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Fede, pietà, umiltà e modestia: virtù della vera suora

Abbiamo parlato delle virtù essenziali del vero sacerdote: la fede, la pietà, l’umiltà e la modestia, prendendo ad esempio un santo sacerdote udinese del secolo XIX, Francesco Tomadini, che tanto si prodigò per i poveri e specialmente per i ragazzi orfani (cfr. l’articolo: Fede, pietà, umiltà e modestia, le virtù del vero prete, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/09/21). Vogliamo adesso parlare dell’altra metà del Cielo — è proprio il caso di adoperare questa espressione di solito un po’ abusata -, ossia delle religiose che hanno scelto di servire Gesù Cristo in un convento, oppure impegnandosi nelle opere sociali, sulla spinta di un’autentica vocazione. Tutti probabilmente abbiamo incontrato un certo numero di suore in alcuni momenti particolari della nostra vita: all’asilo, o a scuola, o durante un ricovero ospedaliero, sia nell’età infantile, sia da adulti; e senza dubbio ne abbiamo incontrate anche di mediocri o di pessime, anime senza alcuna luce interiore, perciò senza una vera vocazione, che hanno indossato l’abito chissà per quale ragione, ma di certo non per una scelta coerente rispetto alla chiamata del Signore. E tuttavia, crediamo che sarebbe ingeneroso fermarsi a tali esperienze negative, di maestre acide o infermiere bisbetiche, donne frustrate che non sarebbe state capaci di costruirsi una vita di affetti e una propria famiglia, per trarne la facile conclusione che le suore sono tutte così, donne fallite che hanno ripiegato nella vita religiosa perché incapaci d’inserirsi costruttivamente nella vita sociale; perché è molto probabile, se vogliamo essere equanimi, che ne abbiamo incontrate anche di buone e perfino di angeliche, alle quali siamo debitori di aver assistito o partecipato a qualche scena toccante, o anche solo al privilegio di aver visto la luce splendente del loro sguardo, proiettato già verso le altezze che le persone comuni non riescono a scorgere nella vita d’ogni giorno. Siamo anche persuasi che le virtù essenziali della buona suora siano esattamente le stesse del buon sacerdote: fede, pietà, umiltà e modestia; sia pure coniugate nella particolare sensibilità femminile, che non è, grazie a Dio, uguale e intercambiabile con quella maschile, ma diversa e complementare ad essa (cfr. il nostro articolo: Esiste una specifica missione della donna?, pubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 17/11/17).

Potremmo scegliere, per proporre un modello valido e credibile, quello di tante suore missionarie, che si sono prodigate e si prodigano per il bene delle anime e per l’assistenza materiale degli ultimi della Terra, affrontando i più duri sacrifici e talvolta anche al prezzo di offrire la propria vita; ma lo abbiamo già fatto in altre occasioni, ad esempio rievocando la nobile e commovente figura della bresciana suor Irene Stefani (vedi l’articolo Grandezza sublime di un’umile donna: suor Irene Stefani, sempre sul sito dell’Accademia Nuova Italia, il 19/03/18). Perciò questa volta preferiamo puntare l’attenzione su una suora apparentemente comune, vissuta più di cento anni or sono, della quale non sappiamo neppure il nome, e che non ha compiuto gesta eccezionali: un’anonima suora francescana, della quale non conosciamo l’esatta congregazione di appartenenza; di quelle che andavano di casa in casa a fare la questua per i poveri e per mantenere il proprio convento, ma che da tempo non si vedono più per le strade (curioso paradosso, ora che siamo nei tempi gloriosi della "chiesa in uscita" e dei "preti di strada"). Non sappiamo praticamene nulla di lei, anzi a dirla tutta conosciamo solamente un piccolo, modestissimo episodio, che però è stato visto e introiettato da un testimone d’eccezione, un bambino che sarebbe poi diventato lo scrittore Bruno Cicognani (Firenze, 10 settembre 1879-ivi, 16 novembre 1971) e che lo avrebbe raccontato in uno dei suoi libri più belli, nel quale rievoca gli anni felici della propria fanciullezza: L’età favolosa, del 1940. È quasi inutile dire che anche Cicognani, essendo stato un fervente cattolico, è stato relegato dalla cultura e dalla critica ufficiale in seconda o terza fila del nostro panorama letterario contemporaneo; sicché tutti gli studenti delle medie o del liceo sanno, per averne letto qualche pagina, di Alberto Moravia, di Pier Paolo Pasolini o di Nanni Balestrini, tutte icone della sinistra e del progressismo, ma nessuno probabilmente conosce più Bruno Cicognani (al massimo qualche telespettatore che abbia almeno sessant’anni ricorderà lo sceneggiato La Velia, tratto da un altro suo importante romanzo), come del resto accade per Nicola Lisi, Bonaventura Tecchi, Tito Casini, Domenico Giuliotti e parecchi altri, per non dire del grande dimenticato Giovanni Papini; benché i loro nomi fossero presenti in tutte le antologie scolastiche fin verso l’inizio degli anni ’60 (si potrebbe prendere quella data come lo spartiacque culturale, come sulle case di Longarone si vede chiaramente, dall’età degli edifici, fin dove è arrivata l’onda alluvionale del Piave nel 1963: subito dopo, il Vaticano II e il ’68 hanno aperto un’altra era).

Ed ecco l’episodio in questione (da: Bruno Cicognani, L’età favolosa, Torino, Società Editrice Internazionale, 1964, pp. 244-245):

Era di grande estate: vennero due monachine francescane, di quelle il cui capo ha della tartaruga, involto nel "fisciù" bianco, sotto il cappellone di paglia. E l’una — la Maddalena — era giovanina: me la ricordo: giovanina e pallida: a me parve bellissima. L’altra — la Marta — vecchierella grinzosa come una giuggiola passa; ma piena di eloquio e di spirito. Dopo avere accattato, questa chiede da rinfrescarsi per sé e per la compagna. Mia madre che si rimprovera già di non aver pensato ad offrire, porta — s’era nel vestibolo di fianco alla scala — il vassoio con i bicchieri per l’acqua, la boccia dell’acqua fresca tirata su allora dal pozzo e i bicchierini per il vin santo. Marta, la monachina loquace, prima si schermisce, popi di gran cuore accetta. L’altra, la tacita Maddalena. Sorride. E mia madre intanto ha acceso la candela e scende in cantina — vi si scendeva di lì, dalla porta di fianco sotto la scala — tutta infervorata. Risale col fiasco:

«È appena manomesso: non sono stata ancora a travasarlo in bottiglie.»

Posa la candela: porge il bicchierino a ciascuna delle monache e versa. Limpido, chiaro, il liquido ha una fluenza che a Marta vecchierella persuade poco, dà sospetto. Getta essa un’occhiata al fiasco che mia madre tiene con ambo le mani, riguarda contro luce il liquido nel bicchierino:

«Gradirei prima un bicchier d’acqua.»

Posa il bicchierino sulla tavola nello stesso tempo che mia madre riposa il fiasco. Beve il bicchier d’acqua:

«Dio gliene renda merito, signora.»

«E il vin santo: non lo gradisce?»

Marta è imbarazzata: si volge verso la compagna. Questa, nello stesso momento ha appoggiato le labbra un po’ esangui — ma che a me davano l’impressione di dolcissime — all’orlo del bicchierino, alza il bicchierino e lentamente beve. Socchiudendo gli occhi: e par che gusti qualcosa di delizioso, di voluttuosamente deliziosa. Poi, sorridente — e c’era tanta luce in quel sorriso — riposa il bicchierino vuoto sulla tavola. Ma mia madre ha avuto un’intuizione. La vedo che riprende il fiasco, ne palpa sgomenta la veste: è untuosa; guarda il bicchierino posato dalla Maddalena, ricerca, quasi a conferma della sua intuizione, gli occhi di Marta:

«Dio mio, cosa ho fatto!»

«Non fa mica male un bicchierino d’olio — dice Marta. — E come olio deve essere squisito, finissimo.»

«E voi sorella, – dice mia madre angosciata alla dolce Maddalena — l’avete bevuto ugualmente…

«Nostro Signor Gesù Cristo — non ho più sentita una voce così celestiale — bevve sulla croce il nepente che era aceto mescolato cin fiele: pensando a quello, veramente, signora, quel bicchierino era una squisitezza. M’avete dato un modo di far cosa cara a Gesù. Il merito è vostro.»

E allora avvenne una cosa che mi commosse. Mia madre si mise in ginocchio e le baciò il Crocifisso che quella portava sul petto.

