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Le false religioni hanno sete di sangue (cristiano)

Dal Concilio Vaticano II è venuta di moda, letteralmente da un giorno all’altro(perché prima, per fortuna, nessuno lo aveva ai sentito dire), la curiosa convinzione che non solo tutte le religioni sono belle e buone, e in fondo anche vere, ma che son pure tutte piene di amorevolezza, compassione e spirito dialogico, di null’altro desiderose se non di mostrare a tutti, e specialmente ai cristiani, quanto credano nel rispetto reciproco e quanto vogliano mostrarsi sollecite e benevole verso chiunque.

Peccato che sia solo una favola. Una bella favola, si affretteranno ad aggiunge gli spiriti affetti da inguaribile romanticismo. Noi, che consideriamo il romanticismo come una patologia o una forma d’imbecillità, e che sentiamo il dovere cristiano di essere realisti (una mela è una mela, diceva san Tommaso d’Aquino), pensiamo che una cosa è buona se produce anche frutti buoni: ma i frutti dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso sono stati pessimi, e questo rende superfluo ogni altro giudizio. Di fatto, le false religioni (sì, abbiate pazienza: in coscienza non possiamo chiamarle in altro modo, per rispetto della verità e del principio di non contraddizione) sono fondamentalmente ostili alla sola che è vera; né potrebbe essere diversamente. Le più ostili, poi, sono proprio quelle che, fraudolentemente, ci vengono da allora presentate come le più prossime a noi, quelle scaturite dal nostro stesso ceppo: ebraismo ed islamismo (le tre religioni del libro, si dice: ma quale libro? Forse che la Bibbia, il Talmud e il Corano sono lo stesso libro?; a noi non risulta). Benevoli verso il cristianesimo, gli ebrei? Ma la benevolenza, per essi, è destinata ai loro correligionari; per gli altri, e specialmente per i seguaci di Cristo, l’atteggiamento — anche se il discorso, oggi, non piace, perché sa di antisemitismo — è completamene diverso; e non diciamo altro. Benevoli gli islamici, allora? Sì, certo: chiedetelo ai cristiani che hanno la sventura di vivere come piccola minoranza in un Paese a forte maggioranza musulmana. Chiedete loro, per dirne una, e non delle più importanti, se laggiù si possono costruire chiese cattoliche come qui da noi si possono pretendere moschee per dare soddisfazione alle minoranze islamiche che vivono nei nostri Paesi: e scoprirete che in Arabia Saudita non si può neanche dire la santa Messa in una casa privata, pena l’arresto, il carcere e la pubblica fustigazione con le verghe, come tocca ai poveri immigrai filippini, o indiani, o palestinesi di religione cristiana.

Possiamo girarci attorno fin che vogliamo, ma la verità è sempre e solo questa: l’unica religione che predica l’amore incondizionato e raccomanda il perdono delle offese è quella di Gesù Cristo; le altre predicano l’amore a certe condizioni, e quanto al perdono, di solito preferiscono la vendetta. Gesù, e solo Gesù, pregava il Padre dicendo: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno, mentre lo stavano inchiodando al legno della croce; e non era Suo costume sgozzare i nemici fatti prigionieri, tanto più che i Suoi discepoli non facevano prigioniero alcuno, appunto perché non consideravano alcuno come nemico. Il che non significa affatto che considerassero tutti quanti come amici, alla maniera dei seguaci di quella nuova e strana religione che è uscita, come per un colpo di bacchetta magica, dalle riunioni del Concilio Vaticano II: al contrario, Gesù aveva detto loro: Ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi: siate perciò astuti come serpenti e candidi come colombe. Si legga attentamente e onestamente il Corano; si legga il Talmud: e poi si venga a dire, senza arrossire né timore di smentite, che in quei testi non ci sono che parole di benevolenza e di perdono verso gli altri; che non vi si trova alcuna imprecazione o maledizione, alcuna minaccia, anche fisica, nei confronti dei non credenti, specialmente nei confronti dei seguaci di Cristo. Questa è la prova del nove. Se qualcuno è in grado di far ciò, noi ammetteremo di buon grado che l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, le parole magiche del Vaticano II, hanno rappresentato un effettivo progresso, un autentico approfondimento della nostra fede; se no restiamo dell’idea che si è trattato d’un inganno e un vile tradimento.

