H. Sörgel, colui che voleva creare un mare (anzi due)
30 Novembre 2021E se ci avessero sempre raccontato un sacco di bugie?
2 Dicembre 2021È una gran bella figura d’italiano, di patriota, di scrittore, di uomo, quella del generale Angelo Gatti (Capua, 9 gennaio 1875-Milano, 19 giugno 1948), ufficiale di Stato maggiore e segretario particolare del generale Cadorna nella Prima guerra mondiale, chiaro e apprezzato scrittore di cose militari. Fra i suoi libri più importanti di questo periodo ricordiamo La guerra senza confini (1915), L’Italia in armi (1916), Le presenti condizioni militari della Germania (1916), Uomini e folle di guerra (1921), Nel tempo della tormenta (1923), La parte dell’Italia. Rivendicazioni (1926). In seguito, specie dopo la morte della moglie, nel 1927, egli concentrò i suoi interessi sulla narrativa, celebrando, in romanzi come Ilia e Alberto, la saldezza dell’amore coniugale aperto alla prospettiva religiosa e capace di prolungarsi oltre la morte. Dei tre libri di memorie, forse i più interessanti di tutta la sua produzione, due, uno dedicato alla battaglia di Caporetto, l’altro alla partecipazione italiana alla Conferenza di Versailles, vennero pubblicati postumi, ma confermarono la serietà e l’obiettività dell’autore come fonte storica di prima mano.
La sua personalità schietta e onesta ha qualcosa di tardo ottocentesco, così come i suoi romanzi, che paiono inserirsi nel solco della narrativa psicologica e morale di Antonio Fogazzaro o Paul Bourget; ma è soprattutto per le sue numerose opere storiche e memorialistiche che nel 1937 fu nominato Accademico d’Italia. E noi sospettiamo che per questo, cioè per essere entrato a far parte dell’istituzione culturale fascista per eccellenza, furiosamente e stupidamente soppressa al termine della guerra, la sua fama di scrittore, chiaramente affermata negli anni fra i due confitti mondiali e ratificata dal successo di pubblico, è dopo il 1945 rapidamente tramontata, come se la sua memoria, agli occhi della cultura dominante e politicamente corretta, come oggi si dice, potesse aver qualcosa d’imbarazzante per le generazioni venute dopo il 1945, alle quali si doveva parlare solo di scrittori e intellettuali apertamente antifascisti, antimilitaristi, antipatriottici e possibilmente anticattolici o almeno anticlericali. Insomma di uomini che non riflettevano per nulla il sentire profondo del popolo italiano, né custodivano l’autentico retaggio della nostra civiltà, ma che, in compenso, avevano acquisito – a torto o a ragione — le necessarie benemerenze della nuova classe politica e intellettuale, tutta protesa nello sforzo di far dimenticare agl’italiani la loro storia, la loro tradizione, la loro stessa identità, per manipolarli come cera e far di loro ciò che volevano i vincitori anglosassoni: un volgo disperso che nome non ha, il quale deve contentarsi di un ruolo subalterno, vergognarsi e scusarsi di quello che è stato, e re-imparare ogni cosa dalla trionfante civiltà del denaro e dell’usura.
