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Il vicolo cieco della ricerca che si avvita su se stessa

Ci sono scrittori che si conquistano uno spazio ed esercitano un fascino strano su un certo tipo di pubblico, più per quello che non hanno detto che per quello che hanno detto; scrittori i quali hanno lasciato di sé l’impressione, a torto o a ragione, che, se fossero vissuti qualche anno in più…; se la vita li avesse favoriti nella diffusione delle loro idee; se i gradi editori li avessero scoperti per tempo, o qualche critico famoso si fosse accorto di loro un po’ prima… insomma se, se, se, sarebbero passati alla storia come dei giganti non solo delle lettere, ma del pensiero. Ci mancava veramente poco, pochissimo: erano già lì, in prossimità della meta, praticamente arrivati, almeno in senso morale. Però è mancato qualcosa, qualcosa non è andato per il verso giusto; o forse è giusto così: ci sono dei geni che devono restare un po’ nascosti, che non devono dare tutto il loro sapere al pubblico. Che avrebbero potuto, che avrebbero forse anche voluto, ma che alla fine… è andata in un’altra maniera. E non per ciò che hanno scritto, se vengono adesso ricordati, o non tanto per ciò che hanno scritto, ma per ciò che avrebbero potuto scrivere; per ciò che erano sul punto di scrivere, e invece… E tuttavia qualcosa hanno lasciato: se non altro il rimpianto, il rammarico, e quel dolce (sì, dolce) senso d’incompletezza che è in relazione con la poetica leopardiana del vago e dell’indefinito. Ricordate la poesia L’infinito? Sempre caro mi fu quest’ermo colle, ecc. Meno male che c’è una siepe a nascondere l’orizzonte; meno male che il destino s’incarica di confondere un po’ le acque, di mettere almeno un pizzico di mistero nella trama della vita, così che siamo stimolati a farci delle domande. Perché se quegli scrittori, quei poeti, quei maestri — ma sì, chiamiamoli con il loro vero nome: maestri – avessero esplicitato le loro scoperte sino in fondo; se avessero detto tutto quel che volevano dire, che potevano dire, che erano in grado di dire, a noi cosa sarebbe rimasto, dopotutto? È per questo, per questa componente di non detto, di misterioso, di allusivo, che ora noi li ricordiamo come dei maestri di sapienza, oltre che dei maestri di poesia. E infatti li si trova specialmente in quella zona umbratile, eccentrica, essenzialmente ambigua, che è la cosiddetta letteratura sapienziale: espressione che, in Occidente, può voler dire tutto e il contrario di tutto. Perché in Occidente, e specialmente nei secoli della modernità, la cosiddetta letteratura sapienziale (espressione che ci è familiare quasi solo quando si parla della Bibbia, e specialmente di un gruppo di libri della Bibbia) è sempre stata vista come una figlia spuria, una specie di parente povera, quasi priva di radici (il che è falso, naturalmente) e perciò riservata a dei cultori raffinati, ma particolari, un tantino bizzarri, dai bisogni spirituali tanto vasti quanto indefiniti e dai gusti non facili da interpretare, figuriamoci poi soddisfarli.

