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L’orgoglio, sentimento luciferino sopra ogni altro

Nel momento storico che stiamo vivendo, e particolarmente nel momento che sta vivendo la Chiesa cattolica, ci sembra di particolare importanza riandare alla lezione/profezia di Vladimir Sergeevic Soloviev (1853-1900) sulla venuta dell’Anticristo, perché ci sembra che il grande pensatore russo abbia colto con singolare potenza premonitrice un tratto essenziale non tanto dell’Anticristo come singola persona, ma come tendenza anticristica che può afferrare e invadere la cristianità tutta, vale a dire l’orgoglio e la pretesa di perfezionare la venuta di Cristo, immettendovi elementi più misericordiosi e universali, conformi alla mentalità moderna.

Si rimane sconcertati nel vedere come questo aspetto, l’orgoglio dissimulato di una chiesa che pretende di essere superiore, quanto a comprensione umana e misericordia, a quella fondata da Cristo e all’insegnamento di Cristo stesso, si possa leggere in filigrana in tutto ciò che è stato detto e fatto dai papi, dai vescovi e dal clero cattolico a partire dal Concilio Vaticano II e fino ai nostri giorni. In particolare, a partire dal magistero di Giovanni XXIII vi è un concetto, a volte formulato espressamente,ma più spesso dato per scontato pur restando implicito, che mina alle fondamenta il Vangelo di Gesù Cristo: l’idea che Gesù stesso, o quanto meno ciò che riportano i Vangeli della sua vita e del suo insegnamento (storicismo) sia stato, come dire, un po’ tropo severo, un po’ troppo discriminante e selettivo, allorché parlava del bene e del male, dei figli della luce e dei figli delle tenebre, delle anime destinate al paradiso e di quelle che sprofonderanno all’infermo. Questi concetti sono sommamente sgraditi alla mentalità moderna, intendendo per moderna non solo la mentalità antropocentrica affermatasi a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento, ma anche e soprattutto quella illuminista e neoilluminista di matrice massonica, e perciò intimamene anticristiana anticistica, secondo la quale gli uomini sono tutti destinati al bene e alla salvezza, il diavolo non esiste (vedi le dichiarazioni del gesuita Sosa Abascal), il peccato è un concetto tutto da rivedere (vedi Amoris Laetitia per il divorzio, e la cosiddetta pastorale del gesuita James Martin circa il peccato impuro contro natura) per cui in definitiva i soli peccati gravi sono l’inquinamento ambientale, il rifiuto del migrazionismo selvaggio, il non porre dei limiti al riscaldamento climatico e il non sottoporsi all’inoculazione del siero genico spacciato per vaccino. Secondo la mentalità moderna, liberale e progressista, l’idea di una pena eterna è inaccettabile; e quindi l’idea di un Dio nella cui creazione esiste anche l’infero non può essere il vero Dio, né il Messia che lo ha affermato può essere il "vero" e definitivo Messia, perché questi deve essere inclusivo e misericordioso a oltranza, non escludente né giudicante. E infatti Chi sono io per giudicare?, scimmiotta il signor Bergoglio quando si tratta di questioni di morale.

Naturalmente nessuno osa dirlo in maniera aperta, però è dal 1958 che teologi e sacerdoti ultramodernisti lo insinuano e lo lasciano intravedere in ogni possibile maniera. Armati fino ai denti di storicismo e di strutturalismo, essi dicono che Gesù parlava in un certo modo perché doveva tener conto della mentalità del suo tempo; e se, per esempio, quando scacciava i demoni, in realtà non compiva degli esorcismi, ma delle azioni di liberazione psichica, allo steso modo quando diceva che l’uomo non deve separare ciò che Dio ha unito lo diceva in senso figurato, non letterale. È ancora il famigerato Sosa Abascal a dirlo chiaro e tondo, addirittura adducendo a sostegno del suo situazionismo estremo il fatto che al tempo di Cristo non c’erano i registratori, quindi nessuno ha registrato la sua voce e noi non sappiamo con certezza cosa disse, tranne che si rivolgeva a un pubblico particolare, in una circostanza particolare, e non stava facendo — chissà in base a quali argomenti logici il gesuita lo sostiene – un’affermazione impegnativa e irrevocabile di carattere universale. Insomma, le la parole d’ordine sono: addolcire, rimpicciolire, sminuire, arrotondare, smussare, stemperare, togliere il sale dalla Parola di Cristo, così che perda il suo sapore unico e inconfondibile, ma indispensabile alla salvezza (cfr. Mt 5,13).

E ora torniamo al discorso sull’Anticristo di Soloviev. Così ne tratteggia il profilo psicologico il filosofo, teologo, scrittore e poeta russo nel celebre Racconto dell’Anticristo (in: V. Soloviev, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo; titolo originale: Tri Rasgovora; tradizione dal russo di Giovanni Faccioli sulla quarta edizione dell’opera pubblicata nel 1904 a Pietroburgo dalla Casa Editrice Trud,Torino, Marietti Editori, 1975, pp. 189-191):

Cosciente di possedere in sé una grande forza spirituale, era sempre stato un convinto spiritualista e la sua vivida intelligenza gli aveva sempre indicato la verità di ciò a cui si deve credere: il bene, Dio, il Messia. Egli CREDEVA in ciò, ma non AMAVA che SE STESSO. Credeva in Dio, ma nel fondo dell’anima involontariamente e senza rendersene conto preferiva se stesso a Lui. Credeva nel Bene, ma l’Occhio dell’Eternità, che vede tutto, sapeva che quest’uomo si sarebbe inchinato davanti alla potenza del male, appena appena questa riuscisse a corromperlo, non con l’inganno dei sentimenti e delle basse passioni e nemmeno con la suprema attrattiva del potere, ma solleticando il suo smisurato amor proprio. Del resto questo amor proprio non era né un istinto incosciente, né una folle pretesa. A parte il suo talento eccezionale, la sua bellezza e la sua nobiltà, anche le altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficienza, parevano giustificare a sufficienza lo smisurato amor proprio che nutriva per sé il grande spiritualista, l’asceta, il filantropo. Se gli si rinfacciava di essere così in abbondanza fornito di doni divini, egli vi scorgeva i segni particolari di una eccezionale benevolenza dall’alto verso di lui, e si considerava secondo dopo Dio, il figlio di Dio, unico nel suo genere. In una parola egli riconosceva in sé quelle che erano le caratteristiche del Cristo. Ma la coscienza della sua alta dignità all’atto pratico non prendeva in lui l’aspetto di un obbligo morale verso Dio e il mondo, ma piuttosto l’aspetto di un diritto e di una superiorità in rapporto agli altri e soprattutto in rapporto al Cristo. Ma non aveva per Cristo una ostilità di principio. Gli riconosceva l’importanza e la dignità di Messia; però con tutta sincerità vedeva in lui soltanto il suo augusto precursore. Per quella mente ottenebrata dall’amor proprio erano inconcepibili l’azione morale del Cristo e la sua assoluta unicità. Egli ragionava così: «Cristo è venuto prima di me; io mi manifesto per secondo; ma ciò che viene dopo in ordine di tempo, un natura è primo. Io giungo ultimo alla fine della storia precisamente perché sono il salvatore perfetto, definitivo. Quel Cristo è il mio precursore. La sua missione era di precedere e preparare la mia apparizione». E in base a quest’idea, il grande uomo del secolo XXI applicava a se stesso tutto ciò che è detto nel Vangelo circa il secondo avvento, spiegando questo avvento non come il ritorno di Cristo stesso, ma come la sostituzione del Cristo precursore col Cristo definitivo, cioè se stesso.

In questo stadio "l’uomo del futuro" si presenta ancora in modo non ben definito e originale. Considerava il suo rapporto con Cristo alla stessa guisa per esempio di Maometto, un uomo retto che non si può accusare di nessuna cattiva intenzione.

La preferenza piena di amor proprio, che egli fa di se stesso nei confronti del Cristo, verrà giustificata da quest’uomo con un ragionamento di questo genere: «Il Cristo è stato il RIFORMATORE dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io invece sono chiamato ad essere IL BENEFATTORE di questa umanità, in parte emendata e in parte incorreggibile. Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario. Il Cristo, come moralista ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi. Sarò il vero rappresentante di quel Dio che fa sorgere il suo sole e per i buoni e per i cattivi e distribuisce a pioggia suoi giusti e sugli ingiusti. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace. Egli ha minacciato alla terra il terribile ultimo giudizio. Però l’ultimo giudice sarò io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di giustizia, ma anche un giudizio di clemenza. Ci sarà anche la giustizia nel mio giudizio, ma non una giustizia compensatrice, bensì una giustizia distributiva. Opererò una distinzione fra tutti e a ciascuno darò ciò che gli è necessario.»

E in questa magnifica disposizione, egli attende un chiaro appello di Dio che lo chiami all’opera della nuova salvezza dell’umanità, una testimonianza palese e sorprendente che lo dichiari il figlio maggiore, il primogenito diletto da Dio. Attende e nutre il suo amor proprio con la coscienza delle proprie virtù e delle proprie doti sovrumane: infatti egli è, come si dice, un uomo di una moralità irreprensibile e di un genio straordinario.

Questi giusto, pieno di orgoglio, attende la suprema sanzione per cominciare la propria missione che poeterà alla salvezza dell’umanità, ma è stanco di aspettare…

Due sono i passaggi chiave di questo ritratto psicologico dell’Anticristo (qui presentato nella fase iniziale della sua evoluzione, successivamente un tentativo di suicidio e un salvataggio di tipo preternaturale lo faranno entrare definitivamente, e forse consapevolmente, nell’orbita dell’antico avversario, che si serve di lui per contraffare la figura e l’insegnamento del vero Cristo). Il primo è là dove Soloviev afferma che l’Anticristo che, ripetiamo, si può anche intende come un insieme di forze e di tendenze e non solo come singolo individuo — pensa: Il Cristo è stato il RIFORMATORE dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io invece sono chiamato ad essere IL BENEFATTORE di questa umanità. In quest’idea c’è la sconfessione del Cristo come colui che separa nettamene il bene e il male, e quindi separa nettamente gli uomini tra i figli di Dio e i figli del diavolo (cfr. Gv 8,44); c’è l’idea che gli uomini sono, automaticamente e senza alcun concorso della loro volontà, figli di Dio, e al tempo steso che Dio non il sommo bene, ma un’unità indifferenziata di bene e di male, o meglio un essere in cui il bene e il male sono concetti un po’ arcaici e superati, perché in realtà in Dio gli opposto coincidono e la luce divede tenebra cos’ì cime la tenebra divede luce: secondo il classico insegnamento cabalistico che pervade sotterraneamente quasi tutta la filosofia moderna, reso pi facile e accettabile da secoli di mentalità soggettivista, relativista e indifferentista. In altre parole i teologi e i membri del clero postconciliare sono intimamene persuasi, anche se forse non tutti ne sono perentamente consapevoli, che il Vangelo di Gesù vada riformata e adattato alla mentalità odierna; che così come ci è stato tramandati da millenovecento anni di magistero, non va più bene, non può più essere proposto come modello di vita e come via maestra per la vita soprannaturale; che pertanto il clero attuale deve farsi carico di questo aggiornamento la cui parola d’ordine è sostituire al concetto di un Cristo riformatore, che vuole impegnare gli uomini e sospingerli alla conversione, inducendoli a fare una chiara scelta di campo fra bene e male, quello di un Cristo benefattore, che distribuisce la sua grazia sui buoni e sui cattivi, senza fare distinzioni, perché sono tutti figli di Dio e perché agire altrimenti sarebbe in contraddizione con la mentalità buonista di matrice illuminista (dove per buonista non s’intende troppo buona, ma negatrice del male, e perciò malvagia). Un esempio di questa sottile volontà di modificare, stravolgere e capovolgere il vero senso del Vangelo di Gesù — ma per carità, senza averne affatto l’aria! – si trova, a nostro avviso, nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, dove Giovanni XXII disse:

Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando (7,2).

