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L’intellettuale liberal odia la realtà perché odia Dio

La figura dell’intellettuale è un tipico portato della cultura massonica e illuminista e designa colui che, ritenendosi dotato di una cultura e soprattutto di un’intelligenza superire, si adopera per diffondere i lumi nelle tenebre fitte dell’ignoranza popolare; in altre parole, fa della sua vita una crociata contro le superstizioni del passato in nome della filosofia del progresso illimitato, che idolatra qualsiasi forma di nuovo e celebra il presente a prescindere da ciò che esso effettivamente ha realizzato, in vista di sempre nuovi e gioiosi balzi verso il futuro. Gioiosi? Oddio, qualche volta si tratta di balzi angosciosi e sanguinosi, come nel caso del Terrore giacobino o di quello staliniano, ma insomma non bisogna star lì a sottilizzare più del giusto. Si sa che la storia esige un certo numero di vittime, l’importate non è la felicità del singolo individuo (questo sarebbe un concetto meschinamente borghese) ma il benessere del popolo, inteso come la collettività indifferenziata che costituisce la nazione, a sua volta formata da cittadini, cioè da individui che hanno stretto con lo Stato un patto sociale in base al quale rinunciano a una parte dei loro diritti in cambio di una serie di vantaggi, protezioni e sicurezze. Ed è inevitabile che talvolta, per fare la frittata, si rompano più uova dello stretto necessario: mica i registi del progresso possono stare lì a calcolare ogni cosa al millimetro!

Il termine intellettuale viene usato in modo retrospettivo per indicare gli uomini colti dell’antichità e del medioevo, ma è una forzatura. Nell’antichità e nel medioevo gli uomini colti erano uomini colti e basta: il loro genio era messo a disposizione della società, non con la pretesa di creare una cultura superiore alla quale gli altri devono adeguarsi, nel disprezzo più completo della tradizione, bensì per valorizzare quanto di realmente umano c’è nell’uomo — e, nel caso del medioevo, per favorire le condizioni che rendano possibile la trasformazione della società in senso pienamente umano e cristiano. Uno dei papi del tanto disprezzato medioevo, Silvestro II, al secolo Gerberto d’Aurillac, era un grande scienziato e uno degli uomini più colti del tempo. Anche molti vescovi erano persone di grande cultura, ma soprattutto lo erano gli esponenti dell’ordine domenicano, in misura minore di quello francescano e benedettino, e più tardi, dell’ordine dei gesuiti. Da essi sono usciti migliaia di eruditi, scrittori, scienziati, filosofi, giuristi, studiosi di lingue antiche e moderne: mai però si sono atteggiati a individui separati e in qualche modo superiori; sempre hanno messo a disposizione le loro conoscenze e la loro intelligenza per gettare un ponte verso il popolo e innalzarlo a un grado più alto di esistenza, ma sempre nel pieno rispetto della tradizione e senza mai negare i dati di fatto della realtà, ad esempio che esistono diversi gradi d’intelligenza nelle persone, o che le diverse attività lavorative e professionali corrispondano a diverse condizioni sociali, che hanno una loro ragion d’essere, riflettono un ordine naturale è non potranno mai sparire per cedere il posto a una società di uguali, del tutto priva di distinzioni economiche o di qualsiasi altro genere. Mai, insomma si son fatti accecare dalla follia del comunismo e da qualsiasi altra utopia egualitaria negatrice della storia, dell’economia, della psicologia, insomma della realtà: sempre hanno preso atto che la realtà è il prodotto di un disegno divino e l’uomo deve agire all’interno di esso, non contro. L’odierna ideologia gender, negatrice della differenza sessuale tra maschio e femmina, non avrebbe mai potuto attecchire nelle loro menti perché contraria alla realtà (una mela è una mela, diceva san Tommaso d’Aquino); ed essi, per quanto colti e per quanto la loro vita si svolgesse prevalentemente in mezzo ai libri, non persero mai il contatto con la realtà, né il senso della realtà. Non scordarono mai che l’ordine della realtà riflette l’ordine divino e che l’uomo può inserirsi in esso per cercar di migliorare la propria posizione ma senza la pretesa, assurda e sacrilega, di volerlo migliorare: la natura è già perfetta in se stessa (per quanto ferita dalle conseguenze del Peccato originale), ciò che si può fare è assecondarla, non combatterla in nome di un mondo migliore che si potrebbe realizzare correggendo e perfezionando il piano divino.

Ma perché gli intellettuali moderni sono in conflitto con la realtà? Essenzialmente perché rifiutano Dio, considerando "superstizione" qualunque idea di trascendenza; chiusi nella loro immanenza materialistica, non possono però negare, almeno a livello inconscio, che la realtà è un dato anteriore alle loro speculazioni, e dunque rinvia inevitabilmente a un principio superiore che tutto pervade, l’essere, causa prima e causa finale di tutto ciò che esiste. Questo dualismo li manda letteralmente in furore. Avvertono che il mondo esiste, dopotutto, indipendentemente dal fatto che loro lo approvino o no, che a loro piaccia o no; esiste, puramente e semplicemente, e loro ne sono una parte: sono degli enti come tutti gli altri, che hanno ricevuto l’esistenza da qualcosa che è altro da loro. Dall’atro lato sono insoddisfatti dei limiti che la condizione umana pone alla loro sfrenata volontà di dominio: come Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, vorrebbero sapere tutto, e vorrebbero essere immortali; vorrebbero essere come Dio, vorrebbero essere Dio. Ma sanno di non essere Dio. Da qui nasce la loro profonda avversione per l’ordine divino presente nel mondo e, di conseguenza, il loro odio invincibile per il mondo stesso. Sentono che il mondo non appartiene loro interamente, per quanto possano fare e ingegnarsi, mediante la tecnologia, per disporre di un potere sempre più grande sulle cose; sanno però, in ultima analisi, di essere solo degli inquilini. E allora si ribellano, dichiarano guerra alla realtà, affermano che il mondo è pieno d’imperfezioni, di storture, ed essi si assumono il compito di eliminare le imperfezioni, di raddrizzare le storture: insomma, di rifare il mondo da cima a fiondo, meglio di come lo ha fatto Dio. Vogliono prendersi la rivincita su Dio, su quel Dio che si rifiutano di riconoscere, adorare e servire, perché, prigionieri d’un orgoglio luciferino, si sentono in diritto di fare qualsiasi cosa senza dover mai dire un grazie, neppure per il fatto di esistere, di possedere l’intelligenza e la volontà, di essere circondati da tante cose belle e utili. Perciò da un lato devono denigrare sistematicamente l’esistente, dichiarando che questo mondo è un posto orribile, una specie d’inferno; dall’altro si sentono investiti dalla sacra missione di redimerlo — loro, redimere il mondo! – e naturalmente di spazzare via tutto ciò e tutti quelli che si oppongono o si potrebbero opporre alla loro marcia inesorabile, perché la considerazione che nutrono nei confronti di chi non la pensa come loro, o peggio, di chi incarna i valori della tradizione e della spiritualità, è meno di zero. Tolleranti e pluralisti a parole, specie quando si parla di situazioni lontane e di umanità "altre", diventano di una cattiveria e di una spietatezza uniche allorché si trovano a tu per tu con quel tipo umano che, avendo conservato la fede in Dio e nell’immortalità dell’anima, costituisce per loro un ostacolo e uno scandalo intollerabile, che va rimosso a qualsiasi costo.

Ora se questo è il profilo dell’intellettuale, si può dire che l’italiano è l’intellettuale all’ennesima potenza: perché nessuno come lui odia la realtà, detesta l’esistente, rifiuta il piano divino e vuole sostituire ad esso il proprio piano politico, economico, sociale e culturale. Probabilmente la presenza della Chiesa cattolica, con la sua storia due volte millenaria e con tutte le tracce che la cultura cattolica ha lasciato nella vita sociale, fornisce la spiegazione a tale fatto: per un intellettuale francese, ad esempio, che vive in una società la quale da tre secoli si è separata dalla cultura cattolica e ha fondato anzi la cittadella della visione massonica del mondo, nonché la sua centrale operativa (insieme a Gran Bretagna e Stati Unti), non c’è altrettanto antagonismo per la realtà, perché egli si sente già slegato da tale condizionamento e va per la sua strada come se la religione cattolica non fosse neppure mai esistita. Oltre a ciò, l’aver introiettato, sia pure capovolgendoli, alcuni aspetti della cultura cattolica fa dell’intellettuale italiano un soggetto potenzialmente pericoloso, addirittura un terrorista e un fautore dei gulag, perché nel suo millenarismo, di stampo tipicamente religioso alla Fra Dolcino), si sommano pretese laiche e laiciste e inconsce tracce della cultura cattolica che pure a parole viene rifiutata, o che viene accettata solo nella misura in cui può essere equiparata al cattolicesimo (sto con Marx perché è la giustizia, e con Cristo perché è l’amore, diceva Pier Paolo Pasolini). Risultato: le Brigate Rosse. Nessun altro popolo ha conosciuto un dramma paragonabile al terrorismo di sinistra imbevuto di cultura cattolica: vorrà pur dire qualcosa che quasi tutti i principali brigatisti avessero un passato di cattolici più meno ferventi e che il primo nucleo della sedicente rivoluzione comunista sia sorto in quella Facoltà di Sociologia di Trento che la Democrazia Cristiana aveva pensato come la fucina della futura classe dirigente.

Scriveva Jean-François Revel (pseudonimo di J.-F. Ricard, 1924-2006) in uno dei suoi libri più stimolanti, La conoscenza inutile (titolo originale: La connaissance inutile, Editions Grasset & Fasquelle, 1988; traduzione dal francese di Alessandro Serra, Milano, Longanesi & C., 1989, pp. 330-332):

Gli intellettuali italiani non partono dalla conoscenza della società italiana. Partono dalla loro sete interiore di messianesimo rivoluzionario, e si costruiscono una visione della società che serve loro da giustificazione immaginaria del loro desiderio. Purtroppo, nel caso particolare, non si limitano a delirare per conto loro: uccidono. Nel suo saggio "Gli intellettuali e il terrorismo" Sergio Romano ha usato la formula "rivoluzione rivelata" per designare l’universo psichico degli intellettuali terroristi. È un miscuglio di cristianesimo e di comunismo. Da una parte essi aspettano l’evento futuro che rigenererà in un so colo e radicalmente il mondo e gli uomini; dall’atra, grazie al marxismo, possono presentare i loro desideri come verità scientifica. Toni Negri, ad esempio, vide nella lunga interruzione dell’elettricità che nel 1977 immerse New York nel buio — "il grande black out" — il crollo dello "Stato-fabbrica", come egli definisce la società industriale. Sergio Romano sottolinea a ragione il carattere mistico e radicalmente mitico di una simile interpretazione, che trasforma un incidente tecnico in crisi strutturale o che, peggio, vi vede una rottura storica paragonabile alla presa della Bastiglia o a quella del Palazzo d’Inverno. La filosofia degli intellettuali della rivoluzione terroristica coniuga la scempiaggine del falso profeta e la capziosità del dottore marxista col mitra del sicario mafioso.

Inoltre, ed è questo il colmo, un buon numero di intellettuali sono favorevoli al contempo sia al terrorismo sia al pacifismo: in altri termini, predicando il disarmo unilaterale dell’Occidente essi rinnegano la violenza in caso di guerra, per la difesa del loro territorio nazionale, ma poi l’approvano in tempo di pace contro i loro concittadini.

Siamo qui in presenza anzitutto di una alienazione ideologica di tipo classico: gli intellettuali riscrivono i fatti in funzione delle loro idee e non viceversa; assistiamo anche a un tradimento della missione originaria dell’intellettuale: quella di comprendere la realtà; infine notiamo, dopo la parodia della comprensione, l’azione ridotta a parodia. Giacché l’assassinio terrorista, in una democrazia, non ha alcun potere di trasformazione sulla realtà. È un atto simbolico la cui unica traccia concreta è il sangue sul marciapiede, quasi che i terroristi avessero bisogno di rassicurarsi e di convincersi che, con un passante ammazzato all’angolo della strada o un cadavere finito nel cofano di una macchina di cui si parlerà la sera stessa in televisione, essi possono provare a se stessi che la loro visione del mondo non è un sogno. Ma in una democrazia quel cadavere può solo stigmatizzare la loro impotenza e il loro delirio, non ha nessuna presa sul corso della storia, e non può averne.

Nella pratica degli intellettuali terroristi, un aspetto meno sanguinario è quello che chiamerò l’usurpazione pedagogica. Ho già accennato a coloro che sfruttano con slealtà il proprio prestigio, all’uso intimidatorio della propria reputazione, dei titoli, degli allori. Questo amalgama d comportamenti è comune ai terroristi e a molti intellettuali, i quali per fortuna non usano il terrore, per lo meno in senso fisico. In Italia c’erano professori universitari che trasformavano le loro lezioni in "collettivi" rivoluzionari i quali, secondo Sabino Acquaviva, sono "fabbriche di parole", parole che "si rielaborano incessantemente, progressivamente depurano il mondo sociale in cui il gruppo di individui vive, come diceva Augusto Cochin nello "Spirito del giacobinismo", "… epurando le persone che non sono d’accordo, distinguono tra una verità che riguarda la società esterna, legata ai fatti, e una verità legata al gruppo sociale che deve gestire la lotta rivoluzionaria (S. Acquaviva, "Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia", Rizzoli, Milano, 1978, p. 33).

Il fattore decisivo nell’affermarsi elle idee viene in questo caso al sovrapporsi del carisma dovuto alla posizione prestigiosa del maestro che esprime il messaggio al messaggio intellettuale stesso. Questo tipo di sovrapposizione si forma un po’ ovunque, ma assume forme e caratteri peculiari laddove la forma comunicativa adopera strumenti in cui il fattore affettivo prevale su quello intellettuale.

Che cosa si può aggiungeva a un’analisi così lucida ed esatta, anche se (o proprio perché) formulata da un non italiano? Piuttosto, ci sembra che nel ritratto dell’intellettuale terrorista degli anni di piombo si possano già cogliere, in controluce, i tratti dell’intellettuale terrorista del totalitarismo sanitario che stiamo vedendo ai nostri giorni. Sono sempre loro, i cosiddetti progressisti: marxisti di ferro sino a ieri, liberali e liberisti di ferro ai nostri dì; ieri per l’URSS e il Patto di Varsavia, oggi per gli Stati Uniti e la NATO; ieri per il comunismo, oggi per il supercapitalismo; ieri per la società egualitaria, oggi per la società globalizzata, dominata da una minuscola casta di grandi banchieri e formata da sette miliardi di schiavi e cavie da esperimenti medici. Come hanno fatto a cambiare così? Ma siamo nel Paese del gattopardo, perbacco! E la regola numero uno è sempre quella: Bisogna che tutto cambi affinché tutto rimanga come prima!

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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