lui c’è un’autentica problematica morale e spirituale. Non si ha però l’impressione che vi sia una ricerca, ma pare di trovarsi in un mondo fermo, congelato nelle angosce e nei sensi di colpa. Oltre a ciò lo stile prolisso, ridondante, il ritmo lentissimo, le vicende pressoché evanescenti: si ha un bel dire che è stato, con Melville, il massimo romanziere americano della seconda metà del’800. La casa dei sette abbaini e Il fauno di marmo sono quasi illeggibili: si muore di sbadigli dopo i primi due o tre capitoli. Qualche merito va riconosciuto alla Lettera scarlatta, sebbene anche qui domini la figura incomprensibile di un persecutore (come nel Fauno di marmo), simbolo delle ossessioni e degli oscuri rimorsi dell’autore. E poi, quando è giunto all’ultima pagina, che cosa ha capito il lettore del Fauno di marmo? C’è una morale, una conclusione, uno sguardo pacificato sul reale? A noi pare che uno scrittore non dovrebbe neppure intingere la penna nell’inchiostro se non ha sconfitto i propri demoni interiori, o almeno ci ha provato. È troppo facile gettare in faccia al pubblico le ossessioni irrisolte, i conflitti non sanati: in questo modo si può solo accrescere la somma di dolore e infelicità che grava sul mondo. A che scopo, dunque? E Hawthorne di ossessioni ne aveva parecchie; tanto per dire, era uno che vedeva continuamente i fantasmi dei defunti. Niente di strano, si dirà; ci sono persone che hanno tale facoltà. E sia. Ma a che serve vedere i fantasmi e popolare le proprie storie di fantasmi, incubi e orrori, se non si è capaci d’indicare la strada per uscire dal labirinto? Ecco un esempio delle visioni dei defunti di Hawthorne (citato in: Viaggio nel Mistero, Selezione dal Reader’s Digest, Milano, 1984, pp.167-168):
Anche lo scrittore statunitense Nathaniel Hawthorne ne vide uno [fantasma]. Anzi, ne vide parecchi durante la sua vita ed era convinto che la sua casa ne fosse infestata. Tuttavia, la figura che intravedeva più spesso era quella del reverendo Harris, un anziano pastore che condivideva la sua predilezione perla sala di lettura della biblioteca di Boston. Una sera, Hawthorne rimase sorpreso nell’apprendere che il reverendo Harris era morto da poco; era sicuro di aver visto l’anziano signore in biblioteca proprio quel giorno. La mattina dopo, Hawthorne tornò nella sala di lettura e ei nuovo vide Harris tranquillamente seduto davanti al fuoco. Hawthorne si sedette dall’altra parte della stanza e osservò Harris per un po’ di soppiatto al fine di assicurarsi se si trattava proprio di lui o di qualcuno che gli assomigliava. Notò, tra l’altro, che nessuno nella sala, dove si trovavano alcuni amici intimi di Harris, sembrava rendersi conto della presenza del fantasma che sedeva tra loro. Le visite giornaliere dell’apparizione continuarono per settimane, ma, per quanto Hawthorne ne sapesse, lui solo riusciva a vederlo. In un primo tempo, escogitò vari mezzi per mettere alla prova la realtà della sua visione, ma poi vi rinunciò. Come ebbe a scrivere più tardi: «Forse ero riluttante a distruggere l’illusione e a privarmi di una così bella storia di fantasmi che magari si poteva spiegare nel modo più banale». Hawthorne si rendeva conto poco per volta che interesse del fantasma di Harris nei suoi confronti aumentava e incominciò a sospettare che stesse per arrivargli un messaggio, ma entrambi, il vivo e il fantasma, continuavano a rispettare le tradizioni della sala in cui si trovavano e dove «la conversazione era severamente proibita e non avrei potuti rivolgermi l’apparizione senza attirare l’attenzione immediata e l’indignazione dei vecchi signori sonnacchiosi che mi circondavano… Che figura assurda avrei fatto… rivolgendomi a ciò che doveva apparire agli occhi di tutti gli altri… una poltrona vuota! D’altronde, non ero masi stato presentato al dottor Harris». Pare infatti che i fantasmi appaiano a chi vogliono loro, familiari, conoscenti o anche estranei.
Una vita psichica anormale, si direbbe. E ciò facendo la tara a quanto vi è di ridicolo, quasi di grottesco nella buona educazione del gentiluomo bostoniano che non vuole rompere il silenzio della augusta biblioteca, annunciando ai presenti di aver visto un fantasma. Tante buone maniere di fronte a un evento del genere: è segno di compitezza o di squilibrio? Ma tant’è: stiamo parlando di un americano che dopo aver trascorso quasi due anni in Italia e pur avendo dichiarato nell’introduzione al Fauno di marmo che uno straniero dovrebbe essere cauto nel credere di aver capito la mentalità del Paese visitato, si lascia poi andare a un giudizio come questo (nel medesimo romanzo, dove Kenyon teme che Hilda voglia farsi cattolica): che il cattolicesimo è una giocosa forma di superstizione. Ci sono osservazioni così stupide che ci si vergogna perfino a riportarle. Forse, se avesse dedicato meno energia psichica per osservare i fantasmi e chiedersi e se era opportuno richiamare su di essi l’attenzione, e avesse avuto più umiltà nel porsi davanti alla propria vocazione di scrittore, Hawthorne avrebbe potuto davvero essere un grande. Lo asciano intravedere alcune opere brevi, come lo straordinario racconto Il mio parente, maggiore Molineux. Tuttavia, alla fine dei conti, non lo è stato.
La prima cosa che dovrebbe fare chi vuole scrivere un libro destinato a un vasto pubblico (e non ai pochi, come accade per il filosofo) è chiedersi, e chiedere a Dio, se ha un messaggio di pace, di verità e di bene da trasmettere. Altrimenti, farebbe bene a rinunciare, e a tenersi il manoscritto nel cassetto. Ci sono già anche troppa confusione e sofferenza nel mondo, senza bisogno che gli intellettuali le accrescano col loro pessimismo e la loro ipocondria.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels