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Le tappe, la meta

Il mondo è un luogo bellissimo. È impossibile enumerare tutte le sue affascinanti bellezze: l’arcobaleno dopo la pioggia, la galaverna sui tronchi degli alberi, il fiume e la cascata che d’inverno diventano ghiaccio, le aurore polari, il frangersi delle onde e la schiuma che si forma sullo sfondo del mare blu cobalto presso una barriera corallina. Ma anche, semplicemente, il giallo di un campo di colza che fa contrasto con le nuvole basse e grigie d’un temporale primaverile, l’immensità del cielo azzurro, lo scintillio del cielo notturno in una notte limpida, lo splendore dei monti illuminati dal sole, le infinte sfumature di verde di un bosco estivo e quelle ancor più innumerevoli di un bosco di aceri in autunno, dal verde, al giallo, al marrone, al rosso vivo. E non la bellezza soltanto, ma la bellezza ordinata, armoniosa, perfetta: la meraviglia d’un cristallo di rocca, di’n fiocco di neve visto al microscopio, d’una tela di ragno, dello sviluppo dei rami di un albero secondo una linea ascendente sinusoidale, nel rispetto geometrico della proporzione aurea. Tutto esprime non solo bellezza, ma sapienza, genialità, ordine, proporzione, efficienza, cioè bellezza portata al suo più alto grado.

Accanto alla bellezza che il mondo offre spontaneamente a tutte le creature, c’è poi la bellezza speciale immaginata, creata, realizzata e goduta dalla solo creatura che dispone di ragione, fantasia, sentimento, sviluppati nelle funzioni superiori. C’è la bellezza della fiaba raccontata dal papà a sua figlia, la sera, prima del bacio della buonanotte: un mondo parallelo e incomparabilmente più ricco, più sorprendente, imprevedibile, nel quale si può volare sopra un tappeto magico, veder uscire un genio dalla lampada, o la principessa addormentata risvegliarsi al contatto del bacio del principe azzurro. Oppure, soltanto, una bacchetta da fata di plastica che, impugnata dalla bimba, diviene una bacchetta incantata, mediante la quale si possono trasformare tutte le cose; un paio di soldatini che fanno sognare il bambino e lo trasportano in una realtà avventurosa ed emozionante, lo coinvolgono in marce e battaglie, fra mille pericoli e insperate vittorie. E non è neppure necessario averli, quei giocattoli che introducono nella dimensione magica del mondo: anche solo vederli dietro la vetrina del negozio e poi sognarli la notte. Anche la contemplazione della bellezza, anche il desiderio e l’anticipazione fantastica delle cose è fatta di bellezza, sia pure di un genere diverso. Ammirare un dipinto, ascoltare un concerto di musica classica, lasciarsi trasportare dalla musica dei versi un una poesia, anche questa è bellezza allo stato puro, disinteressata, goduta senza ombra di secondo fine, e quindi capace di scendere fino al cuore e far vibrare con immensa dolcezza le corde più profonde e nascoste dell’anima.

E tuttavia, c’è il rovescio della medaglia. La bellezza del mondo è letteralmente intrecciata con il grande mistero della sofferenza. Il falco piomba sul nido e porta via i pulcini, lasciando la madre desolata a ripetere il suo richiamo al vento. L’antilope stremata dalla sete si accosta al bordo dello stagno per bere, ed ecco la mandibola del coccodrillo le stringe il muso in una corsa implacabile, per trascinarla a fondo e divorarla. Non esiste pietà nella lotta per la vita, né un attimo di tregua o remissione: e inoltre, come direbbe il Leopardi delle Operette morali, chi soccombe, soffre, e chi prevale non gode, ma riesce soltanto a trascinare la propria sopravvivenza per lo spazio di un altro giorno. Tutto questo immenso ed incessante spettacolo di sofferenza universale, che sembra dar ragione a Leopardi e Montale, costituisce una sfida terribile all’impressione di ordine e bellezza che il mondo può dare nei suoi aspetti migliori. Come è possibile che un mondo così bello e ordinato sia anche così inestricabilmente intessuto di sofferenza e morte? Non c’è nulla di più dolce, di più rassicurante dell’amore di una madre: ma ecco che la morte si porta via quella madre, e le sue figlie restano orfane, arriva una matrigna dura e insensibile, che dapprima fa sparire ogni traccia della presenza di lei, poi mette al mondo dei figli propri con l’ex vedovo, e spinge letteralmente le figliastre fuori del nido, senza neanche un tetto sopra la testa (nessuna esagerazione romantica; noi conosciamo personalmente situazioni di questo genere). E allora come può essere bello, come può essere ordinato, un mondo nel quale le cose più dolci, gli affetti più puri possono essere travolti e spazzati via da un giorno all’altro da una forza imprevedibile e tremenda, che ci lascia non solo nudi e tramortiti, ma pieni di vana nostalgia per ciò che era e adesso non c’è più, è scomparso chissà dove? Poi ci sono le amicizie tradite, la fiducia ingannata, le promesse infrante, gli amori delusi, i cuori sanguinanti, le disgrazie improvvise. E sorge inevitabile la domanda: che razza di posto è il mondo: il paradiso o l’inferno?

Per rispondere a questa domanda, bisogna prima averne affrontata un’altra: che cos’è, il mondo? È la meta del nostro viaggio oppure solo una tappa? Perché se fosse la meta, ossia se non vi fosse nulla all’infuori di esso, allora sarebbe difficile negare che il mondo sia un posto orribile, il quale cela ogni sorta d’insidia, sofferenza, delusione, dietro una scenografia di magnifiche apparenze, al solo scopo d’illuderci e poi colpirci con forza raddoppiata e sospingerci, delusione dopo delusione, sofferenza dopo sofferenza, verso il nulla della morte. Tale è appunto la prospettiva dei materialisti: la quale, una volta accettate le premesse, che il mondo viene dal caso e vaga nel vuoto senza scopo, né meta, deve necessariamente condurre alle estreme conseguenza della tristezza, dell’angoscia e della disperazione; oppure a una sorta d’indifferenza e di sovrano disprezzo, tanto ostentato quanto poco sentito; oppure ancora a un’incessante, inutile battaglia di retroguardia per mettere in salvo quel po’ di piacere che si può strappare con sicurezza e battere in ritirata, ma sempre inutilmente, ogni volta che la sofferenza protende minacciosa i suoi tentacoli. Perché alla fine è lei, la sofferenza, accompagnata dalla morte, che viene a presentare il conto, e nessuno è abbastanza agile e veloce per sfuggirle. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dice Pavese: se la partita si giuoca sulla misura del tempo, è chiaro che vince la morte. E prima di morire bisogna anche soffrire per la morte delle persone care, assistere allo sbiadire dei ricordi più belli, trovarsi a vivere in un mondo che non è più il proprio, in mezzo a persone che nulla sanno di noi, e a cose estranee che non somigliano affatto quelle che abbiamo amato nei giorni felici.

Ma l’errore, forse, è proprio questo: scambiare il mondo, e la vita terrena insieme ad esso, per il fine. Perché se il mondo non è un fine, ma una tappa, e la vita terrena non è neppure essa un fine, ma solo un mezzo per giungere al fine, allora tutto appare sotto una luce diversa, e molte cose che parevano strane, inquietanti, incomprensibili o addirittura beffarde crudeli, acquistano un significato nuovo. L’automobile, il treno, l’aereo, la nave, sono mezzi di trasporto: non hanno un valore assoluto ma relativo. Infatti se uno di essi si rivela più veloce, o più comodo, o più economico, ecco che lasciamo il mezzo sul quale stavamo viaggiando e ci portiamo sull’altro: perché non c’interessava restare a bordo di quel mezzo, ma solo arrivare alla meta. Il dato primario, in ogni cosa, non è il mezzo, ma il fine: il mezzo è subordinato al fine, mentre il fine non è subordinato a nulla, perché costituisce un dato assoluto. Ora, qual è il dato assoluto del mondo in cu viviamo, e della vita terrena con la quale lo attraversiamo? Paradossalmente, non è nulla che si trovi in essi: né il mondo, né la vita terrena sono realtà assolute. Lo abbiamo visto: nel mondo tutto scorre, tutto cambia, e inoltre tutto cela un lato oscuro e crudele; e nella vita terrena vale la stessa legge: chi si aggrappa alle cose è perduto, la vita procede come un fiume e porta con sé tutto quanto; alla fine si giunge nudi al termine del viaggio, senza potersi afferrare a nulla di permanente che si trovi in essa. Ma se né il mondo, né la vita terrena, sono dei valori assoluti, o hanno in sé la dimensione dell’assoluto, hanno dunque ragione i materialisti, e noi siamo solo dei poveri illusi che non sono disposti a guardare in faccia la realtà? No: perché anche se il mondo e la vita non sono degli assoluti, sono però atti a farci intravedere l’assoluto, ossia lo scopo ultimo sia del mondo, sia della vita. Poniamo che la nostra meta sia un’isola che si può vedere dal promontorio; ma che, dopo aver attraversato molti paesi coi più vari mezzi, alla fine giungiamo sulla riva e ci rendiamo conto che non vi sono barche in porto che ci possano condurre alla meta ultima. In tal caso non diremo che i mezzi dei quali ci siamo serviti per arrivare all’estremità del promontorio sono stati inutili: sono serviti a farci vedere la meta, a darci la certezza che la meta esiste, anche se non disponiamo di ulteriori mezzi materiali per arrivarci. Così è il mondo: non è l’assoluto, ma un’immagine o un riflesso dell’assoluto, cioè del mondo vero, quello permanente, quello dove la delusione non punge il cuore e la tristezza non prevale sulla gioia. E così è anche la vita terrena: non è la meta, ma serve per farci capire che la meta esiste ma è fuori da questa dimensione fisica, e che noi dobbiamo preparaci all’ultima e più importante parte del nostro viaggio esistenziale per giungere ad essa. Come? Partendo proprio dalle cose di quaggiù, dai sentimenti di quaggiù, dalle azioni di quaggiù: perché il mondo è lo stagno nel quale si riflette il cielo, e la vita terrena è l’ombra che si protende a terra in presenza della luce, ed è anche il passaggio necessario verso la vita vera. Non si giunge alla meta senza essere stati nel modo e senza aver vissuto la vita terrena: sono passaggi necessari, ma sono solo tappe, che non vanno confuse cin la meta stessa. Chi confonde il modo con l’assoluto è simile a colui che scambia lo stagno con il cielo che si riflette sulla superficie dello stagno; e chi confonde la vita terrena per la vita in quanto tale somiglia a chi scambia il palcoscenico e le quinte di un teatro per la realtà vera, e gli attori che recitano la loro commedia per delle persone del mondo reale, le quali sono realmente ciò che dicono di essere. E come lo sappiamo, tutto questo? Perché ogni cosa, ogni atto, ogni volto, ogni impulso, ogni frammento di esistenza sono altrettanti indizi della presenza di una realtà ulteriore, assoluta: i nostri antenati lo sapevano, e lo sapevano anche i nostri nonni, col loro diploma di quinta elementare o più raramente di terza media; siamo noi, colti e raffinati cittadini della piena modernità, che ce ne siamo scordati e abbiamo perso la capacità di riconoscere con naturalezza tali indizi nell’ordito della vita d’ogni giorno. Difetto nostro, della nostra vista e del nostro intelletto; non delle cose.

