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La storia senza Dio nulla dimentica e nulla impara

Quando la storia è fatta da uomini interessati unicamente al denaro e al profitto; quando essi escludono completamente Dio dalla loro prospettiva oppure si servono di Dio per coprire i loro interessi, strumentalizzando la fede religiosa, allora la essa non è che un racconto scritto da un idiota, pieno di strepiti e furore, che non significa niente, come dice Shakespeare nel Macbeth (atto quinto, scena quinta). E quel che è peggio, un racconto nel quale nessuno impara qualcosa, ma gli errori si ripetono sempre uguali, e così i crimini: sempre ugualmente insensati, perfino monotoni nella loro esasperante ripetitività. Gli uomini imparano qualcosa dalla storia solo quando hanno l’amore e il timor di Dio; senza di esso, non sono che canne al vento, e la società è simile a un corpo in disfacimento, nel quale ogni organo bada a se stesso, ma nessuno si prende cura dell’organismo nella sua totalità. E quando società diverse, culture diverse e civiltà diverse entrano in contatto, la più forte cerca di sfruttare al massimo il vantaggio e s’impone con la violenza alla più debole, senza farsi alcuno scrupolo, e anzi creandosi cento alibi e giustificazioni per rendere accettabile a se stessa il proprio modo d’agire. Tuttavia il male non scorre mai via senza lasciare traccia: sia al livello delle relazioni fra due individui, sia in quello delle relazioni fra due popoli, due culture, due civiltà, il male inferto intenzionalmente semina frutti velenosi, alimenta sospetti e diffidenze tenaci, e dà origine a segreti propositi di vendetta o di rivincita, che si protraggono nel corso delle generazioni e intossicano anche i discendenti di coloro che hanno subito le offese, instillando in essi un miscuglio micidiale di rancori e pregiudizi.

Un caso esemplare di quanto abbiano ora detto è rintracciabile nelle due cosiddette guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860), nelle quali la Gran Bretagna della regina Vittoria, o meglio la Compagnia inglese delle Indie Orientali, appoggiata, nel secondo conflitto, dalla Francia di Napoleone III, inferse una sconfitta cocente al Celeste impero cinese, allora retto dalla dinastia Manciù, imponendogli i cosiddetti trattati ineguali che sarebbero stati all’origine della brama di rivincita cinese nei confronti dell’Europa. La cosa più triste è che quelle guerre di aggressione nacquero dal commercio dell’oppio prodotto nell’India britannicam che le autorità cinesi avevano cercato di proibire, sequestrando e distruggendo i carichi di alcune navi, visti gli effetti disastrosi che il consumo di tale sostanza aveva sul popolo cinese, nel quale si era diffuso il vizio di fumare l’oppio sino a rovinarsi completamente la salute fisica e mentale. Chi può dire che il trauma di quell’evento disastroso, subito dalla coscienza nazionale cinese, non abbia contribuito a predisporre quel popolo ad un atteggiamento di aggressiva sospettosità nei confronti dell’Occidente e in qualche modo non abbia alimentato le tendenze autocratiche e totalitarie di quel governo, persuandendolo che il presupposto per essere rispettato a livello internazionale è quello di esercitare un ferreo e capillare controllo sui propri cittadini? Ma, si obietterà, è assurdo pensare che vi sia una relazione fra le tendenze del governo cinese del XXI secolo e ciò che accadde verso la metà del XIX, oltre centocinquanta anni prima. Ma ne siamo sicuri? Così come una grave offesa o una grave ingiustizia non sono scordate nel corso di una vita individuale, né vengono smorzate dal trascorre degli anni, allo stesso modo possiamo pensare che, se le società sono paragonabili a degli organismi complessi, una vicenda come quella del 1839-1860 si sia impressa con caratteri di fuoco nella coscienza del popolo cinese e abbia generato un desiderio di rivalsa direttamente proporzionale all’entità del trauma subito e capace di auto-alimentarsi, una generazione dopo l’altra. E il popolo cinese, per le sue caratteristiche psicologiche e culturali, per la sua formazione spirituale e tutta la sua tradizione storica, ci sembra quanto mai portato a immagazzinare le impressioni e le esperienze e a meditarle a lungo, in silenzio, senza rivelare apertamente i suoi stati d’animo, attendendo con estrema pazienza il momento in cui si presentino delle condizioni favorevoli che gli permettano di riprendere il filo del discorso interrotto.

