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Parliamo del bene e del male: ma con timor di Dio

Nel 1979 viene pubblicato L’oscuro visibile di William Golding, scrittore nato in Cornovaglia nel 1911 e morto nella stessa contea nel 1993, il quale si era già fatto notare per un’angosciosa distopia ambientata nel mondo dei ragazzi, Il signore delle mosche, del 1954, e un’altra storia non meno angosciante che ha per protagonista un sacerdote ossessionato dall’idea di costruire una gigantesca torre sopra la sua chiesa, La guglia, del 1964. Nel 1983 Golding avrebbe coronato la sua fortunata carriera con l’assegnazione del Nobel per la letteratura. Ad aprirgli la strada verso il massimo riconoscimento internazionale fu proprio L’oscuro visibile, che gli valse il James Tait Black Memorial Prize, uno dei più antichi e prestigiosi premi letterari britannici, e il cui titolo si rifà ad un verso del Paradiso Perduto di John Milton: Not light, but darkness visible. Di che cosa parla questo enigmatico, elusivo romanzo, che al termine delle sue circa 300 pagine lascia il lettore più confuso e disorientato di quanto lo fosse al principio della strana storia? Apparentemente, del mistero del bene e del male. Tema quanto mai interessante, profondo, moralmente utile: in esso si sono cimentati alcuni dei massimi scrittori d’ogni tempo, sui quali giganteggia il geniale Dostoevskij, specie in capolavori come Delitto e castigo, L’idiota, I fratelli Karamazov, I demoni. Compito impegnativo, quindi; compito che richiede doti di equilibrio, delicatezza, temperanza, perché basta poco per creare disagio e confusione nel lettore, verso il quale chi scrive un romanzo su questo rema si assume una responsabilità ben precisa. Tale responsabilità non esiste per lo scrittore che presenta al pubblico un romanzo d’intrattenimento, una storia avventurosa, o sentimentale, senza troppe pretese di analisi spirituale e morale; ma esiste certamente per lo scrittore che sceglie di parlare ai suoi lettori del bene e del male.

A Londra, sotto le bombe tedesche, una notte una squadra di vigili del fuoco scopre vicino al porto un bambino apparentemente sbucato dal nulla. Fanno appena in tempo a prenderlo e metterlo al riparo dall’incendio, ma non prima che metà del suo volto rimanga orribilmente ustionata dalle fiamme, imprimendogli un marchio che lo accompagnerà per tutta la vita. La condizione di trovatello e il volto sfigurato condannano doppiamente Matty, così viene battezzato il piccolo, a un destino di esclusione e solitudine. Ciò ne fa un parente prossimo di Gwynplaine, il protagonista de L’uomo che ride di Victor Hugo (1869), il quale da bambino è stato rapito dagli zingari (oh Dio, che situazione politicamente scorretta da immaginare!; oggi sarebbe pressoché impossibile trattarla), i quali gli hanno fatto un vasto taglio sul viso col coltello per allargargli spropositatamente la bocca, in modo da conferirgli una sorta di orrido, perenne ghigno, così da renderlo adatto agli spettacoli da fiera coi quali divertire il pubblico. A parte la somiglianza esteriore, però, il paragone col romanzo di Victor Hugo è mortificante per quello di Golding. Nel primo infatti vi è una robustezza narrativa, una gagliarda enfasi barocca, una sottile capacità di penetrare i sentimenti umani: ad esempio nel caso di Lady Josiane, sorellastra della regina Anna, che s’innamora perdutamente – lei nobile, ricca, vergine e corteggiata da tutti – del mostruoso Gwynplaine non già nonostante, ma proprio per le sue fattezze mostruose. Mentre nel secondo tutto è più debole, incerto, scolorito, indeterminato, e i passaggi decisivi sono appunto quelli ove l’autore preferisce restare più nel vago, evidentemente in omaggio a una pluralità di sensi che per i romanzieri del tardo Novecento sembra essere divenuto pressoché un obbligo, pena la taccia di non aver capito nulla degli ultimi sviluppi non solo del romanzo, ma anche (psicanalisti, sbizzarritevi) di tutta la cultura moderna, e in particolare la molteplicità dei punti di vista narrativi, esistenziali, morali, culturali. Ma chi è, alla fine, o che cosa è, Matthew Septimus Windrove, noto a tutti semplicemente col nomignolo di Matty? Così risponde lui stesso (da: William Golding, L’oscuro visibile; titolo originale: Darkness Visible, 1979; traduzione dall’inglese di Delfina Vezzoli, Milano, Longanesi & C., 1984, p. 56).

«Chi sono?»

A ciò, la sola risposta che gli nascesse dentro era qualcosa come: tu sei sbucato dal nulla ed è là che stai andando. Tu hai ferito il tuo unico amico; e devi sacrificare matrimonio, sesso, amore, perché, perché, PERCHÉ SÌ! Considerando la situazione con maggiore distacco, nessuno vorrebbe saperne, di te, in ogni caso. Ecco chi sei.

E accanto a Matty, ecco il signor Pedigree, l’uomo del suo destino. Così ne traccia il profilo l’autore al momento di farlo entrare in scena (op. cit., pp. 22-23):

Il signor Pedigree era decaduto dall’insegnamento in un’antica scuola di coristi, passando attraverso due fondazioni meno storiche, fino a un periodo di tempo considerevole di cui dava ragione parlando di viaggi all’estero. Era un uomo smilzo e segaligno con capelli color oro sbiadito e una faccia esile, rugosa e ansiosa quando non era irritata o maliziosa. Entrò a far parte del personale della Trovatelli due anni prima che ci arrivasse Matty. La seconda guerra mondiale aveva, per così dire, disinfettato il passato del signor Pedigree. Pertanto egli viveva, poco saggiamente, in una stanza all’ultimo piano della scuola. Non era più "Sebastian" nemmeno per se stesso. "Il signor Pedigree", la figura del maestro senza importanza, ecco cos’era diventato, e il grigio cominciava a striare i suoi capelli sbiaditi. Era uno snob in fatto di ragazzi e trovava repellenti gli orfani in genere, con alcune notevoli eccezioni. Lì i suoi classici non servivano proprio a nulla. Insegnava geografia elementare mescolata con storia elementare e, nel mezzo, grammatica inglese elementare. Per due anni gli era stato facile opporsi ai suoi "momenti" e viveva in uno stato fantastico. Fingeva con se stesso di essere sempre in possesso di due ragazzi: il primo, un esempio di pura bellezza, l’altro, un ometto terragno! Alle sue cure era affidata una classe numerosa nella quale venivano ficcati i ragazzi che avevano in qualche modo dimostrato di aver raggiunto il loro tetto educativo, e là restavano a segnare il passo fin quando potevano andarsene. Il preside pensava che a costoro l’insegnante non avrebbe potuto nuocere più di tanto. Il che era probabilmente vero, fatta eccezione per i ragazzi con cui il signor Pedigree aveva il suo "rapporto spirituale". Infatti, man mano che il signor Pedigree invecchiava in questo rapporto emergeva una straorinaria complicazione, al di là di ciò che può essere considerato straordinario da parte di un eterosessuale. Il signor Pedigree innalzava il bambino su un piedistallo e diventava tutto per lui, sì, tutto; il ragazzino trovava la vita meravigliosa e ogni cosa gli era resa facile. Poi, con altrettanta subitaneità, il signor Pedigree diveniva freddo e indifferente. Se parlava al bambino, lo faceva in modo aspro; e, dato che era un rapporto spirituale che non comportava nemmeno il tocco di un dito su una guancia di velluto, di cosa poteva lamentarsi il bambino, o chiunque altro?

Non si può non restare sconcertati dal modo in cui viene presentato questo personaggio. Si direbbe che l’autore gli usi tutte le cortesie possibili, che scelga perfino le parole per attenuare e ingentilire la turpe realtà del suo animo e del suo sistema di vita, tutto incentrato sulla seduzione sistematica dei ragazzini a lui affidati nella scuola ove indegnamente svolge le sue funzioni d’insegnante (e ciò solo per le circostanze eccezionali della guerra, che in certo qual modo, gli ripuliscono la triste reputazione e gli offrono un’ulteriore possibilità di lavoro). Stiamo parlando della più abietta delle perversioni, aggravata dalla circostanza che il signor Pedigree approfitta della sua condizione d’insegnante per insinuarsi nelle grazie degli alunni ed esercitare un malefico ascendente su di loro, oltretutto facendoli salire in camera sua, la sera, onde avere un rapporto esclusivo con il favorito di turno. Perché non basta che egli sia attratto ossessivamente dai bambini; no: deve anche godere nel prenderli e lasciarli, nel sedurli e poi abbandonarli bruscamente, sostituendo l’innamorato di turno con un nuovo arrivato, così, apparentemente solo per il gusto di esercitare un’ulteriore forma di potere e sentirsi così completamente padrone della situazione, in tutti i sensi: materiale, psicologico e affettivo.

Quasi per fornirgli delle attenuanti, o per farlo apparire meno sordido, il narratore fa notare che il signor Pedigree non tocca i bambini nemmeno con un dito; per cui, a rigore, la sua furiosa attrazione nei loro confronti non supera le soglie del lecito e del tollerabile, ma si consuma tutta dentro un gioco dell’immaginazione. In realtà non è proprio così: egli gioca coi ragazzini più belli come il gatto col topo, li attrae e li respinge in una schermaglia diabolica che finisce per destabilizzare completamente uno di essi, Henderson, il quale, innamorato respinto che bussa invano alla porta del professore implorando di poter entrare, vaga in stato confusionale per i corridoi e alla fine si getta dalla finestra dell’edificio, uccidendosi. Ne segue un’inchiesta della magistratura che, accertata la responsabilità morale, anche se non materiale, di Pedigree, si conclude con il suo arresto. È degno di nota il fatto che, nel corso dell’indagine, il piccolo Matty si sia alzato in difesa dell’insegnante depravato e abbia cercato di fornirgli un alibi, sostenendo che c’era lui, quella notte, nella stanza dell’insegnante, e che era lì perché doveva terminare una mappa che doveva realizzare come compito. Non viene creduto, peraltro; e mentre i poliziotti scortano fuori il signor Pedigree, questi, incrociando il povero Matty, anziché avere per lui almeno uno sguardo di gratitudine, se ne esce con parole terribilmente sprezzanti: lo definisce un piccolo mostro che non vorrebbe mai sfiorare neppure, e conclude con un atroce «è tutta colpa tua!» che segnerà il ragazzino per il resto della sua vita, anche quando, quasi inseguito da un fantasma o da un demone, decide di emigrare in Australia, dove tira avanti facendo svariati mestieri e da dove infine, dopo un certo numero di anni, decide di tornare a casa, per ricongiungersi al proprio passato interrotto. Nel frattempo, è come se in lui fosse subentrata una strana, ma tenace convinzione: di dover dedicare la sua esistenza ad assistere, moralmente e affettivamente, l’avvizzito e decaduto professore pedofilo: lui, il bambino respinto con parole offensive, sarà una specie di angelo custode o di angelo della redenzione per il povero uomo, ritornato in libertà ma interiormente distrutto, che si avvia verso una vecchiaia di solitudine, rimorsi ed emarginazione sociale.

Che cosa ha voluto dire, William Golding, descrivendo Pedirgree con quelle caratteristiche, e oltretutto suggerendo che forse gli altri, le persone perbene, sono in fondo meno rispettabili di lui, perché ipocrite ed use a celare i propri vizi e le proprie debolezze: come il direttore della scuola che, davanti al disagio di Henderson venuto a confidarsi in cerca di sollievo, finge di non capire, cerca di minimizzare e alla fine rimanda il ragazzino verso il suo destino fatale, solo perché gli manca poco tempo alla pensione e non vuol trovarsi invischiato in uno scandalo che si preannuncia estremamente spiacevole? Il fatto che "gli altri" abbiano le loro colpe più o meno nascoste non riabilita quelle di una persona che, in tutto il corso della storia, non mostra mai alcun segno di pentimento, neppure di fronte alla morte di Henderson; anzi nelle ultime pagine si trastulla col pensiero di un delitto che potrebbe compiere proprio per mettere a tacere un ragazzino che minacci di raccontare al mondo quel che gli ha fatto. Ma cosa? Non si sa, non viene detto; e questa indeterminatezza contribuisce a far apparire il signor Pedigree in una luce che altrimenti sarebbe semplicemente e puramente ripugnante. Intendiamoci: l’idea di prendere un personaggio moralmente abietto per mostrare in lui gli effetti della grazia è tutt’altro che sbagliata; solo che qui non compare nessuna grazia, non c’è alcuna conversione, alcuna catarsi: c’è solo l’indecifrabile Matty mezzo Anticristo e mezzo Angelo consolatore, che decide di votare la propria esistenza all’amore per quell’uomo solo e infelice, ma anche terribilmente colpevole. Che senso ha tutta questa storia? Che cosa vuol dire, qual è il messaggio per il lettore? Il male resta sempre male, a meno che una luce non illumini la vita del peccatore e non gli mostri un’atra possibilità: ma questo non avviene. Ogni tanto gli appare Matty, forse in sogno, forse in carne ed ossa, e compare una sfera luminosa che non si sa bene cosa voglia simboleggiare: ma il punto decisivo è che né Matty aiuta Pedigree a riflettere sulla bruttezza della sua vita, né questi ha mai un trasalimento che indichi una presa di coscienza di tutto il male che ha fatto a dei bambini inesperti, introducendoli al gioco crudele di una sensualità deviata e poi piantandoli regolarmente in asso, come giocattoli dei quali si è stufato.

E quasi alla fine del romanzo, seduto su una panchina di un giardino pubblico, il signor Pedigree vede, o crede di vedere in sogno, Matty che gli compare davanti, gli parla e gli ricorda i momenti decisivi della sua vita, quasi una spinta all’autoanalisi; e in uno slancio di suprema sincerità e abbandono, l’insegnante degenerato e pedofilo esclama (op. cit., p. 288):

«Sei uno strano tipo, Matty, lo sei sempre stato. Hai questa abitudine di comparire all’improvviso. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto se tu esistessi veramente quando non c’era nessuno a guardare sentire, se capisci quello che intendo dire. Momenti in cui… mi domando se costui è connesso con tutte le altre cose, oppure, per così dire, scorre via!»

Poi ci fu un altro lungi silenzio. Alla fine fu il signor Pedigree a romperlo.

«Gli danno tanti nomi, no? sesso, denaro, potere, sapere… e invece ce l’hanno proprio lì sulla pelle. La cosa che tutti vogliono sena conoscerla… eppure che dovessi essere tu, brutto, piccolo Matty, ad amarmi veramente! Ho tentato di buttare via la cosa, lo sai, ma non ha voluto andarsene. C’è stata gente tale in questi paraggi, dei mostri tali, quella ragazza e i suoi uomini, Stanhope, Goodchild, persino Bell, e la sua tremenda moglie… io non sono come loro, sono cattivo, ma non come loro, non ho mai fatto del male a nessuno… LORO pensavano che io facessi del male ai bambini, ma non era vero, facevo del male a me stesso. E tu conosci l’ultima cosa, quella che avrò paura di fare se vivrò abbastanza… solo per far stare zitto un bambino, per impedirgli di dire… è l’inferno, Matty, sarà l’inferno… aiutami!»

Giungerà al signor Pedigree questo aiuto da parte di Matty? E se sì, come? Può essere aiutato il peccatore che non si pente, non si propone di cambiar vita, ma semplicemente vorrebbe evitare i rimorsi di una vita tutta spesa inseguendo i fantasmi del proprio egoistico e malsano piacere?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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