Sì, possiamo immaginare le obiezioni di certuni: «Tutto qui? Non c’era un episodio più eclatante, non si poteva citare un modello più elevato di perfetta religiosa per il nostro tempo? Che cosa ha fatto, alla fin fine, questa suorina che oltre al nome, Maddalena, e alla giovinezza, con quella voce celestiale e quelle labbra dolcissime, ha solamente mandato giù un bicchiere d’olio al posto del vino fresco che la padrona di casa aveva inteso offrire, a lei e alla sua compagna, nel gran cado dell’estate?» Ebbene, a noi sembra invece che è in piccole cose come questa che emerge la vera personalità degli uomini e delle donne, o, come un questo caso, lo spessore e la qualità della loro vocazione. Gesti eccezionali capita forse una volta o due nella vita di poterne compiere; ma gesti quotidiani di bontà, di delicatezza, di umiltà, capitano tutti i giorni: sta a noi saperli cogliere. La suora più anziana, Marta, ha avuto l’occasione, ma non l’ha colta: ha intuito che quel vino era olio d’oliva e, non volendo mortificare l’ospite, ma neppure essendo disposta a berselo, ha declinato l’offerta. Si noti che delle due è la più giovane e silenziosa, quella che svolge il ruolo trainante: imbarazzata, la suora anziana volge lo sguardo verso di lei, come a chiedere consiglio. Ed ecco la decisione della giovane: con semplicità, con naturalezza, porta il bicchierino alle labbra e beve, lentamente, sino in fondo: non con smorfie di ripugnanza e disgusto, ma con l’atteggiamento di chi sta sorbendo con soddisfazione, quasi con voluttà, un liquore squisito. Se la mamma del futuro scrittore non avesse intuito da sé l’errore commesso; se non si fosse accorta da sola che quel fiasco conteneva l’olio e non il vin santo, il piccolo incidente sarebbe passato forse inosservato; di certo sarebbe passato inosservato se entrambe le suore avessero fatto come la più giovane, accettando il bicchiere e bevendo senza fare commenti. Ma la diffidenza della più anziana, certo giustificata sul piano umano; la sua repulsione all’idea di bersi una razione di olio, in quella caldissima giornata d’estate, quando già il senso del gusto era stato risvegliato e per così dire ingolosito dalla promessa del vino fresco, ha fatto cadere il velo, e la padrona di casa, mortificata, ha compreso lo scambio fatto inavvertitamente. Ebbene, proprio per evitare alla signora quella mortificazione; proprio per evitarle l’imbarazzo e la confusione della brutta figura, sia pure involontaria, che la suorina ha deciso di bere senza fare storie il contenuto del bicchierino; e inoltre per cogliere al volo l’occasione di fare un "fioretto", uno di quei piccoli sacrifici volontari che una volta s’insegnavano ai credenti fin da bambini, e ora sono passati di moda, ma che avvicinano l’anima a Dio, come spiega lei stessa, perché significano aderire alle sofferenze di Cristo nell’ora delle Sua Passione, e quindi mortificazione di sé e offerta al Signore.

Ci sembra già di sentire le obiezioni e lo scetticismo dei soliti sapientoni, magari "cattolici" adulti e vaccinati (nel senso proprio della parla), e quindi favorevoli o comunque non contrari all’aborto e all’eutanasia, perché impegnatissimi nel "dialogo" col mondo, e inoltre favorevoli a mascherina, distanziamento sociale e guanti di gomma per distribuire (sulla mano!) la santa Comunione: «Eh via, è stato un sacrificio perfettamente inutile e anche un po’ ridicolo. Che bisogno c’era di bere l’olio senza dir nulla? Sarebbe bastato avvertire la padrona di casa dell’errore che aveva commesso nel prendere il fiasco in cantina, e invece di quella sgradevole bevanda avrebbe potuto gustare un bel vinello fresco, un vero sollievo dopo la sudata della questua fatta casa per casa! A che scopo aggiungere una pena ulteriore, e sia pure non troppo gravosa, a quelle che già la vita abitualmente riserva a ciascuno? Infine, per dirla tutta, è stato un gesto quasi più di stupidità che di delicatezza: a cosa è servito, poi?». State tranquilli, cari amici scettici e pratici, cari materialisti e progressisti che non date alcuna importanza agli aspetti spirituali della vita e della stessa fede in cui dite di rivolgere la vostra speranza cristiana: è servito, certo che è servito; non è stato affatto un gesto inutile. Primo, ha permesso a quella suora di esercitare all’atto pratico le virtù della fede, della pietà, dell’umiltà e della modestia: e Aristotele dice giustamente che le virtù non sono innate e che per svilupparle e rafforzarle bisogna praticarle in maniera sistematica e abituale. Secondo, è stato un gesto che ha risvegliato la fede della padrona di casa: infatti si è inginocchiata davanti alla suora e le ha baciato il Crocefisso. Non ha baciato lei: ha baciato il Crocefisso, perché ha compreso l’intenzione con cui ella aveva fatto quel sacrificio: imitare, nel suo piccolo, le sofferenze del Signore sulla croce. Terzo, ha dato una dolce lezione di umiltà alla sua diffidente compagna. Quarto, ha dato una formidabile testimonianza al bambino che era presente alla scena: il quale ha visto, ha compreso, e ne è rimasto talmente impressionato da non scordarlo più, e da metterlo per iscritto nel suo libro di ricordi, tanti anni dopo. Quinto, grazie a quella testimonianza innumerevoli persone, come noi e voi in questo momento, son venute a conoscenza di quel fatto e ne hanno tratto materia di edificazione. Se tutto questo vi pare poco, a noi no: perché la santità è fatta anche di minuscole buone azioni come quella.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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