Scrive nel saggio Il saccheggio del Palazzo d’Estate di Pechino lo storico dell’arte estremo-orientale Jean Watelet (1926-2001), autore di numerosi saggi sull’evoluzione del costume in Francia e sull’influenza della cultura e dell’arte cinese presso la società europea nel XVIII e XIX secolo (in: I grandi enigmi delle civiltà scomparse, a cura di Paul Ulrich, Edizioni Ferni, Ginevra, 1974, vol. 3, pp. 20-22):

Le clausole del trattato [il trattato di Pechino del 1860, succeduto ai Trattati di Tientsin del 1858] sono dure. Indipendentemente dagli accordi di ordine politico e commerciale, esse prevedono una forte indennità in oro. Inoltre, come rappresaglia per l’assassinio di molti Europei, i cui abiti macchiati di sangue sono stati trovati nel Palazzo, si dispone che il Palazzo d’Estate venga distrutto e che tutto l’oro e tutte le ricchezze che vi si trovano siamo distribuite alle truppe. Così fu distribuita una somma pari a 800.000 franchi oro. Ogni soldato semplice e ogni marinaio ricevette 180 franchi. Lord Elgin insiste perché sia attuata la distruzione competa del palazzo, dopo aver asportato e distribuito l’oro trovatovi. Il generale Cousin-Montauban rimane colpito dallo splendore degli appartamenti imperiali. Per questo egli dispone delle sentinelle di guardia per evitare il saccheggio in attesa dell’arrivo del suo collega inglese, il generale sir Hope Grant. Costui arriva accompagnato da lord Eligin. Immediatamente i capi alleati si pongono il problema della ripartizione delle ricchezze contenute nel palazzo. «Secondo le istruzioni che avevamo ricevuto» scriverà il generale Cousin-Montauban, «decidemmo di dividerle in parti uguali fra i due eserciti, a patto che ne fosse fatto un uso consentito dai regolamenti. Per questo designammo tre commissari per ciascun esercito, con il compito di mettere da parte gli oggetti più preziosi e di farne una divisione in parti uguali. Tuttavia era impossibile pensare di portare via tutti gi oggetti, data la scarsità dei nostri mezzi di trasporto. Nella scelta degli oggetti fatta da lord Elgin, feci in modo che la regina d’Inghilterra scegliesse per prima; era un atto di galanteria della Francia nei suoi confronti».

Messo al corrente dell’intenzione di lord Elgin circa la distruzione del palazzo, il generale francese tenta di opporsi, considerando il fatto come puro vandalismo, per nulla giustificato dalle necessità della campagna. Egli bensì accetta che le truppe alleate si dedichino al saccheggio, fa però sommariamente giustiziare i Cinesi che, sulla scia dei soldati, si danno al saccheggio per proprio conto. Questi ultimi riescono ad appiccare un primo incendio, subito estinto, che distrugge solo qualche costruzione di scarso valore architettonico. Invece il generale Cousin-Montauban scriveva, il 17 ottobre1860, al generale sir Hope Grant: «Ho riflettuto per tutta la mattina sulla vostra intenzione di coinvolgermi nell’incendio del palazzo imperiale di Yuan-min-yuen, già per tre quarti distrutto nei giorni 7 e 8 ottobre dalle mie truppe e dai Cinesi. Credo sia mio dove, in osservanza alle istruzioni che ho ricevuto, esporvi i motivi del mio rifiuto a cooperare con voi in una simile impresa. Innanzi tutto essa apparirà come dettata da spirito di vendetta contro gli atti di perfida barbarie commessa nei confronti dei nostri sfortunati compatrioti, senza che questa vendetta raggiunga lo scopo che si propone. Inoltre un nuovo incendio appiccato al palazzo imperiale può terrorizzare il principe Kong, già sconvolto dai recenti avvenimenti, e indurlo ad abbandonare i negoziati. In questo caso, l’attacco al palazzo imperiale diventerebbe una necessità, e la sconfitta dell’attuale dinastia [Qing, o Manciù] una conseguenza. Ciò sarebbe esattamente il contrario delle istruzioni che abbiamo ricevuto.

Per tutti questi motivi io credo, signor generale in capo, di non potermi associare in alcun modo a ciò che vi accingete a fare, considerando questa azione nociva agli interessi del governo francese».

La risposta del generale Hope Grant fu che se non si fosse impartita al governo cinese una lezione esemplare, esso non si sarebbe riconosciuto veramente sconfitto e sarebbe stato tentato di ripetere le violenze contro gli europei: la distruzione del Palazzo d’Estate era dunque una necessità politica più che militare, il cui scopo era non vanificare i frutti della campagna ed evitare che un gesto di clemenza venisse interpretato dai cinesi come debolezza. Davanti a simili argomentazioni il generale francese Cousin-Montauban, forse anche per non incrinare l’intesa fra le due nazioni alleate, dovette cedere e acconsentire alla rappresaglia, ma solo dopo aver concordato che l’incendio sarebbe stato preceduto da una sistematica spoliazione delle ricchezze contenute nel palazzo da parte dei due eserciti. Perché sprecare un simile ben di Dio, lasciando divorare dalle fiamme oggetti che, trasportati in Europa, avrebbero reso dei profitti tutt’altro che indifferenti? Dopotutto, la seconda guerra dell’oppio, come anche la prima, era scaturita da ragioni puramente commerciali e mercantili, che non avevano niente a che fare né con un progetto politico, né, meno che mai, con ragioni di tipo etico, nonostante l’ipocrisia di averla presentata come una punizione per le violenze perpetrate dai cinesi contro cittadini europei: sarebbe stato perciò illogico bruciare dei beni per il puro gusto di bruciarli, senza ricavarne niente. Così, oggetti di squisita fattura e d’inestimabile valore, dal baldacchino imperiale a una quantità sterminata di porcellane, giade lavorate e altri capi di arredamento, vennero asportati in un clima simile a quello che aveva caratterizzato, più di tre secoli prima, i saccheggi dei conquistadores presso le corti degli aztechi e degli inca: più disordinato e quasi caotico il saccheggio compiuto dalle truppe francesi, estremamente preciso e metodico quello dei britannici, sempre fedeli alle ragioni squisitamente economiche che li avevano condotti a portare la guerra in terra cinese. I mercanti locali a loro volta gabbarono sovente i vincitori, riacquistando da loro oggetti pregiati, dei quali essi ignoravano l’effettivo valore, pagandoli solo pochi spiccioli oppure scambiandoli con ninnoli d’infima qualità, ma appariscenti.

Infine, dopo aver celebrato un rito funebre in omaggio alle vittime civili europee, i due eserciti partirono da Pechino, carichi di un immenso bottino: come scrisse il generale Hope Grant, si era trattato di una delle più riuscite tra le piccole guerre condotte dalla Gran Bretagna; un perfetto esempio di spedizione coloniale dell’età dell’imperialismo, i cui costi furono compensati da profitti proporzionalmente smisurati. Comunque c’era stato un precedente, per quanto riguarda l’incendio "a freddo" del Palazzo d’Estate imperiale di Pechino, da parte dell’esercito britannico. Nel corso della guerra anglo-americana del 1812, quando le truppe inglesi s’impadronirono di Washington, esse ricevettero l’ordine d’incendiare tutti gli edifici pubblici della capitale americana, e così fecero il 24 agosto 1814. L’ammiraglio sir George Cockburn fece irruzione nel Campidoglio abbandonato e, stando in piedi sulla poltrona del Presidente della Camera, chiese alle sue truppe che già brandivano le torce: Dobbiamo dar fuoco a questo rifugio della democrazia degli Yankee?; ed esse urlarono: Sì! Bisogna pur dire, per amore del vero, che quella decisione fu severamente criticata da una parte della stampa britannica, che la giudicò come una vendetta stupida e barbarica, della quale ci si sarebbe dovuti vergognare. La Casa Bianca non andò interamente in cenere solo perché un violento temporale contribuì a spegnere le fiamme. Molti libri, tolti dalla Biblioteca del Congresso, carte ed altri oggetti infiammabili furono gettati nel rogo dagli inglesi. Alcuni volumi vennero trafugati per ricordo dall’esercito inglese; lo stesso ammiraglio Cockburn ne prese alcuni per sé, e fece dono a suo fratello di una relazione del Tesoro. Il libro, più di un secolo dopo, fu rinvenuto presso un negozio di Londra da un antiquario americano, che lo acquistò e lo restituì alla Biblioteca del Congresso, nel 1940.

Gli americani, comunque, hanno perdonato l’incendio degli edifici pubblici di Washington. La comune origine, la lingua comune, il senso di appartenere alla stessa civiltà hanno sanato le ferite: in fondo, le due guerre che hanno opposto Gran Bretagna e Stati Uniti, quella d’indipendenza e quella del 1812, sono state simili alle liti tra padre e figlio allorché questi vuole affermare la propria autonomia nei confronti di un genitore autoritario e possessivo; ma alla fine prevale il senso di appartenere alla stessa famiglia e di avere troppe cose in comune per tracciare un solco di odio permanente. Molto diverso è il caso della Cina. Il popolo cinese aveva assunto un atteggiamento di diffidenza e di chiusura nei confronti dei "diavoli bianchi" fin dal 1600, dopo che era sfumato il tentativo d’inculturazione condotto soprattutto dai gesuiti, in particolare con il padre Matteo Ricci. Nel XIX secolo i cinesi erano consci tanto della loro debolezza quanto di una loro superiorità spirituale e culturale, vera o presunta che fosse; e guardavano con un misto di paura, odio e disprezzo alla progressiva avanzata degli europei nel controllo delle loro faccende interne. La civiltà cinese si era sviluppata in maniera del tutto indipendente da quella europea; non esistevano radici comuni, non c’era neppure un codice di valori condivisi, né a livello estetico, né a livello politico, economico e religioso. In breve, Cina ed Europa erano due mondi perfettamente estranei l’uno all’altro, quasi quanto avrebbe potuto esserlo, rispetto alla Terra, un’ipotetica civiltà marziana. Pertanto l’impressione che gli europei produssero sulla Cina al momento del primo impatto, senza considerare i contatti sporadici che c’erano stati al tempo dei romani e nel corso del medioevo lungo la via della seta, era destinata a entrare in maniera permanete nella sensibilità e nell’immaginario collettivo dei cinesi. E tale impatto, sfortunatamente, ebbe luogo nelle condizioni più negative possibili: con una potenza europea che, forte della sua superiorità tecnica e commerciale, e resa quanto mai dinamica e aggressiva dalla Rivoluzione industriale, si comportò nei confronti della Cina con tutta l’arroganza e l’ipocrisia del parvenu che si accanisce contro un’antica dinastia aristocratica ormai ridotta in piena decadenza, spogliandola senza pietà delle sue ultime ricchezze e imponendole delle condizioni di pace umilianti.

Ribadiamo il concetto: quando una società vive nella noncuranza o nel disprezzo di Dio, e gli uomini pretendono di essere i soli protagonisti della storia, escludendo dal loro orizzonte Colui che è, invece, il Re dell’universo, e dunque anche della storia, ciò che accade è una cupa e desolata ripetizione di errori, crimini e brama di vendetta.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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