Ora possiamo rispondere alla domanda: che razza di posto è il modo? È un anticipo del paradiso, per chi ha compreso che conduce alla vita eterna; è l’anticamera dell’infermo, per chi non lo comprende e si ostina a cercare in esso l’assoluto e la permanenza, cioè cose che non gli appartengono e che non ci può dare in alcun caso. La vedova inconsolabile che si consuma di lacrime sulla tomba del marito, è il simbolo di questa non accettazione della realtà del mondo: perché tutto ci che appartiene al mondo è transeunte, passa e va; e chi si vuole aggrappare per sempre alle cose del mondo, anche alle più nobili e pure, commette lo stesso errore di chi si vuole afferrare alle ombre. Questo non significa che tali cose non abbiano valore, né che non le si debba amare: è giusto amarle, anzi, ma di un amore saggio e maturo, cosciente del fatto che esse, in ultima analisi, non ci appartengono, e che quando ci saranno tolte, non potremo fare nulla per riaverle nella stessa forma in cu le avevamo prima. L’amore saggio e maturo sa che bisogna lasciar andare le cose, quando una forza superiore le chiana a sé e ce le sottrae: sarebbe da bambini volerle trattenere, perché esse in sono mai state nostre, abbiamo solo potuto goderne Noi le possiamo conservare nel cuore trarre da esse la forza per guardare il domani: ma chiudersi nel dolore tetro e sterile conserve a nulla e dimostra una profonda ignoranza della vita, Forse quella vedova ha dei figli, che dopo la morte del padre avrebbero più che mai bisogno del suo affetto: quel suo trattenersi ore ed ore presso la tomba, ogni giorno, lasciandoli soli e poi portando a casa la propria sconsolata tristezza, è un tradimento verso la vita ed è l’indice d’una totale ignoranza di come le cose belle di quaggiù devono essere amate, vale a dire non come negli assoluti. Dato che nel mondo nulla è assoluto, non si deve amare nulla come un assoluto; al contrario, si devono amare le cose più dolci e meritevoli come se fossero dei ponti esse stesse verso l’assoluto. Così, chi ha amato veramente il proprio marito, o la propria moglie, sa che la morte fisica ha portato via solamente un involucro, non la parte essenziale; e sa anche che quell’amore non finisce affatto davanti alla tomba, ma continua, spostandosi però su un piano più alto e luminoso. Ora costui o costei sono morti: ciò non significa che bisogna dimenticarli, ma al contrario bisogna amari nella loro essenza, cioè per la loro anima. L’amore umano, dopo l’esperienza della morte, prosegue, anzi incomincia a vivere, su di un piano totalmente spirituale, cosa che già nel corso della vita terrena bisognerebbe imparare, ma che è divenuta rara, per il prevalere nella cultura odierna degli aspetti carnali ed estrinseci dell’amore stesso. La verità è che un amore vero e profondo può anche vivere sulla sola dimensione spirituale, mentre non vivrà mai nella sola dimensione carnale, ma finirà per esaurirsi, saziato e quasi nauseato di se stesso.

C’è un solo assoluto che merita tutta la nostra dedizione e il nostro amore in quanto assoluto: Dio. Egli non passa, non è un mezzo, non è estrinseco, ma è la parte essenziale del mondo e di noi stessi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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