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La Velia, o il dramma dell’umanità cieca e dolente

La bellezza della Velia era quella della rosa che s’è finita ora d’aprire.

La carne, felice per il goder la sua gioia a proprio talento – inesauribile vena della giovinezza abbandonata all’istinto — carne nutrita dal suo stesso maturo piacere: appena, per ora, la morbidezza ella sensualità pronta; più tardi, sarà la frollaggine del debosciamento. Ma ora una soavità liscia e la bella fattura di tutto il corpo che aveva la grazia ingenua di certi steli per le allungate curve dissimulanti il gioco delle giunture. E l’odor della carne e i capelli morati e il brillio degli occhi, l’invito e la smodatezza dei fianchi: creatura di quelle che ben per l’uomo non incontrar mai nella vita.

E come vestiva!

Tale è il conturbante e un po’ volgare apparire della Velia, la protagonista del romanzo omonimo (Firenze, Vallecchi, 1923) di Bruno Cicognani (1879-1971), uno scrittore del quale ci siamo or è poco occupati a proposito di un altro suo libro, L’età favolosa, con il semplice e toccante episodio delle due monachine (cfr. Fede, pietà, umiltà e modestia: virtù della vera suora, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 01/10/21).

A proposito di questo notevole romanzo dello scrittore fiorentino, verista ma non materialista, anzi cattolico, spirito assorto e solitario, che alcuni critici con qualche rimorso ammettono avrebbe meritato un posto assai maggiore nel panorama delle nostre lettere, scriveva Emilio Cecchi con la sua impareggiabile finezza e acutezza nella recensione "La Velia" di Bruno Cicognani, scritta a caldo nel 1923, poco dopo l’uscita del volume dello scrittore (in: Emilio Cecchi, Letteratura italiana del Novecento, a cura di Pietro Citati, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1972, vol., 1, pp. 429-430):

Non ho intenzione di perder tempo sunteggiando questa "Velia". Chi ama seguire quanto di meglio si produce oggi in Italia, dovrà leggerla; se, com’è più probabile, non l’ha già letta. È la storia della popolana astuta e sensuale, ch’entra in una famiglia di zotici arricchiti, e rapidamente la devasta. Storia vivacissima, nella generale pittura dell’ambiente borghese fiorentino; ma, soprattutto, in quattro o cinque figure d’una complessità ingenua e piena di movimenti, osservate con acutezza che poi ritorna tutta in facilità e felicità; scritta in una lingua che ha perso quasi completamente quanto, nello stesso "Figurinaio" ["Il figurinaio e le figurine", terza opera pubblicata dal Cicognani, nel 1920] persisteva dell’uso locale; e in questo aspetto, forse potrebbe anche notarsi una progressiva chiarificazione stilistica dalla prima all’ultima parte del romanzo.

Velia, la ragazza che, dal laboratorio di mode, viene assunta al coniugale letto e incruento di Beppino, precocemente alcolizzato e rimbecillito, resterà fra i pochissimi personaggi che ricevettero battesimo nel romanzo italiano, da diversi anni a questa parte. Dei giovami, soltanto Moretti ha dato, cin tutt’altro carattere, figure femminili da poter mettere accanto alla Velia. Beppino, il marito per modo di dire, è, in confronto, meno approfondito; forse anche a ragione della parte che gli toccava: una parte di testa di turco, nella quale la fissità dell’ignominia e della sventura poteva, al più, atteggiarsi di grottesco. In una scena finale, fra curatori di fallimento, creditori e avvocati, c’è, tuttavia, uno scatto di Beppino (e un gran cazzotto tirato sula tavola) che vale molta psicologia, e dà una specie d’improvvisa coscienza retroattiva a questo testimone eternamente muto. Ma se la Velia intitola il libro e lo diffonde tutto dell’odore delle sue belle braccia e della sua biancheria, il vero protagonista è l’Ingegnere, amante della Velia; anzianotto, ma ben conservato; elegante, scapolo, conquistatore di donne per poter conquistare, per mezzo delle donne, i patrimoni. La Velia è più forte di lui; con la scurezza dell’istinto delude le sue scaltrezze, lo conquista, lo logora, lo rovina; e finalmente, come si spinge col piede una buccia nel rigagnolo, lo caccia al suicidio.

Un po’ meno persuasivo nella prima fase, quando la Velia, reduce vergine dal viaggio di nozze, si attacca all’Ingegnere, il loro amore si svolge, poi, in finissimi episodi, con una logica leggera quanto inevitabile. Già il brivido della vecchiezza che la prima volta turba l’Ingegnere, arbitro di tanti pudori, appena Velia gli si è concessa, e il senso di pianto che lo invade davanti a quello ch’egli dovrebbe considerare il più bel trionfo della sua carriera, sono tratti originalissimi; e determinano, con ricca varietà d’intrecci, la catastrofe lontana. Non è facile trovar da leggere pagine come quelle del tardivo idillio nella villetta, al cui cancello sta per apparire, ad apporre i sigilli, il notaro; un idillio inasprito dalla sensualità e crudeltà della donna, come quando, feritasi con una spina, dà a succiare la stilla di sangue all’amante; o quando gode di straziare i fiori primaticci, dei quali si compiaceva, con tenerezza puerile, un istante prima. Se il romanzo, come ha detto un grande scrittore, è «la Verità tirata fuori dal pozzo, e vestita d’immagini variopinte», quasi in ogni pagina di questo libro, anche se le immagini non sempre sono ugualmente belle, è presente la Verità; e spesso una profonda Verità.

Questa Verità diventa Verismo, nel senso deteriore? Quando, per esempio nel bisogno di più forti contrasti, alla rovina finanziaria dell’Ingegnere, il Cicognani aggiunge la rappresentazione della più umiliante decadenza fisica; e l’Ingegnere consuma le sue giornate fra la siringa e lo scadenzario? Credo che la discrezione dello scrittore non abbia lasciato entrare nulla di men necessario; e se la Velia parla, a volte, come parlano le prostitute (non quelle, s’intende, dei libri di filantropia) è perché lo richiede la logica del suo personaggio. Forse minor misura è in quella faccenda della poltrona da scrivania che il suicida ha lordata del proprio sangue, e poi il sangue si attacca ai calzoni dello scritturale; o quando gli infermieri rivestono il morto nella sala incisoria. Il Cicognani ha un forte senso dell’orrido; un senso tutto carnale; dovrebbe cercar di non metterlo in giuoco troppo facilmente. Ma son minuzie, nell’insieme di un’opera così bella; con tanta dovizia di figure secondarie, perfettamente delineate; e anche se caricate un po’ romanticamente, come Vasco, giovane di studio quasi murgeriano, o come l musicista Alberto, opportunamente caricate. La illusione del "vero amore", in una Velia, non poteva assumere che dei contorni da cartolina illustrata.

Un forte romanzo insomma. Alla buon’ora!

Così Emilio Cecchi: un critico assai competente, ma non solito a distribuire apprezzamenti su di un’opera letteraria del cui valore non fosse pienamente convinto. Noi però non ci soffermeremo oltre, in questa sede, sulle qualità intrinseche del romanzo di Bruno Cicognani; piuttosto vogliamo prendere spunto da esso, e dal personaggio più riuscito, quello della protagonista, per fare una riflessione su ciò che simili individui producono nella vita degli altri, e sul mistero del male che in essi si cela, sovente dissimulato dietro piacevoli apparenze. Perché la Velia, c’è poco da fare, con tutti i suoi bei vestiti e i suoi cappelli eleganti e le carni profumate e il suo fare da consumata seduttrice, è un personaggio del male: un personaggio che porta sofferenza e infelicità dovunque s’insinui, e che dopo aver spremuto tutto l’utile dalle sue vittime, le abbandona a se stesse senza il minimo rimorso. Non è solo egoista: è cattiva, d’una cattiveria talmente spontanea e naturale da far sorgere il dubbio che agire con tanto egoismo e cinismo sia per lei la cosa più normale del mondo; in altre parole che sia un mostro, perché chiunque non sia un mostro possiede un residuo di scrupolo e senso morale. Il fatto è che donne come la Velia ce ne sono molte in giro: non si tratta del solito stereotipo antifemminile della mentalità patriarcale; tanto più che esiste, nessuno lo nega, anche la versione maschile di tale personaggio, l’uomo che usa le donne e le getta via senza rimorsi, dopo averle sfruttate e aver completamene rovinato la loro vita coniugale, a volte anche la loro situazione economica (vedi il protagonista di Bel-Ami di Guy de Maupassant). Provano anche piacere, costoro, nel fare agli altri il male che fanno, dopo averli illusi e sedotti, ingannati e traditi? In alcuni casi certamente sì; in altri forse no, ma ciò non li rende meno repulsivi: in un certo senso la loro indifferenza per il male che provocano è un fatto ancor più impressionante.

Bisogna poi domandarsi quanto siano diffuse personalità come quella della Velia, e se il loro numero tenda ad aumentare, come alcuni indizi starebbero a indicare. La società, qualunque società, a cominciare da quella più piccola, ma fondamentale, che è la famiglia, esiste e può reggesi se le persone costruttive e collaborative, capaci di provare simpatia e compassione verso il prossimo, prevalgono nettamente su quelle egoiste e distruttive. Se queste ultime diventano numerose, la società smette di funzionare: disperde più energie positive di quante riesca a produrne e va in blocco esattamene come una fabbrica che non ha più combustibile e materie prime per far funzionare le macchine. Le persone come la Velia sanno solo distruggere: sono dei parassiti che sfruttano gli altri e, dopo averli spolpati, passano ad aggredire un altro individuo. L’esistenza della società dipende dal fatto che i suoi membri siano capaci e disposti a offrire qualcosa di se stessi: non solo il proprio lavoro, la propria intelligenza e la propria competenza, ma anche la propria generosità. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe in una famiglia se un membro si ammala e il coniuge, o il figlio, invece di offrigli aiuto e conforto, si mettono a consumare le risorse senza far nulla, e aggiungono col loro modo di fare nuove sofferenze e preoccupazioni al malato, innescando un ciclo altamente distruttivo. C’è bisogno, quindi, che persone come la Velia restino delle eccezioni isolate in un mondo di persone sane, pur ciascuna delle quali coi suoi bravi difetti: non è indispensabile che siano tutti dei santi, ma lo è che siano abbastanza umane e ragionevoli da non distruggere più di quel che sono capaci di costruire, altrimenti si verifica un gioco al massacro che porterà il gruppo alla dissoluzione. Per fare ciò, bisogna agire innanzitutto coi buoni esempi e la giusta educazione dei bambini. Tutti noi abbiano una certa tendenza all’egoismo: teologicamente, è la conseguenza del Peccato originale; ma tutti abbiamo sufficiente ragionevolezza per capire che non si può solo usare il prossimo e distruggere le relazioni sociali, altrimenti noi stessi finiremmo stritolati dalle dinamiche distruttive messe in moto. Bisogna dunque far leva sulla ragionevolezza dell’essere umano e, al tempo stesso, fare in modo che i bambini crescano in un ambiente moralmente sano, aperto alla generosità e ricco di affetti, perché un bambino poco amato o traumatizzato diviene, da grande, una mina vagante. Un bambino che è stato abusato ha buone probabilità di divenire a sua volta, da grande, un abusatore; un bambino che ha visto i suoi genitori comportarsi da egoisti e da prepotenti, ha purtroppo un’alta probabilità di seguire la stessa strada, perché si sarà convinto che i buoni vengono schiacciati e che la generosità non serve a nulla se si vive in un mondo di lupi feroci. Ecco perché è importante che all’educazione del bambino vengano rivolte le massime cure; ed ecco perché, in questa fase storica, bisogna sottrarre i bambini, per quanto possibile, alle agenzie di diseducazione permanente, come la televisione, i giochi elettronici, per non parlare dei social, in modo che egli viva nel mondo reale degli affetti veri, quelli del papà, della mamma e dei fratellini (e non di due papà o due mamme, sia detto senza disprezzo per alcuno), cose concrete e reali e soprattutto cose buone e calde di sentimenti, e non cose fredde, ostili, impersonali, fatte di violenza esplicita o implicita, come ormai lo sono quasi tutti i programmi televisivi e la stessa pubblicità, che è divenuta il vero programma fondamentale e inonda in continuazione il nostro immaginario mentre noi pensavamo ingenuamente di vederci in santa pace un bel film o un documentario.

In conclusione. Donne (o uomini) come la Velia sono dei mostri in libertà, che dovrebbero essere riconosciuti ed evitati con raccapriccio e spavento. Senza dubbio ce ne sono sempre stati e ce ne saranno sempre: ma bisogna stare attenti a che non proliferino. Purtroppo il tipo umano che impersonano è continuamente pubblicizzato dal cinema, dalla televisione, dalla stampa e dai social: il tipo amorale, senza scrupoli, che non bada ai mezzi pur di puntare al successo; e invece di essere esecrato, è divenuto oggetto di ammirazione. Lo vediamo in tanti squallidi vip dello spettacolo che fanno un mucchio di soldi e hanno milioni di followers proprio perché mostrano, o simulano, tali caratteristiche di arrivismo, cinismo e amoralità. Noi siamo convinti che esiste un piano globale, studiato e perfezionato nel corso del tempo, per diffondere modelli negativi e ostacolare in ogni modo le famiglie sane, ove si allevano bambini sereni e capaci di una giusta affettività. Ma a che serve indugiare in questo amaro pensiero? Bisogna invece moltiplicare gli sforzi per educare bene i bambini e vincere ciascuno il proprio egoismo, chiedendo con fede l’aiuto della grazia divina. Il bene è più forte del male, perché sa costruire: ma si deve alimentarne la sorgente affinché non s’inaridisca.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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