Ci sia consentito illustrare meglio questo concetto facendo un preciso riferimento storico, uno fra i tanti che avremmo potuto scegliere, in questo caso riferito alla religione islamica; ma lo stesso si potrebbe fare per tutte le altre false religioni, compresa, ovviamente, quella dei cosiddetti fratelli maggiori, la quale – checché ne dicano teologi da strapazzo usciti da facoltà moderniste – non ha niente a che fare con la nostra. Si tratta della strage a freddo eseguita dai seguaci di Maometto contro la tribù ebraica dei Quraiza di Medina, allorché la città cadde in loro potere e l’attacco esterno di un esercito proveniente dalla Mecca venne sventato nella cosiddetta battaglia del Fossato, o battaglia di Medina, del 5 aprile 527.

Osserva Antonio Socci nel suo libro I nuovi perseguitati. Indagine sulla intolleranza anticristiana nel nuovo secolo del martirio, Edizioni Piemme, 2002, p. 147):

Uno degli episodi della vita di Maometto su cui molti testi glissano allegramente è la sorte toccata agli ebrei di Medina. La tribù ebraica medinese dei Quraiza, ultima rimasta in città, fu massacrata a freddo: ci vollero molte ore per sgozzar uno per uno 800 maschi e gettarli in un’enorme fossa scavata nel mercato di Medina. Le loro donne e i loro bambini furono venduti come schiavi e i loro beni spartiti.

Un grande arabista italiano, Francesco Gabrieli, scrisse: «Questo inutile bagno di sangue resta come la più preturbante macchia nella carriera religiosa del Profeta. Non condividiamo le disinvolte spiegazioni di chi se la sbriga sentenziando che "l’etica di Maometto non è la nostra". È anche da quell’episodio che conseguì che chi, allora e poi, sparse sangue umano per la causa dell’Islam,non agì affatto contro lo spirito di Maometto; mentre chi lo sparse in nome della fede cristiana ha sempre agito contro lo spirito di Gesù» (cit. in Vittorio Messori, "Pensare la storia", Paoline, Milano, 1992, p. 625).

Anche Max Horkheimer coglie questo aspetto decisivo: «Il concetto di Dio del Profeta non è mai stato contraddetto dalle spedizioni militari, dalle conversioni forzate, dallo sterminio dei nemici», mentre invece «per commettere i suoi delitti la cristianità dovette ricorrere all’interpretazione paradossale, alla perversione della dottrina a cui si richiamava» (Max Horkheimer, "Studi di filosofia della società", Einaudi, Torino, 1981, p. 132).

Uno degli autori che «glissano allegramente» sullo sterminio dei Quraiza del 627 è senza dubbio lo storico romeno Virgil Gheorghiu, autore di una biografia del Profeta che piace moltissimo agli islamici, un po’ meno agli amanti della verità storica nuda e cruda, per la sua caratteristica tendenza ad assumere interamente il punto di vista di Maometto e dei suoi seguaci, enfatizzando i pericoli e le difficoltà che essi dovettero affrontare nella fase iniziale della vita della nuova religione, e minimizzando e sottacendo addirittura quanto potrebbe gettare una luce non troppo simpatica sul loro modo di pensare e soprattutto di agire, cioè la tendenza a massacrare i nemici; nemico essendo chiunque non accetti incondizionatamente di sottomettersi alla nuova fede (Islam significa appunto "sottomissione"). Ecco infatti come se la asciuga in fretta nel raccontare, col minimo di particolari indispensabile, l’eccidio degli ebrei di Medina, al quale secondo le fonti più antiche il Profeta avrebbe partecipato personalmente; e questo dopo aver riempito pagine e pagine per descrivere nei più minuti dettagli le marce, le ritirate, le avanzate e insomma tutte le decisioni tattiche e strategiche assunte da lui negli anni decisivi in cui voleva impadronirsi sia di Medina che della Mecca, per estirparne ogni traccia di paganesimo e giudaismo e farne la base della sua futura espansione politica e militare (da: V. Gheorghiu, La vita di Maometto; titolo originale: La vie de Mahomet, Editions du Rocher, 1989; traduzione dal francese di Vittorio Beonio Brocchieri, Milano, Garzanti Editore, 1991, p. 256):

Per prima cosa doveva giudicare il tradimento della tribù Quraizah. Maometto non voleva mischiarsi in quest’affare, pur essendo secondo la costituzione l’arbitro supremo del diritto. Rinunciò quindi a questa prerogativa e lasciò il compito a un uomo di un clan alleato dei Quraizah. L’arbitro che avrebbe giudicato il loro tradimento fu designato da loro stesi e si chiamava Sa’d-ben-Mu’adh [detta così, sembra una decisione presa in loro favore; quel che l’autore non dice è che costui, ferito da una freccia durante la battaglia, sarebbe morto pochi giorni dopo e quindi era pieno di livore e desiderio di vendetta contro quelli che doveva giudicare]. Tutte le tribù erano tenute ad aiutarsi a vicenda quando Medina veniva attaccata dall’esterno. Non solo i Quraizah avevano rifiutato di prestare il loro aiuto, ma erano venuti a patti con i Diecimila prendendo le armi contro i loro concittadini e contro la loro stessa città. Gli uomini del clan vennero condannati a more e la sentenza venne eseguita [pudicamente l’autore tace il loro numero: da 700 a 900; così come tace la sorte delle donne e dei bambini, ripartiti fra i vincitori islamici e venduti immediatamente tutti quanti come schiavi].

Si potrebbe obiettare che queste cose accadevano molto, molto tempo fa; ma sarebbe facile ribattere che accadono anche oggi, eccome se accadono: anzi che gli ultimi ceto anni sono stati i più sanguinosi della storia per quanto riguarda le persecuzioni anticristiane da parte dei seguaci delle altre religioni, oltre che da parte degli ex cristiani secolarizzati e conquistati da filosofie radicalmente atee, massoniche o comuniste, aventi il preciso scopo di estirpare per sempre il seme di Cristo dalla faccia della terra. Ovunque nel mondo i cristiani sono malvisti, odiati, calunniati, discriminati e perseguitati; in nessun luogo sono loro a odiare, calunniare e perseguitare gli altri. In India dono gli indù a perseguitare i cristiani; nell’Africa subsahariana sono gli islamici; in Cina è il regime comunista al potere; nei nostri stessi Paesi bruciano le chiese (ma tutto viene scordato in fretta, anche il rogo della cattedrale di Notre Dame a Parigi), e ci pensano i governi e i magistrati di sinistra a mettere il bavaglio ai cattolici, ad accusarli di delitti inverosimili (vedi la persecuzione del cardinale Pell in Australia). Quando gli attacchi non partono addirittura dal Vaticano, divenuto ormai una centrale massonica fra le peggiori al mondo, apertamente schierata coi poteri anticristiani mondialisti: come si è visto in occasione della campagna a favore delle vaccinazioni promossa da Bergoglio e spacciata niente di meno che per una forma di carità cristiana, anzi addirittura di dovere cristiano. Mai profanazione è stata più subdola e abietta di questa; mai l’inganno e il tradimento nei confronti delle anime buone si erano spinto così avanti, e con tanta impudenza e sghignazzante sfacciataggine.

Questi sono i frutti avvelenati del Concilio Vaticano II, specialmente della Dignitatis humanae e della Nostra aetate; da questi frutti si può capire di che genere fosse l’albero che li ha generati. Quello che sta accadendo oggi non viene da chissà quale strana fatalità: viene da un disegno ben preciso, studiato lungamente nei dettagli e portati avanti con perfida malizia e con atroce capacità di dissimulazione proprio da pastori e teologi teoricamente cattolici, dei quali pertanto il buon popolo dei credenti non dubitava, e verso i quali non stava per nulla in guardia. E perché avrebbe dovuto stare in guardia, se erano vescovi e cardinali cattolici; se erano pontefici cattolici; e se da dal 1962 essi dicevano e ripetevano in tutte le maniere possibili che non vi sono più pericoli dai quali guardarsi, né all’esterno né, tanto meno, all’interno della Chiesa? Che non ci sono più le false religioni, né le eresie o gli eretici; e che insomma esistono solo anime buone, desiderose di praticare il bene e ignare del male, così come dell’inganno e della frode? Invero, è difficile immaginare un piani più odioso, più malvagio, più esiziale di questo: far credere ai cattolici che tutto il mondo è diventato buono; che a pensarla diversamente sono solo i profeti di sventura, come li chiamava con disprezzo e ironia Giovanni XXIII; e che bisogna fidarsi di tutti, aprire le porte a tutti, gettare ponti verso tutti, abbattere ogni muro e lasciar cadere ogni difesa. È stato, bisogna riconoscerlo, il tremendo capolavoro del diavolo: con melliflue parole e ingannevoli concetti si è operato un vero e proprio capovolgimento della dottrina cattolica, senza che i fedeli se ne rendessero conto. Ma quando mai Gesù Cristo ha insegnato che il mondo è buono? Che il male non esiste? Quando mai ha detto, come l’eretico generale dei gesuiti Sosa Abascal, che il diavolo non è una persona reale, ma un mero simbolo negativo?

Ma è tempo di svegliarsi, di riscuotersi. Siamo stati ingannati abbastanza; presi in giro abbastanza. Ora l’inganno è chiaro: è chiaro anche il tradimento. Ora si capisce da dove vengono quelle idee, quelle parole d’ordine. Non certo da Dio, dunque non vanno ascoltate: vengono semmai dal diavolo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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