Custos, quid de nocte?
1 Novembre 2021L’orgoglio, sentimento luciferino sopra ogni altro
3 Novembre 2021Abbiamo sostenuto in più e più occasioni che la questione filosofica centrale è quella relativa alla verità; che un pensiero incapace di pensare la verità, senza timidezze o complessi d’inferiorità nei confronti di checchessia, non conduce da nessuna parte, se non all’impotenza e alla disperazione; e che ignorare o soffocare il bisogno di verità che esiste e si manifesta con prepotenza nell’anima umana equivale a condannare l’uomo all’infelicità strutturale e immedicabile, perché solo nella contemplazione del vero la mente e il cuore si appagano, e fuori di essa non vi sono che scoraggiamento e frustrazione. Ora è giunto il tempo di considerare non solo l’anelito alla verità e i processi logici attraverso i quali essa viene cercata dalla retta ragione naturale, ma la figura dell’uomo verace concreto, in tutta la sua umanità e luminosità; di considerare, cioè, in che modo l’amore per la verità può divenire abito mentale e stile di vita, così da innalzare tutte le altre funzioni dell’anima e tutti gli altri aspetti dell’esistenza su di un piano più alto e splendente, perché la verità completa e perfezione le altre virtù, nessuna delle quali viceversa è buona se, per una ragione o per l’altra, è carente sul piano della verità.
E innanzitutto una domanda: veritiero è la stessa cosa che sincero? No: perché si può essere sinceri, ma lontani della verità: in questo caso, si è sinceri nell’errore, il che non significa in alcun modo che quella sincerità sia qualcosa da ammirare, perché equivale ad un intestardirsi nella lontananza dalla verità e quindi in una sorta di zelo rovesciato, a causa del quale la virtù soggettiva (e fallibile) della sincerità prevale sulla virtù assai più importante, perché oggettiva e indefettibile, della verità, e in qualche modo la soffoca e la stravolge. Ma come si può stabilire un criterio che permetta di distinguere la verità soggettiva, che consiste nell’essere sinceri, dalla verità oggettiva, che consiste nell’essere effettivamente radicati nel vero? Il criterio è di ordine duplice: la ragione naturale e la grazia soprannaturale. In linea di massima, chi segue la via della ragione naturale, applicando rigorosamente i principi della logica aletica, non si allontana dalla verità, ed è in grado anzi di cercarla e di trovarla, salvo poi incontrare eventualmente delle difficoltà a trasformarla in qualcosa di vivo e di concreto nella propria esistenza. Ma ancora più certo di questo criterio è quello della grazia: chi, dopo aver seguito la ragione naturale, giunge alle soglie della rivelazione, e chiede con umiltà l’ausilio della grazia, riceve una potenza di discernimento infallibile, mediante la quale rimane ancorato nella verità che gli si mostra quale coronamento della sua ricerca e del suo onesto desiderio.
E adesso vediamo, l’uomo veridico o verace. È un tipo umano ormai abbastanza raro; era più frequente qualche decennio fa, anche se forse non è mai stato maggioranza nella popolazione. Ha qualcosa che lo distingue subito dagli altri uomini è limpido, terso, trasparente: chi lo accosta, chi gli parla, chi anche solo lo guarda, ha subito la netta percezione di una rarità in lui: non c’è alcuna distanza, alcuno sdoppiamento fra il dire e il fare. Quello che pensa e che sente, lo dice e lo esprime nelle azoni: è incapace di simulazione, di menzogna, di calcolo opportunistico e di bassa astuzia. Non fa alcuno sforzo per nascondere i suoi pensieri e i suoi sentimenti; è del tutto sincero; ma non è soltanto sincero è anche ancorato nella verità, perché segue le due strade maestre della ragione naturale e della Rivelazione. Non è necessariamente una persona colta e laureata; forse non ha nai leto Aristotele e san Tommaso; ma è una persona concreta, riflessiva, capace d’introspezione, e soprattutto dotata di senso logico: nulla di superficialmente emotivo, nulla di sentimentalmente zuccheroso nella sua coerenza e nella sua sincerità.