Una vera e propria anticipazione del "proibito proibire" che sarebbe stata la bandiera ideologica del ’68. E ancora, là dove egli disse:

2. Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. 3. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo (4,2-3).

Insomma il problema non è il peccato, né il rifiuto della verità di Cristo, ma l’eccessivo rigore di quanti predicano il Vangelo con rigidità e poco discernimento, come altrettanti profeti di sventura. Ma che cosa sono i profeti, così necessari nell’economia della salvezza, se non annunciatori dei castighi che verranno dal Cielo, se l’umanità persevera ostinatamente nel male e nell’errore? E di quando in qua la storia è, di per se stessa, maestra di vita per il cristiano? Per un cristiano, il Vangelo e solo il Vangelo è maestro di vita, proprio perché annuncio di salvezza che viene dal Cielo; mentre la storia è una cosa tutta umana e, come direbbe sant’Agostino, con la storia si costruisce la città del diavolo, non certo la città di Dio.

Il secondo passaggio chiave del testo di Soloviev, nella descrizione dell’Anticristo, è quello in cui quest’ultimo pensa che: Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace. Egli ha minacciato alla terra il terribile ultimo giudizio. Però l’ultimo giudice sarò io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di giustizia, ma anche un giudizio di clemenza. In altre parole, Gesù Cristo è stato troppo severo, come è tipico di una società ancora primitiva, patriarcale e propensa a separare troppo rigidamente il bene e il male con l’accetta. Invece il cristianesimo adulto deve saper distinguere, deve saper vedere il buono, deve riconoscere che tutti gli uomini meritano la salvezza, perché su tutti Dio fa piovere e fa sorgere il sole, senza distinzioni. Nella vita terrena si soffre già abbastanza; ma nella vita eterna ci sarà la pace per tutti. Anzi, la pace per tutti deve incominciare qui e ora, in questa vita, in questo mondo, A che prezzo? Evidentemente, tacendo di fronte al peccato e girandosi dall’altra parte quando viene offesa la legge del Signore. Come fanno i cattolici "adulti" di fronte all’aborto, all’eutanasia elle unioni contro natura. È qui che si voleva arrivare, fin dal 1958, quando la massoneria e il B’nai B’rith penetrarono con la frode nella cittadella della Chiesa cattolica; ed è qui che si è arrivati.

E tutta questa linea di deviazione dal vero Vangelo di Gesù ha un unico movente profondo, anche se si alimenta poi di svariate correnti eretiche e di molteplici errori: l’orgoglio smisurato, l’amor proprio di chi si sente superiore a Cristo e al suo Vangelo. Come nel Paradiso terrestre con il Peccato di Adamo e di Eva, tutto nasce dall’orgoglio umano, dalla perversa volontà umana di ergersi alla pari e al di sopra di Dio. E finché non si fa nulla per lottare contro l’orgoglio luciferino, per incatenarlo ai piedi della croce, per trafiggerlo con le spine che trafissero il capo del Nostro Signore, non ci sarà alcuna soluzione alla crisi che stiamo vivendo; tutto parte da lì e tutto può essere medicato e guarito solo partendo da lì. Perciò bisogna uccidere l’orgoglio con l’umiltà, e gettarsi ai piedi del Padre celeste, e supplicarlo con le parole del figlio prodigo che si è pentito e ravveduto (Lc 15,21): Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. E il Padre allora, ma soltanto allora, ci farà rialzare, ci abbraccerà e ordinerà di fare una grande festa per noi, peccatori sinceramente pentiti.

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Gustave Dorè)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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