Questa premessa era necessaria per introdurre la figura e l’opera di uno dei più controversi poeti francesi del Novecento: René Daumal (1908-1944). Controverso, per la verità, è una definizione (e forse è grave sconvenienza) che ci permettiamo di dare noi: di fatto, la sua fama è pacificamente assicurata ed egli è stato assunto da tempo nell’Olimpo dei grandi. Ma è stato un grande? È grande la sua poesia, è grande la sua concezione della vita? Nato in un villaggio delle Ardenne e trasferitosi presto a Parigi, fondatore, con altri, della rivista Le grand Jeu, fa un lungo soggiorno negli Stati Uniti e intanto studia il sanscrito e la filosofia indù. Tornato in Francia, muore di tubercolosi, a soli trentasei anni, lasciando incompiuto il suo (presunto) capolavoro, intitolato Il Monte Analogo: una sorta di romanzo iniziatico e sapienziale ispiratogli dai suoi studi di filosofia indiana e più ancora dal discepolato con un altro "maestro" assai controverso, Georges Ivanovic Gurdijeff. Dal libro, guarda caso, ha poi tatto un film quel bel tipo di regista, attore, intellettuale tuttofare e parecchio istrionico e cialtrone di Alejandro Jodorowsky, che nessuno ha mai capito né cosa voglia dire, né se abbia davvero qualcosa da dire. La fama di Daumal, dunque, è fondata principalmente su due cose: un libro rimasto incompiuto e una vita un po’ strana, irregolare, che ha permesso ai critici suoi simpatizzanti di definirlo, con compiacimento, un cattivo ragazzo, poiché faceva uso di droghe e alternava gli studi di tibetano e giapponese ad esperienze che oggi si dicono trasgressive, anche se non scandalizzano più nessuno. Perché, appunto, Daumal è stato un maestro: se un buon maestro o no, questo è da vedere; ma che abbia fatto strada, o meglio che abbia indicato una strada, non c’è dubbio. Il paradosso di questo indicatore di strade è che non aveva trovato la sua; o forse l’aveva trovata ma, come abbiamo accennato nella premessa, gli sfuggiva continuamente; oppure ancora l’aveva trovata, ma in sogno e non nella realtà. Insomma: l’aveva trovata e non l’aveva trovata; salvo poi teorizzare che la strada non è importante in se stessa, ma è importante comprendere quel che si sta cercando, e che non lo si può trovare finché non si abbandonano gli schemi abituali, mentali ed esistenziali, della nostra vita di ogni giorno. In questo, è stato un maestro della gioventù cresciuta dopo la Seconda guerra mondiale: una gioventù confusa e velleitaria, che voleva tutto e subito ma che non sapeva esattamente né cosa, né come; una gioventù irrequieta e impaziente, che abbiamo cercato di descrivere attraverso la figura di un altro intellettuale underground vissuto, però, nella generazione successiva alla sua, cioè in sostanza la beat generation: Colin Wilson. Come più tardi Wilson, anche Daumal era alla ricerca del centro originario del mondo, del punto di congiunzione con l’aldilà, insomma la visione appagante e perfetta del Tutto, di cui nell’esistenza quotidiana possiamo cogliere solo i frammenti slegati e sbiaditi, ma della cui bellezza d’insieme abbiamo solo una vaga nostalgia. Uomini come Daumal e come Wilson sono persuasi che per cogliere quella visione istantanea, felice, definitiva, vale la pena di cercare per una vita intera; e della ricerca hanno fatto la loro missione.

Diceva giustamente Platone che l’uomo non cercherebbe se avesse già ciò di cui va in cerca; ma che d’altra parte non saprebbe neanche da dove cominciare se non possedesse già, e sia pure in misura minima, perché solo conoscendo quel che si cerca si può sapere cosa si sta cercando. Anche per René Daumal vale questo principio; si ha però l’impressione che, per lui, a un certo punto la ricerca in sé sia divenuta la cosa principale e che, pur dichiarando di essere proteso spasmodicamente verso l’oggetto della ricerca, tale oggetto avesse perduto un poco della sua importanza rispetto al cercare in quanto tale. Ma qual era tale oggetto, se non la visione subitanea, esaustiva, assoluta, della Realtà Ultima? Questo ci suggerisce di porre Daumal nella categoria dei sensuali: perché la ricerca finalizzata all’appagamento è tipica di chi ha una natura sensuale (e un’intelligenza disordinata) che prevale su ogni altro aspetto. Ora, non c’è dubbio che avere la visione perfetta dell’Assoluto sia un’esperienza appagante: anche nella ricerca intellettuale vi è un aspetto di appagamento, perché la mente gode di aver trovato quel che cercava. Bisogna però stare attenti a non confondere l’effetto con la causa. L’appagamento, cioè il godimento intimo, profondo, è senza dubbio un effetto del raggiungimento della meta; ma all’origine della ricerca non può e non deve esserci la ricerca del godimento, il quale viene dato come premio al ricercatore. La sola motivazione seria della ricerca spirituale è il desiderio di realizzare pienamente e onestamente la migliore facoltà di cui l’uomo è dotato, la ragione unita alla retta volontà. E la volontà è retta quando s’indirizza verso il fine nobile e spregia i fini secondari e quelli vili. Il fine nobile dell’uomo è uno e uno solo: conoscere, adorare e servire Dio, origine della sua vita e di tutto ciò che esiste.

Questo concetto emerge abbastanza chiaramente dal brano che qui riportiamo, tratto dal racconto Il Monte Analogo, così come apparve sulla rivista Mesures nel gennaio 1940, che è una prima elaborazione del capitolo iniziale del futuro romanzo incompiuto dallo stesso titolo (in: René Daumal, La conoscenza di sé; Editions Gallimard, Paris, 1970; traduzione dal francese di Bianca Candian, 1972, 1986, pp. 31-33):

«E poi lei è cresciuto, ha studiato e ha cominciati a filosofare, non è vero? Ci caschiamo tutti. Sembra che verso l’età dell’adolescenza la vita interiore del giovane essere umano si trovi improvvisamente indebolita, castrata nel suo coraggio naturale. Il suo pensiero non osa più affrontare la realtà o il mistero faccia a faccia, direttamente; si mette a guardarli attraverso le opinioni dei "grandi", attraverso i libri e i corsi dei professori. Eppure c’è una voce che non è del tutto uccisa, che certe volte grida — ogni volta che lo può, ogni volta che una scossa dell’esistenza allenta il bavaglio -, che grida la sua interrogazione, ma noi la soffochiamo subito. Ed ecco che ci capiamo già un po’. Posso dirle dunque che ho paura della morte. Non di quello che ci si IMMAGINA della morte, perché questa paura è essa stessa immaginaria. Non della mia morte, la cui data sarà annotata nei registri dello stato civile. Ma di quella morte che subisco a ogni istante, more di quella voce che, dal fondo della mia infanzia, anche a me chiede: "Cosa sono"?, e che tutto, in noi e intorno a noi, sembra essere disposto a soffocare, ancora e sempre. Quando questa voce non parla — e non parla spesso! — sono una carcassa vuota, un cadavere agitato. Ho paura che un giorno essa taccia per sempre; o che si svegli troppo tardi — come nella sua storia di mosche: quando ci si sveglia si è morti.

«Ecco!» fece quasi con violenza «Le ho detto l’essenziale. Tutto il resto, sono dettagli. Da anni aspetto di poter dire questo a qualcuno».

Si era seduto, e vidi che quell’uomo doveva avere una ragione d’acciaio per resistere alla pressione della follia che ribolliva in lui. Adesso era un po’ più disteso e come sollevato.

«I miei soli momenti buoni» riprese dopo aver cambiato posizione «erano d’estate, quando riprendevo le scarpe chiodate, il sacco e la piccozza per andare in montagna». Le mie non erano mai vacanze molto lunghe, ma sapevo come approfittarne! Dopo dieci o undici mesi passati a perfezionare aspirapolvere o profumi sintetici, dopo una notte di treno o una giornata di corriera, quando arrivavo, con i muscoli ancora sporchi dei veleni della città, ai primi campi di neve, mi succedeva di piangere come un idiota, con la testa vuota, le membra ubriache e il cuore aperto. Alcuni giorni dopo, puntellandomi in un camino o a cavallo su una cresta, i ritrovavo, riconoscevo in me dei personaggi che non avevo più visto dall’estate precedente. Ma erano sempre gli stessi personaggi, dopo tutto…

«Ora, nelle mie letture e nei miei viaggi avevo sentito parlarle come lei, di uomini di un tipo superiore, che possedevano le chiavi di tutto ciò che per noi è mistero. L’idea di un’umanità invisibile, interiore all’umanità visibile, non poteva rassegnarmi a considerarla come una semplice allegoria. Era provato dall’esperienza, mi dicevo, che un uomo non può raggiungere direttamene e da solo la verità; bisognava che esistesse un intermediario – ancora umano, per certi lati, e per altri superiore all’umanità. Bisognava che, in qualche punto della nostra Terra, vivesse quest’umanità superiore e che non fosse del tutto inaccessibile. E dunque, tutti i miei sforzi non dovevano forse esser dedicati scoprirla? Anche se, nonostante la mia certezza, ero vittima di una mostruosa illusione, non avrei perso niente a compiere tali sforzi, poiché, in ogni modo, al di fuori di questa speranza tutta la vita era priva di senso.

«Ma dove cercare? Da dove cominciare? Avevo girato il mondo, ficcato il naso ovunque, in ogni sorta di setta religiosa e di scuola mistica, ma di fronte a ciascuna era sempre: forse sì, forse no Perché avrei dovuto puntare la mia vita su questa piuttosto che su quella? Capisce, non avevo una pietra di paragone. Ma, per il fatto che siamo in DUE, tutto cambia; il compito non diventa DUE VOLTE più facile, no: da IMPOSSIBILE diventa POSSIBILE. È come se, per calcolare la distanza di un astro dal nostro pianeta, lei mi desse UN punto conosciuto sulla superficie del globo: il calcolo è impossibile; mi dia un secondo punto, e diventa possibile, perché allora posso costruire il triangolo».

Questo salto brusco nella geometria era proprio nel suo stile. Non so se lo capivo molto bene, ma c’era una forza che mi convinceva.

«Il suo articolo sul Monte Analogo mi ha illuminato» continuò. «Esso esiste. Lo SAPPIAMO tutti e due. Dunque lo scopriremo. Dove? È solo una questione di calcolo. Le prometto che fra qualche giorno avrò stabilito, con l’approssimazione di alcuni gradi, la sua posizione geografica E partiamo subito, vero?».

Questo brano ricorda l’atmosfera de La montagna incantata di Thomas Mann (1924) e in parte del Gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse (1943): un’atmosfera artificiale, da serra, popolata da personaggi allucinati, velleitari, protesi verso qualcosa che sfugge sempre, perché forse non esiste, o non si trova dove lo cercano. Daumal cercava, fra l’oppio e la sapienza indù, la Parola Suprema, il Punto Universale, il Monte Analogo. Ma li avrebbe trovati? La sua fama si regge su questo dubbio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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