Citiamo una pagina del libro meno conosciuto, ma forse più intensamente sofferto, di Angelo Gatti, L’ombra sulla terra, del 1945, che è un po’ anche il suo testamento intellettuale e morale, nella quale egli descrive gli effetti di uno dei numerosi bombardamenti angloamericani su Milano del 1943-1945 (citati in: L. Bianchi, V. Mistruzzi, La vela. Antologia italiana per la scuola media, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1959, pp. 833-837):
Verso mezzogiorno esco per andare al Cimitero Monumentale, dove mia moglie dorme. Credo in Dio e nell’immortalità, e mi piace, in particolare nei casi gravi, discorrere con l’Onnipotente e con i morti; negli intimi colloqui mi sento, sotto lo sguardo del Creatore, tutt’uno con chi non è più, in attesa di chi sarà Ho ereditato questa fede dalla mia gente contadina. Dio e i morti sono fonte di uguaglianza; nel regno dello spirito non ci sono né casacche né galloni. Il contadino sente questa parità futura, che lo consola della disparità terrena; perciò crede in Dio, e prega sulle tombe dei suoi morti, sepolti nella terra e sotto il cielo senza preferenza per nessuno. Povera la mia donnina, non le sarà successo niente di male questa notte? Se fosse stata viva, che paura avrebbe avuto; perché conosceva gl’inganni e i dolori della vita, ma le piaceva vivere. (…)
Il bombardamento ha causato gravissimi danni; nella città molti sono i morti, molti i feriti e molte le case, distrutte o rovinate. Nei rifugi, sotto le macerie fumanti, centinaia d’infelici sono rimasti; i soccorritori sono scarsi, l’acqua è venuta a mancare, le muraglie che parevamo salde, improvvisamente crollano; si possono tentare pochi salvataggi. (…)
Riprendo la via del cimitero. Molte cose sono cambiate ieri in città. Crocchi silenziosi di spettatori, contenuti da soldati, si guardano intorno, stupiti e incerti. Alla prima occhiata la strada che percorro sembra la solita; s’allunga diritta e sicura sotto il cielo cinerognolo, finché in fondo la fermano i compatti palazzi d’una piazza. Le case allineate, con i pilastri, i balconi, le mensole, i cornicioni protesi, hanno conservato esteriormente la loro solidità indistruttibile. Gli uomini ci potranno vivere con le cure, i crucci, le gioie, come innumerevoli generazioni ci sono vissute; nelle intime stanze riposeranno ancora in pace i vecchi e i bambini. Ma questa è la maschera. L’edificio che costeggi, con la facciata intatta, dentro è una rovina; oltre le finestre spalancate traluce il cielo. Una specie di nebbietta, polvere di calcinacci, ondeggia nell’aria; dal cortile salgono sordi comandi e colpi di piccone. Nella casa vicina, un pezzo di pavimento è rimasto, per un inverosimile gioco d’equilibrio, in cima a una scaletta; un letto, nell’angolo, s’affaccia, sul punto di precipitare. Tutto è fuori di squadra, sconvolto, spezzato. Le saracinesche delle botteghe, risucchiate dall’esplosione, fanno pancia, le insegne e le lampade pendono di traverso sui muri, i marciapiedi si sono affossati o sollevati, come se una convulsione avesse scrollato il suolo; si scorge dallo squarcio d’un androne un cortiletto fondo come un pozzo con un alberello bruciacchiato; un gatto sperduto piange in un angolo. Più in là una colonna di fumo esala un puzzo nauseabondo. Ogni cosa è sudicia, brutta, ridotta improvvisamente vecchia e triste. Pare di avere innanzi lo scenario d’una città devastata, nella gigantesca fantasia d’un Piranesi.
In una viuzza laterale, un uomo scava con furia disperata fra e macerie d’una casetta, sena badare alle esortazioni di alcuni, agli avvertimenti di altri che, impauriti, gli indicano un muro oscillante.
– Sua moglie e sua figlia sono rimaste là sotto — spiega una donnetta; – lui stanotte lavorava alla fabbrica. I pompieri non sono ancora arrivati; lui continua a scavare. Dice che la sua piccina lo chiama.
— Un’illusione, signore, – assicura un altro.
L’uomo persiste nel lavoro, mugolando; ha la testa e le braccia nude, i capelli e il viso rigati di sudore a dispetto del freddo intenso; i colpi di piccone e l’ah-ah che li accompagna riempiono la viuzza, e mentre mi allontano mi rimbombano nel petto. Mi sembra che in tutta la città tutti gli uomini lavorino di piccone, a cercare i loro morti. Fatico a restar calmo. (…)
Dinanzi al cimitero la mia angoscia è intensa. I lunghi cancelli neri chiudono il bianco piazzale deserto; dietro ai cancelli i custodi avvertono i visitatori che non si può entrare. Ma io sono l’amico di molti anni, e rompo la consegna.
Nel viale centrale, pallottole di mitragliatrici hanno solcato il suolo e rotto le lapidi, come se avesse tempestato; a un certo punto, una bomba non esplosa, interrata, sporgeva minacciando il muso d’acciaio. Cento passi a levante della chiesetta centrale, un’altra ha aperto nel suolo un imbuto, largo e fondo, come una stanza; intorno ogni cosa è saltata in aria: capitelli, bassorilievi, statue, croci, vasi di bronzo si mescolano spezzati e contorti con le macerie; sui calcinaci stagna la nebbietta pigra delle strade cittadine. Strappate dalla terra, affiorano le bare di piombo, il coperchio stracciato e accartocciato come una tenaglia. E, orribile sorpresa, sono vuote. L’esplosione ha succhiato la cenere dei morti antichi, polverizzato e disperso le ossa dei recenti; forse io sto respirando queste ultime molecole di uomini che furono vivi al pari di me. (…)
Le nostre tombe sono murate sulle parti l’una sull’altra; così a maggio le rose bianche e rosse, che piacevano tanto a lei, arrampicandosi dalle aiuole, toccano e quasi abbracciano i morti. Ora, divelte dal turbine dell’aria, le lastre di marmo che chiudono i loculi vuoti di mio fratello e di me, sono adite, spezzando e incavando l’altare e il pavimento. E a un tratto non mi domino più. Sotto la mia tomba s’è scoperta quella di mia moglie; e i pare che la poveretta, rimasta indifesa, stia per uscirne. Mi pare che dalle cappelle vicine, ugualmente devastate, tutti i morti debbano uscire per lamentarsi e piangere coi vivi. M’allontano, rabbrividendo, ma quei fantasmi mi accompagnano; soltanto oltre il piazzale esteriore dileguano. Allora mi ricordo che oggi non ho parlato con mia moglie né con Dio; troppe cose avevo da dire e l’animo s’è inaridito.
Pagine vive e commoventi come questa, che portano un contributo di ricordi personali alla storia della Seconda guerra mondiale, contribuiscono, è inutile girarci attorno, a una lettura più realistica e obiettiva e meno ideologica di quella dolorosa pagina della nostra storia nazionale; e non dubitiamo che proprio per questo il pubblico le conosca così poco, tanto che è necessario risalire a una antologia scolastica degli anni ’50 del secolo scorso per trovarne traccia: dopo, silenzio assoluto. A partire dagli anni ’60, la plumbea cappa della cultura dominante di sinistra, tutta impregnata di antifascismo viscerale e militante, addirittura perpetuo, ha potuto muoversi in regime di monopolio, cioè senza mai contraddittorio, celebrando le proprie lodi e dipingendo la storia recente in termini di bianco e nero, come se tutto il bene e tutto il male del mondo fossero nettamente schierati l’uno contro l’altro (e non ci sono dubbi suo fatto che essa è l’erede del bene). Si pensi che ancora oggi quella cultura agita lo spauracchio del fascismo, ad esempio in occasione dell’assalto alla sede romana della C.G.I.L., per giustificare la propria inutile esistenza e tutti i privilegi, morali e materiali, dei quali ha goduto per settant’anni, presentandosi quale baluardo e presidio di libertà del popolo italiano. Pagine come questa erano sgradite alla cultura dominante, che infatti è riuscita a farle sparire sotto il tappeto, perché fanno riflettere le giovani generazioni su come i liberatori hanno fatto la guerra e ridimensionano parecchio, per non dire che smentiscono del tutto, la tesi che gli Alleati non facevano la guerra al popolo italiano, ma al fascismo, e che una volta isolato Mussolini, essi non desideravano che mostrare agli italiani la loro benevolenza e il loro sincero desiderio di amicizia Una narrazione inverosimile, al limite del ridicolo, perché riduce la storia alla favola di Biancaneve e i Sette nani e vuol dare a credere che ci siano dei popoli, gli anglosassoni in questo caso, che fanno la guerra semplicemente per portare la libertà ad altri popoli; cosa che pure è stata detta e ripetuta anche in anni recenti, ogni volta che quegli stessi signori hanno aggredito un Paese dopo l’altro, l’Afghanistan, l’Iraq, la Serbia, la Libia, la Siria, e sempre raccontando al mondo intero la stessa favola bella: che il loro unico scopo era portare in dono la democrazia a quei popoli, aiutandoli a liberarsi dai tiranni che li opprimevano.
È un peccato che a noi italiani sia stata negata la vera memoria storica, censurando testimonianze di verità come quella di Angelo Gatti, che si riferisce al bombardamento di Milano nella fase finale della guerra: perché ai giovani sarebbe stato chiaro che quando una potente aviazione, che agisce pressoché incontrastata per l’assenza di aerei nemici, si accanisce a bombardare le città indifese, a distruggere i quartieri residenziali, a mitragliare perfino i cimiteri, o, come è accaduto in alcuni casi documentati, le giostre di qualche fiera ove dei bambini cercavano per qualche minuto di evadere dal clima della guerra, evidentemente quella nazione non sta facendo la guerra per dei nobili ideali, poiché non si possono perseguire fini onesti con mezzi tanto ignobili. Del resto, sarebbe bastato ascoltare quelli che c’erano, le vive testimonianze dei milanesi, dei torinesi, dei genovesi, dei romani, che dopo l’8 settembre del 1943 hanno sperimentato le delizie della guerra fatta dagli anglosassoni per liberare gli italiani dal loro malvagio governo e restituirli alla civiltà del mondo libero e democratico. Bastava lasciar parlare i propri genitori, come abbiamo fatto noi, per sapere che dei bambini di sei anni usciti da scuola dovevano correre a rifugiarsi sotto qualche portone perché gli aviatori alleati si abbassavano sulle strade allo scopo di mitragliare i passanti; come del resto facevano con i treni carichi di sfollati lungo le linee ferroviarie, o con le automobili lungo le strade, per poi ritornare alle loro basi ed essere accolti come eroi dai loro compagni e dalle loro famiglie, e non come assassini di gente inerme, quali in realtà erano. Ma è proibito dire cose simili; così come è severamente vietato ricordare che sotto le bombe dei liberatori anglosassoni ha perso la vita un numero di civili almeno dieci volte maggiore di quelli che sono caduti sotto il plotone d’esecuzione dei tedeschi nel corso delle rappresaglie antipartigiane. Con la differenza non proprio trascurabile che i tedeschi reagivano a degli attacchi sleali, come nel caso di via Rasella, mentre gli angloamericani non reagivano a nulla di nulla, si accanivano contro case e persone inermi per puro sadismo, senza porsi alcun obiettivo di natura militare. E che vorremmo dire, con questo: che Hitler era migliore di Roosevelt o Churchill? No di certo: ma il punto non è questo; il punto è che non si può e non si deve costruire la narrazione storica sulla base delle menzogne sistematiche. Come si è fatto sulle foibe; sulle tragiche vicende di Trieste occupata dagli iugoslavi per quaranta giorni; o sui massacri perpetrati dai valorosi partigiani comunisti a guerra ormai finita, assassinando, oltre a un discreto numero di capi partigiani non comunisti, migliaia di fascisti che si erano arresi e di civili accusati di essere anch’essi fascisti, ma la cui vera colpa, in molti casi, era semplicemente quella di essere un po’ benestanti e di possedere una casa, un esercizio commerciale o un po’ di terra, che facevano gola ai compagni dal fazzoletto rosso. Quelli che desideravano l’arrivo dei carri armati di Stalin e che immaginavano per l’Italia un futuro di libertà… all’ombra dell’Unione Sovietica, coi suoi gulag e le sue purghe.
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio