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Solo Cristo dà una visione ampia e generosa del reale

Uno degli argomenti che i relativisti, gli storicisti e gli agnostici portano frequentemente a sostegno delle loro tesi è che nel mondo moderno nessuna religione, dunque neanche quella cristiana, può sperare di esaurire la visione del reale propria dell’essere umano; e che quindi è giocoforza adattarsi al pluralismo e magari al sincretismo religioso, come si è visto ad Abu Dhabi e come si vede ad Astana. Essi dicono: la visione cristiana è una visione tipicamente occidentale; ad essa corrisponde una forma di razionalità, di sensibilità, di spiritualità, di estetica e di senso del sacro, che non trova molti punti di contatto con quella islamica, o buddista, o induista, o scintoista, ecc.: bisogna perciò rassegnarsi, se non si vuol tornare alle crociate e alle prove di forza, all’idea che molti popoli non accetteranno mai il cristianesimo, perché lo sentono come qualcosa di estraneo, che non appartiene al loro sentire e al loro pensare. In realtà, questi discorsi tradiscono la matrice ideologica, fondamentalmente illuminista, massonica e anticattolica, dalla quale sono nati, in un tempo e in circostanze ben precisi; l’evidenza dei fatti mostra al contrario che il cristianesimo ha la possibilità di attecchire in qualsiasi ambiente geografico e sociale, presso qualsiasi popolo o cultura; e che se in certe aree vi è stata una battuta d’arresto, ad esempio in India e in Estremo Oriente, ciò non si deve a un’istintiva ripugnanza o estraneità di quelle culture al messaggio cristiano, quanto piuttosto a circostanze storiche e politiche determinate.

Del resto, è sterile indugiare a chiedersi cosa sarebbe accaduto se l’India e la Cina si fossero convertite, ad esempio se la Curia romana avesse accettato la linea gesuita circa la tolleranza verso i riti malabarici e i riti cinesi, e non avesse dato invece ascolto (e secondo noi fece bene) alle forti obiezioni dottrinali dei francescani e soprattutto dei domenicani. La storia non si fa con i se. Molto più interessante e promettente di risultati è affrontare la questione da un altro punto di vista, chiedendosi se la religione cristiana, e specificamente la cattolica romana, possiede gli elementi sufficienti e necessari per dare una risposta complessiva ed analitica ai bisogni fondamentali dell’uomo, tanto sul piano intellettuale della ragione naturale, quanto su quello psicologico, affettivo, spirituale ed etico. E le altre religioni, li possiedono? In altre parole: esiste una religione che ha in se stessa la chiave di volta dell’anima umana, che è fatta apposta per accogliere le grandi domande dell’uomo e per dare all’esistenza umana un significato, specie negli aspetti e nei momenti della sofferenza e della solitudine; oppure tutte le religioni, per un motivo o per l’altro, mostrano la possibilità di soddisfare solo in parte le grandi domande metafisiche, e di saper andare incontro alle necessità morali e spirituali di alcuni popoli, caratterizzati da un certo tipo di evoluzione storica e culturale, ma non ad altri, che restano inaccessibili a quei messaggi perché costituzionalmente strutturati in maniera del tutto diversa?

Si può affrontare la questione da due lati. Da un lato si può affermare che se c’è una religione vera, essa non può che rispondere alle caratteristiche che abbiamo indicato, perché Dio stesso ha posto il desiderio di essa nel cuore dell’uomo; mentre le false religioni ovviamente, non possiedono tale capacità, proprio perché sono il frutto di costruzioni umane e quindi non hanno le risposte decisive, dato che l’uomo non è capace di auto-redimersi, così come non è capace di auto-crearsi, ma dipende per forza di cose dal suo Creatore e Redentore. Dall’altro lato si può osservare concretamente la storia delle religioni, osservandole nel loro sviluppo storico, confrontandole fra loro e vedendo in che modo le diverse fedi hanno risposto ai bisogni umani, riuscendo o non riuscendo a dare ai loro seguaci tutta la serenità, la pace e l’equilibrio interiore che una fede profonda e matura dovrebbero naturalmente produrre quale effetto della preghiera, della tensione spirituale e del rapporto costante con Dio. Si può anche osservare lo sviluppo del pensiero, della scienza, delle arti, e trarne delle conclusioni circa la religione delle rispettive culture: la quale, senza dubbio, essendo il fattore fondamentale e unificante, esercita un’influenza decisiva su tutte le attività dello spirito e le manifestazioni della vita pratica. E allora notiamo che la grande filosofia nasce in Grecia prima del cristianesimo, ma poi, col cristianesimo, non solo non viene mortificata, ma riceve nuova linfa e nuovo slancio, in particolare con san Tommaso d’Aquino che riprende e sviluppa la tradizione aristotelica. Anche la scienza moderna nasce nell’ambito della civiltà cristiana: il che vorrà dire qualcosa circa il vero rapporto tra fede e ragione, checché ne dicano spiriti gretti e faziosi che seguitano ad agitare il processo di Galilei come se fosse stato la norma di tali rapporti, e non una significativa — e per certi aspetti giustificata — eccezione. Ecco la grande arte europea, che il cristianesimo spiritualizza e conduce ai più alti vertici, con le cattedrali e coi dipinti e le sculture di soggetto religioso; e così pure la poesia, che con Dante raggiunge le altezze del sublime. È evidente che il cristianesimo agisce nel senso di una promozione integrale dell’uomo, in tutti gli aspetti della sua vita intellettuale, culturale, estetica e spirituale.

Può dirsi la stessa cosa delle altre civiltà, influenzate e modellate dalle rispettive religioni? Sappiamo bene che anche l’India ha prodotto un profondo e vigoroso pensiero filosofico; tuttavia vi sono in esso elementi che la ragione naturale non può accettare interamente, perché non dimostrati, ma posti sulla base di suggestioni mistiche o psicologiche. La trasmigrazione delle anime, tanto per dirne una (che esisteva anche in una parte della filosofia greca, ad esempio in Platone) non appare dimostrata dalla ragione naturale, per cui un pensiero autenticamente razionale fatica ad accettarla, vedendo in essa una forzatura e una specie di salto logico; e lo stesso si potrebbe dire per moltissime altre cose, nonché per alcuni modi di condurre il ragionamento, che sono propri delle filosofie indiane. Nella civiltà islamica, l’arte subisce una gravissima limitazione: non può rappresentare la figura umana per non offendere Dio, che ha creato l’uomo a propria immagine. Proviamo a immaginare se tale limitazione avesse colpito l’arte cristiana: non avremmo le meravigliose Deposizioni, le meravigliose Madonne in trono, l’Annunciazione a Maria, né le meravigliose Sacre conversazioni fra i santi, che costituiscono una parte così ragguardevole dell’arte europea. Non avremmo l’Ultima Cena, né la Crocefissione, né la Risurrezione; non avremmo il Giudizio finale; non avremmo la Creazione, le vicende di Adamo ed Eva e tutte le altre della storia sacra, compresa la fuga dall’Egitto, l’Adorazione del Vitello d’Oro, la consegna a Mosè delle Dodici Tavole sul Mote Sinai. Non avremmo neppure l’arte del ritratto, che, specie nel Rinascimento, rappresenta una parte notevolissima della pittura e della scultura dei nostri artisti. Se ci spostiamo nell’area della civiltà cinese, influenzata dal confucianesimo e dal taoismo, ci accorgiamo subito che il ritratto è curiosamente debole, mentre trionfano le arti minori, le ceramiche, le giade lavorate, nonché le pitture di paesaggio. Pitture bellissime e suggestive, senza dubbio, che evocano il paesaggio interiore mentre tratteggiano con poche linee essenziali quello esteriore: ma che dire di un’arte ove il ritratto è così anonimo e quasi standardizzato? È come se le mancasse un elemento vitale.

E questo solo per restare nell’ambito delle manifestazioni del pensiero, della scienza e dell’arte. Al contrario di ciò che sostiene, mentendo, la cultura moderna di matrice massonica, nessuna religione è più amica della libertà di pensare, di quella cristiana; nessuna promuove lo sviluppo totale dell’uomo quanto quella cristiana. Se poi entriamo nell’ambito specifico della religione in se stessa, vediamo facilmente che nessuna quanto quella cristiana promuove la riflessione sulle cose divine, tanto è vero che solo per il cristianesimo si può parlare, nel senso proprio del termine, di una teologia; nell’islamismo la teologia è pressoché inesistente, perché le verità del Corano sono assolutamente indiscutibili e auto-evidenti. Il quale Corano è stato consegnato direttamente da Dio, per un tramite angelico, al profeta Maometto: non è un libro ispirato, ma scritto da uomini, come lo sono i Vangeli e gli altri libri del Nuovo (e del Vecchio) Testamento: è un libro-verità che deve essere accettato in toto, così com’è, senza la minima riserva o riflessione critica. Nell’ebraismo no, c’è senza dubbio uno sviluppo teologico, eccome: ma è uno sviluppo che si allontana parecchio dal messaggio originario, e che, attraverso la Cabala e il Talmud, giunge a degli esiti sconcertanti, dai quali si evince non solo una fortissima, indomabile ostilità contro i seguaci di Cristo, ma anche una pretesa prometeica di "leggere" il nome di Dio, di svelare il suo segreto, insomma di arrivare a una vera e propria auto-divinizzazione dell’uomo mediante il disvelamento del mistero del divino con una serie di tecniche numerologiche, gnostiche, simboliche, esoteriche, occultistiche, che sanno di magia più che di pensiero razionale. Il sottinteso è che gli uomini, o almeno certi uomini (quelli che sanno), sono già di natura divina: si tratta solo di capirlo e di padroneggiare le tecniche grazie alle quali si può risalire alla condizione originaria. C’è anche l’idea che Dio, in fin dei conti, non pè il Sommo bene e la Somma Sapienza, ma è l’assolutamente indifferenziato; e che il mondo, dopotutto, forse non è opera sua amorevole e sapiente, sua creazione ex nihilo, ma una realtà prodotta dalle successive emanazioni (sefirot) di Dio stesso, e dunque una realtà di secondo livello, in qualche modo imperfetta, illusoria o quantomeno ambigua, che è sfuggita, quasi per incidente, alla divinità, e che gli uomini possono in una certa misura conoscere e controllare, grazie alla conoscenza delle leggi dell’universo, raffigurate simbolicamente nell’Albero della Vita. Così, mentre per i cristiani l’albero della vita è la Croce di Cristo, mediante la quale gli uomini sono redenti e rigenerati, e il peccato e la morte sono crocifissi e sconfitti, per i seguaci della Cabala l’albero della vita è un insieme di conoscenze esoteriche che gli eletti possono, a determinate condizioni, chiarire e possedere, trascendendo con le loro sole forze la condizione umana e attingendo al piano della vita divina.

Fra i mille esempi che avremmo potuto fare, per illustrare la differenza di atteggiamento mentale e di apertura sul mondo, rispettivamente nel cristianesimo e fuori di esso, abbiamo scelto quello del grande viaggiatore arabo Ibn Battuta, che molti storici hanno paragonata al nostro Marco Polo. Come Polo, Ibn Battuta ha speso molti anni della sua vita a viaggiare nei Paesi più remoti, e si è spinto anche al di fuori del mondo islamico, così come il veneziano ha viaggiato ed è vissuto a lungo in Paesi dove il cristianesimo non era praticamente mai arrivato. Ebbene: mentre in Marco Polo si nota un atteggiamento di stupore, di apertura, di simpatia e di benevola attenzione, una sana curiosità di comprendere proprio le genti e le usanze più lontane dalla propria civiltà, nell’opera di Ibn Battuta si nota l’atteggiamento mentale esattamente contrario. Per quanto egli abbia viaggiato e si sia spinto lontano, proprio i Paesi non islamici lo mettono a disagio, il confronto con ciò che è estraneo alla sua fede lo fa richiudere in se stesso, la sua curiosità si appanna e pare che egli non aspetti altro che il momento in cui potrà rimettere il piede su terreno asciutto, ossia rientrare nell’alveo della civiltà islamica. Apertura e simpatia da una parte; chiusura e diffidenza dall’altra. Si può ridurre questa differenza a una semplice diversità di psicologia individuale? Si può concludere che Marco Polo fosse una persona naturalmente aperta e curiosa, mentre Ibn Battuta una persona naturalmente mediocre e un po’ gretta? Secondo noi, no: nella differenza di atteggiamento psicologico si riflette la differenza delle due civiltà alle quali essi appartengono, la cristiana e l’islamica.

Ecco il giudizio di uno dei massimi orientalisti, arabisti ed islamisti italiani, Francesco Gabrieli (Roma 1904-ivi, 1996), sul significato dei viaggi di Ibn Battuta, ma soprattutto sulla sua apertura mentale e la sua capacità di trasformare le cose viste e apprese in sostanza spirituale della propria esperienza e saggezza di vita (da: F. Gabrieli, Viaggi e viaggiatori arabi, Firenze, Sansoni Editore, 1975, pp. 90-92):

I viaggi di Ibn Battuta comprendono dunque per intero il mondo islamico del secolo XIV in lungo e in largo, dal Marocco alla Cina, dalla Russia meridionale al Niger, e si estendono a zone in cui l’Islam non era la religione dominante,.Sulla realtà di taluni di questi viaggi extra-islamici si sono affacciati dubbi, che in un solo caso son divenuti negative certezze: nella asserita visita a Bulghàr sul Volga, già meta di Ibn Fadlàn e Abu Hamid, sulla quale Ibn Battta dà notizie vaghe, e dati itinerari così inverosimili, da fare ormai escludere che egli vi si sia affacciato di persona, e attribuire a pura tradizione letteraria la pagina relativa. Gli altri dubbi avanzati, sul suo viaggio a Costantinopoli da lui invece descritta di prima mano, sia pure con confusioni e contraddizioni, e soprattutto sul viaggio in Cina, dove secondo alcuni in sarebbe andato oltre Canton, sono probabilmente infondati o esagerati. Anche se dovessero tutti venire accolti, resterebbe a Ibn Battuta il vanto di aver percorso e descritto regioni pochissimo note nel mondo musulmano del suo tempo, come l’impero turco-mongolo dell’Orda d’Oro, l’India musulmana ed indù di Muhammad ibn Tughlùq, parti dell’Indonesia, e i territori transahariani sul Niger. Qui egli non fu certo il primo arabo a mettere piede, giacché una rete di itinerari carovanieri vi aveva fatto giungere già da secoli mercanti e missionari arabi, apportatori fra quei Negri dell’Islam; ma egli è stato il primo, e a lungo il solo, a lasciarcene precisa notizia scritta. Grazie alle sue pagine, si è potuto in più punti illuminare la storia del regno indigeno del Mali, che appunto in quel XIV secolo conobbe la sua maggior floridezza.

Ibn Battuta, che è stato un po’ estrinsecamente paragonato a Marco Polo, non ha l’apertura spirituale del grande veneziano, non si è aperto verso un mondo ignoto con l’acutezza di osservazione e l’entusiasmo ispirati al Polo dall’impero mongolo d’Asia. Appena fuori della sua civiltà musulmana, egli sente e confessa il suo disagio, e riferisce le cose in modo sommario e confuso tanto da far dubitare, come abbiamo detto, della verità del suo stesso racconto. Ma la sua relazione è preziosa ovunque la comune fede dell’Islam gli permette di osservare luoghi, uomini, costumi esotici con occhio curioso e non prevenuto; qui si dispiega nel modo migliore la sua mediocre ma simpatica personalità: un po’ gretta a tratti e vanitosa, ma sincera, coraggiosa ed onesta. L’uomo medio del Medioevo musulmano si rispecchia nelle sue pagine fedelmente, con in più quella sete, quasi mania di girare il mondo che ha assicurato al Nostro un primato in seno a una società pur così incline per tanti motivi al viaggiare. Bisogna contentarci di quel che un uomo siffatto può darci, e non chiedergli di più. Ciò che ci ha dato è molto, e gli assicura la nostra ammirazione e riconoscenza.

Certo, lo storico non può, né deve chiedere ai personaggi che studia qualcosa di più o di diverso da ciò che essi sono stati e hanno fatto; suo compito è studiare e capire come e perché essi sono stati così e hanno agito in quel determinato modo. Ma nulla viete di stabilire un parallelismo fra personaggi appartenenti a civiltà diverse e professanti fedi diverse. E la conclusione cui ci sembra di poter giungere — avremmo potuto citare cento, mille altri casi panaloghi a quello di Ibn Battuta e Marco Polo — è che non tutte le culture, né tutte le religioni, promuovono integralmente lo sviluppo delle migliori qualità umane. Anzi, per dirla tutta, ve n’è una sola che lo fa in maniera eccellente: quella cristiana e cattolica romana.

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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