La sua figura è stata ben descritta dal teologo morale austriaco Karl Hörmann (Höflein an der Thaya, Mähren, Sudeti, 1915-Vienna 2004), dal suo libro Verità e menzogna (titolo originale: Wahrheit und Lüge, Wien München, Verlag Herold, 195, traduzione dal tedesco di Gianni Pasquale, Roma, Edizioni Paoline, 1958, pp. 35-38):
Non ha però la veracità un VALORE CHE TOCCA LA PERSONA, INDIPENDENTEMENYTE DAL SUO VALORE SOCIALE? In caso negativo si potrà rinunciare alla veracità, se la menzogna serve meglio la società, in caso affermativo ci si dovrò attenere incondizionatamente alla veracità. L’uomo verace porta in sé, indipendentemente da ogni importanza sociale, un VALORE PERSONALE. Egli ha una forma unitaria e vuole apparire esteriormente ciò che è interiormente; il suo interno ed il suo esterno concordano e con ciò la sua unità esistenziale è in lui tutelata. L’uomo verace è tutto lui stesso, integro e sano nella sua essenza, il che lo rende così prezioso. Il frutto dell’albero è di certo più pregiato qualora sia internamente ed esternamente perfetto, che non se abbia polpa sana e scorza guasta, a quel modo che noi siamo disposti ad attribuire al prodotto della diligenza umana il massimo valore quando con la praticità gli si accompagna anche la forma esterna piacevole, per null’affatto menomata.
Questa unità dell’essere richiede Gesù dai suoi. Allorché Egli inviò i discepoli per la prima volta in mezzo ai pericoli del mondo ad annunciare la sua dottrina, diede loro la singolare regola di comportamento «ecco che io vi mando come agnelli tra i lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mat 10,16). In questi pericoli sarà bensì necessaria la somma prudenza, ma non per questo dovrà soffrirne la semplicità della colomba; quella non deve diventare astuzia che limiti la veracità. Kittel fa osservare nel suo dizionario teologico del Nuovo Testamento, che l’espressione greca "akeraios" con la quale viene definita l’ingenuità della colomba in questo passo, deve essere derivata da "keraizo"-distruggo; come significato della parola: indistrutto non danneggiato, e come derivato da essa: ciò che si trova nello stato originario di integrità, di pienezza, di innocenza morale; nel periodo ellenistico: puro (vino, ecc.). Nel Nuovo Testamento però la parola greca "akeraios" avrebbe sempre un significato traslato. L’espressione ci dice perciò che Gesù, con tutta la necessità della massima prudenza, non permette ai suoi di rinunciare alla concordanza della loro personalità e do intaccare l’unità del loro essere. Questo deve rimanere "intatto", parola con la quale Lagrange traduce la parola "akeraios". In questa UNITÀ INTEGRA dell’intero essere sta il valore personale della veracità. «Veracità è perciò il fiore di tutte le virtù particolari, dal momento che essa crea la chiara relazione tra l’esterno e l’interno, tra l’espressione e il pensiero, tra la forma e il principio formante, significando così la genuinità dello stile di vita» (Görland, "Der Begriff dr Lüge", 146). In ciò possiamo convenire con Görland, anche se non possiamo accettarla sua distinzione (che si scosta dall’uso comune della lingua) tra veracità e verità morale. Verace sarebbe la formazione unitaria della vita secondo un principio formativo interno, vero ciò che favorisce la comunità.
L’uomo verace, non solamente nel suo interno, ma anche nel suo esterno realizza ciò che deve essere. Egli nelle sue espressioni concorda con il suo essere interiore. Qualora poi questo essere conviene con l’idea dello Spirito creatore dal quale dipende, allora egli possiede anche la verità dell’essere (verità ontologica). La misura massima della verità dell’essere viene realizzata quando l’uomo è ciò che deve essere secondo l’idea di Dio e si professa anche come tale. La veracità morale perciò costituisce la pienezza di verità dell’essere umano. L’uomo non è del tutto ontologicamente vero, finché non realizza ciò che dev’essere anche nelle ultime espressioni della sua essenza.
Ciò che l’uomo deve essere dipende dalla volontà di Dio, e, in ultima analisi, dall’idea che Dio ha dell’uomo. Tutte le idee delle cose create rappresentano però nel loro essere delimitato, in certo qual modo, l’essere illimitato di Dio. Ciò che l’uomo deve essere dipende, in ultima analisi, dall’ESSENZA di Dio, causa esemplare di tutto l’essere creato. Iddio però è l’unità, perciò dovrà essere anche la verità morale, dato che insincerità significherebbe doppiezza. Già secondo Platone la verità, sia presso gli dei che presso gli uomini, sta al vertice di ogni bene e, come ogni cosa che deriva dagli dei, è assolutamente immune dalla menzogna. Pitagora descrive la veracità come divina, così pure Isocrate. Secondo Pindaro, Apollo non viene a contatto con nessuna menzogna. Attraverso i profeti Iddio esclama: «dalla mia bocca viene la verità» (Is. 45,23).
Questa pagina ci aiuta a comprendere perché, in presenza di un uomo (o di una donna) siffatto, proviamo quasi un turbamento dell’anima, e ci rendiamo conto di essere davanti a una persona eccezionale, assolutamente superiore al tipo medio che s’incontra nella vita di tutti i giorni. Egli infatti è un individuo completo, integro, in certo qual senso perfetto: possiede un valore intrinseco, che è un valore personale aggiunto. Un altro ha bisogno di lavorare a lungo su se stesso per sviluppare certe qualità morali; lui possiede quella fondamentale in maniera del tutto naturale, che non è frutto di studio o di esercizio, ma è un vero e proprio dono della grazia divina. In altre parole, egli è come dovrebbe essere, come piace a Dio: il che è il massimo traguardo per qualsiasi soggetto umano. Ciascuno di noi dovrebbe essere così come Dio ci vuole; ma solo pochi lo sono effettivamente, e ciò accade allorché ci si spoglia del proprio ego e ci si lascia riempire dall’azione purificatrice e redentrice dello Spirito Santo. A quel punto non siamo più noi a volere questo o quello, a fare questo o quello, ma è Dio in noi che ci rende suoi docili strumenti, e noi viviamo della sua stessa vita di grazia, di luce e di verità: partecipiamo della stessa vita divina, che c’innalza immensamente al di sopra del livello ordinario d’esistenza. Come scrive san Paolo nella Lettera ai Galati (2,20): Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Abbiamo inoltre detto che l’uomo è felice quando trova il vero, quando dà alla sua vita l’impronta del vero (cfr. il nostro precedente articolo: Custos, quid de nocte?, pubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 01/01/21), perché solo così realizza il fine ultimo della vita umana e appaga l’intima natura dell’uomo. È felice, infatti, colui che realizza il proprio scopo esistenziale e appaga la propria più intima natura: e questo spiega perché l’uomo verace non appare quasi mai turbato, o se lo è, si ricompone subito, ritrova prontamente il proprio baricentro interiore; ma il suo modo di essere abituale è improntato alla calma e alla serenità. Non deve fare lo sforzo di nascondere ciò che pensa, o di apparire diversamente da come si sente: il suo io più profondo è tutt’uno con le sue manifestazioni esteriori.
La società odierna è popolata da un gran numero d’individui bugiardi, dissimulatori e manipolatori; da persone che non esistano a dire e fare tutto il contrario di ciò che sentono e pensano realmente, ammesso che sentano e pensino qualcosa, se appena ciò può essere loro utile; e che non esiterebbero un solo istante a cambiare un’altra volta a dire e fare l’esatto contrario di ciò che proclamano oggi, se domani cambiasse la direzione del vento. Un buon esempio di questo tipo umano ormai frequente, e moralmente pregevole, è dato dai giornalisti italiani, specie in questa particolare congiuntura storica: la falsa pandemia, la falsa emergenza sanitaria, il falso vaccino e la volontà feroce d’imporre una dittatura disumana e tecnocratica con il pretesto mal dissimulato di difendere la salute collettiva. Sono individui che non credono in nulla; che disprezzano profondamente l’uomo; che, pur riempiendosi la bocca di parole dalle sonorità accattivanti e politicamente corrette, come inclusione, accoglienza e dialogo, in realtà non sprecherebbero un minuto del loro tempo a metterle in pratica nella loro vita, a meno che le luci dei riflettori li stiano illuminando e che qualche microfono stia cogliendo le loro parole. Insomma, sono individui pieni di ego e pervasi da una cinismo rivoltante: nessuna menzogna, nessuna finzione, nessuna bassa recita è troppo per loro: a condizione che abbiano il proprio tornaconto, non esiterebbero a ingannare gli amici (ma hanno amici, poi, costoro?) e la loro stessa madre. Ciò vale anche per molti uomini politici, deputati, senatori e membri dell’attuale governo. Ce l’hanno scritto in faccia che la coerenza e la lealtà non fanno parte del loro orizzonte spirituale: molti sono stati eletti al Parlamento con un programma totalmente diverso dall’agenda di governo che ora stanno portando avanti. Hanno accettato di farsi sedurre dal denaro e dal potere del capitale finanziario, ma il diavolo non ha poi dovuto faticare molto per conquistarseli: vivevano già nell’egoismo e nell’opportunismo più sfrenati, bastava solo l’occasione giusta per lasciar cadere le maschere sociali e far apparire in piena evidenza la loro vera natura. Pertanto, se l’uomo verace è amico di Dio, perché vive la vita che Dio vuole per lui, il bugiardo sistematico vive come Dio non vuole, come a Lui spiace, ma in compenso come piace assai a quell’altro, l’antico avversario, che vuole il male dell’uomo per odio contro Dio.
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio