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Veri e falsi operai nella vigna del Signore

Ogni cattolico è chiamato dalla sua stessa vocazione ad essere un operaio nella vigna del Signore (cfr. Gv 15,1-8); e il sacerdote cattolico, il quale ha ricevuto una vocazione più intensa e precisa, ed è stato consacrato per tutta la vita, è chiamato ad esserlo più che mai, e a dare il buon esempio ai suoi fratelli, vale a dire alle pecorelle che gli sono state affidate nell’ambito della sua parrocchia e della sua diocesi, ma anche in qualsiasi altro luogo o circostanza possano presentarsi. Il sacerdote ha una funzione soprattutto: predicare il Vangelo, battezzare e insegnare le verità della fede, secondo il retto Magistero della Chiesa. Per questo Gesù lo ha chiamato e non per altro; se poi è un buon psicologo e sa ascoltare e consigliare la gente, bene; se è una persona sensibile alla giustizia sociale e partecipa con simpatia alle giuste rivendicazioni dei suoi parrocchiani, benissimo; se possiede anche una spiccata sensibilità ecologica e soffre per la minaccia contro l’ambiente causata dallo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, bene anche questo. Nessuna di tali cose, però, viene prima del Vangelo; e nessuna, per alcuna ragione, può sostituirsi ad esso.

Fatta questa premessa, ricordiamoci — perché nel clima odierno specialmente i giovani potrebbero non saperlo — com’erano i veri operai nella vigna del Signore, ad esempio quelli che appartenevano a congregazioni con sedi sparse in tutto il modo e che quindi viaggiavano dall’una all’altra, affrontando fatiche e pericoli. Prendiamo a titolo d’esempio la figura di don Paolo Albera (None, Torino, 6 giugno 1845-Torno, 29 ottobre 1921), il secondo successore di san Giovanni Bosco dopo Michele Rua alla guida dei Salesiani, i quali avevano creato missioni nei luoghi più sperduti e selvaggi. Riportiamo alcuni episodi dei viaggi di don Albera alle missioni salesiane nel Nuovo Mondo, tratti dal libro di don Guido Favini: Don Paolo Albera, «Le petit Don Bosco» (Torino, Società Editrice Internazionale, 1975, pp. 119-120; 128; 135-136; 137-138):

Sul piroscafo "Yorkshire" poco pulito ma tanto robusto da sostenere una tremenda burrasca di tre giorni, prima dell’ingresso nello Stretto di Magellano. Il fatto pose in trepidazione i salesiani di Puntarenas in ansiosa attesa. I passeggeri che solevano far spesso quel tragitto dicevano di non aver mai visto una tempesta simile. Arrivarono con due giorni di ritardo, e le accoglienze furono più che mai commoventi. Don Albera attribuiva carattere provvidenziale anche a quell’incidente perché aveva potuto grazie al coraggioso intervento di una cugina del santo salesiano Don Camillo Ortuzar, celebrare la S. Messa per passeggeri, la domenica di sessagesima [del 1900]. La chiesa di Puntarenas, l’unico edificio in pietra voluto da Mons. Fagnano dopo l’ultimo incendio di quella di legno, sorgeva già bella come l’aveva architettata il salesiano Don Barnabé e come l’avevano costruita valenti fratelli muratori. Quantunque non ancora consacrata, Don Albera volle celebrarvi la santa Messa a cui accorsero numerosi coloni inglesi, tedeschi, francesi, austriaci, italiani confusi con la scarsa popolazione cilena, di cui era parroco Don Borgatello. La sera del 14 febbraio proseguiva per l’isola Dawson su un piccolo vapore che ammassava passeggeri e bestiame e giungeva alla baia Harros dove era la missione S. Raffaele con otto ore di ritardo, grazie a quindici ore di un’altra spaventosa tempesta nel cuor della notte. Don Albera pianse di commozione all’affettuosa accoglienza degli Indi. La breve sosta passò in una sintonia di cuori ineffabile specialmente alla santa Messa durante la quale egli parlò proprio col cuore intenerendosi al fervore della loro fede e dell’amore a Gesù Sacramentato, trasparente mentre si accostavano all’Eucaristia. Dall’isola Dawson Don Albera passò all’isola Grande per raggiungere la missione della Candelara. Ma dovette di nuovo attraversare lo Stretto di Magellano e piegare a destra, dando il giro quasi a metà dell’isola, donde in 27 ore riuscì a sbarcare sull’isola Grande. Ventisette ore d’inferno! «Fu la prima volta che il mare non ci lasciò dire la Messa — scrisse il segretario — e, non contento, ci ha prostrati all’eccesso» (…)

La traversata della Cordigliera [partendo da Mendoza, nel nord-ovest dell’Argentina] fu dura per Don Albera, già anziano di età, malandato in salute, non avvezzo al cavallo. Ma ce la fece, grazie soprattutto alle attenzioni di Mons. Costamagna che la conosceva a palmo a palmo e l’aveva fatta perfino sfidando metri di neve tre mesi prima, aprendosi il passaggio a forza di braccia. Ne parlarono i giornali con grande ammirazione. Don Albera ebbe la pelle della faccia bruciata in parte dal gelo. Gran sollievo, quando giunsero a Los Andes, poter ospitarsi dal parroco, pulirsi e rifocillarsi e poi prendere il treno per Santiago del Cile. (…)

Don Fusarini li accompagnò poi per un buon tratto attraverso le foreste [dell’Ecuador], bellissime ma popolate di serpenti, per monti scoscesi, passando sull’orlo di orrendi precipizi, per guadi di fiumi profondi e di pantani che li inzuppavamo fino al ginocchio. Dovette però lasciarli presto per ritornare sulla sua via verso l’occidente. Più di una volta, giungendo ai tambo (luoghi di sosta pei missionari) Don Albera lo si doveva toglier di peso da cavallo e deporre su una sedia o qualcosa di simile perché le gambe non lo reggevano. Dove l’indio di stanza era stato preavvisato vi trovavano un po’ di acqua calda salata e al più impoltigliata di farina di meliga, di patate o di yucca. Spesso l’unico piatto che trovavano era un po’ di granturco, neppur sufficientemente salato. Era l’epoca delle piogge, quindi con disagi tali da dissuadere chiunque dal proseguire. Eppure dovettero proseguire sinché il cavallo, nella salita all’Auzay, non scivolò sbalzando Don Albera di sella sulla roccia con un piede impigliato nella staffa. Per grazia di Dio, si fermò, l’indio accorse a tenerlo fermo e Don Gusmano gli poté liberare il piede dalla staffa. Poteva essere un’avventura fatale! (…)

Il percorso era anche più ostacolato dagli alberi schiantati dal diluvio dei giorni precedenti. Impiegarono ugualmente tre giorni per tornare a Cuenca, ove si fermarono il puro necessario per ricambiare visite di dovere; quindi presero la direzione di Riobamba e vi giunsero in quindici giorni, valicando il terribile Azuay. La guida non seppe poi imbroccare la direzione verso la casa di un cooperatore e dovettero girare per precipizi spaventosi finché giunsero a una casa abbandonata dove passarono il resto della notte accovacciati su un assito, coprendosi con quanto avevano sul dorso dei cavalli, per cuscino le selle. Al far del giorno, la guida era sparita e dovettero cercarsi un altro indio nei dintorni che si adattò a malincuore, perché si dovevano affrontare tratti ancor più pericolosi per lastre di pietra appena scheggiate, su cui i cavalli sdrucciolavano e si rialzavano a stento. La mula di Don Gusmano tentò tre o quattro volte un’arrampicata con le ginocchia sanguinanti, finché scivolò e il segretario fece appena in tempo a svincolarsi dalle staffe e lanciarsi a terra.

Ora prendiamo un altro esempio e facciamo un salto in avanti fino ai nostri giorni. In Amazzonia c’è un sacerdote di origini austriache ma naturalizzato brasiliano, Erwin Kräutler, classe 1939, il quale è stato nominato vescovo di Xingu da Giovanni Paolo II, e lo è rimasto per sette lustri, dal 1981 (dal 1980 come coadiutore) al 2015, quando ha chiesto di essere sollevato dall’incarico per raggiunti limiti di età (75 anni). È giunto nel bacino del Xingu nel 1965 e dunque vive fra gli indigeni da cinquantasei anni. In tutto questo tempo è sempre stato all’avanguardia nelle lotte a favore degli indios e dei lavoratori agricoli più poveri, per la difesa dell’ambiente, e contro lo sfruttamento sessuale dei piccoli indigeni; lotte che gli sono valse alcune minacce di morte da parte dei proprietari terrieri e degli speculatori finanziari, e il coinvolgimento in un sospetto incidente automobilistico che avrebbe potuto costagli la vita. Tutto questo gli fa onore e merita il nostro profondo rispetto. Se però si passa dall’ambito delle lotte sociali ed ecologiste a quello pastorale, si resta sconcertati da quel che ha fatto, o meglio che non ha mai fatto, secondo le sue stesse affermazioni. Non ha mai cercati di convertire nessuno; non ha mai battezzato un solo indigeno in quarant’anni di attività "missionaria". Ci si domanda se la parola missionario abbia cambiato significato nel corso di una notte, senza che noi ne venissimo informati da chi di dovere. Che significa essere missionario? La Chiesa cattolica deve essere missionaria, oppure è arrivato un contrordine e adesso la parola convertire e la parola battezzare hanno acquistato un’accezione negativa, indicando qualcosa di anacronistico, da evitarsi assolutamente? Eppure Gesù Cristo ha detto chiaramente — Gesù Cristo, non un Papa, o un dottore della Chiesa, o un teologo (Mc 16,15-16): Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. A noi, almeno, sembra piuttosto chiaro; per qualcun altro non lo è? O meglio, non lo è più? Perché la Chiesa ha sempre fatto questo: predicare il Vangelo a ogni creatura e battezzare per la salvezza eterna. Questa è la sua ragion d’essere: per questo è stata fondata da Gesù stesso, per questo esiste, per questo migliaia di martiri hanno dato la loro testimonianza di sangue, nel corso di duemila anni. Ma adesso arriva il vescovo Kräutler e viene a dirci che è sbagliato, che la Chiesa non deve predicare il Vangelo, né battezzare. Chi sta sbagliando, chi s’inganna: Gesù Cristo o Erwin Kräutler? Se poi si viene a sapere che quest’ultimo è stato personaggio di spicco nel recente, famigerato sinodo dell’Amazzonia (quello che ha coinciso con l’intronizzazione della Pachamama in Vaticano); che è stato ricevuto personalmente e complimentato dal signor Bergoglio; che ha contribuito in prima persona alla redazione della enciclica Laudato si’, scrivendone un intero capitolo, il primo, dedicato alla difesa dell’ambiente, il quadro si fa ancora più chiaro.

Questo signore che dice di essere un missionario, ma non ha mai fatto il missionario; che dice di essere un vescovo, ma non ha mai convertito né battezzato una sola anima; che dice di essere un sacerdote di Santa Romana Chiesa, ma non ha mai predicato il Vangelo allo scopo di confermare nella fede, è stato lui stesso a convertirsi ad altri idoli: all’ambiente, al clima, alla foresta, agli indigeni e ai loro culti, stregoni e sacrifici compresi (perché la Pachamama, per chi non lo sapesse, si nutriva di sacrifici umani e, anche se il suo culto proviene dalle Ande e non dall’Amazzonia, è divenuta il simbolo di questo indigenismo estremo pseudo cattolico). È lui che si è fatto convertire da quelli che avrebbe dovuto convertire: si è talmente innamorato di loro e del loro sistema di vita, da scordarsi la ragione per cui, giovane prete, ha lasciato il suo Paese e l’Europa ed è venuto a vivere nel cuore della foresta sudamericana. È rimasto abbagliato, affascinato da quel luogo, da quella gente: e va bene, questo può accadere; ma si è scordato chi è, e cosa deve essere un sacerdote cattolico. Un sacerdote cattolico non è un etnologo o un antropologo; non è un sindacalista o un agitatore politico: la sua funzione non è quella di sostenere le lotte sociali e ambientali, anche se può legittimamente condividerle e simpatizzare per esse; la sua ragion d’essere è la salute eterna delle anime, il che per un cattolico significa la piena e integrale adesione del Vangelo di Gesù Cristo. Piena e integrale adesione vuol dire che non si può credere al Vangelo ma anche alla Pachamama; non si può crede ai Novissimi, al Paradiso e all’Inferno cristiani, ma anche alle pseudo religioni indigene basate sul culto degli spiriti e delle forze della natura. Questo lo fanno gli stregoni; ma un sacerdote cattolico, un vescovo cattolico, non hanno niente a che fare con gli stregoni. Non credono all’acqua e al vento e al fuoco e alle stelle e alla madre terra, ma solo e unicamente a Dio, Padre Onnipotente, purissimo spirito (e non il cosmo in divenire, come per l’eretico Teilhard de Chardin), che si è incarnato in Gesù Cristo e che poi ha mandato il Consolatore fra gli uomini, lo Spirito Santo, che agisce incessantemente nelle anime e nell’intero corso della storia universale. In queste cose crede un qualsiasi cattolico, e non in altre. Non si può credere al Vangelo di Gesù Cristo, ma anche alle idolatrie indigene: le quali, con tutto rispetto, hanno a che fare col Vangelo non più di quanto i sassi del torrente o la sabbia del fiume abbiano a che fare con l’oro purissimo. Se poi si vene a sapere che Erwin Kräutler, il vescovo che si vanta di non aver mai battezzato un solo indigeno, ha ricevuto una quantità di premi, onorificenze e perfino lauree honoris causa da tutta una serie d’istituzioni laiche e laiciste, come il Right Livelihood Award, per i suoi meriti nella lotta per i diritti umani e per la tutela dei valori ambientali, il quadro diventa ancor più chiaro. Come Bergoglio, questo signore è molto amato dai poteri oligarchici, dietro i quali agiscono tali istituzioni: le stesse che mentre versano una lacrimuccia per la sorte della foresta pluviale, scatenano una pandemia per instaurare il Nuovo Ordine Mondiale; e mentre fingono di preoccuparsi per il destino di alcune migliaia d’indigeni amazzonici, progettano l’asservimento e lo sterminio di centinaia di milioni di esseri umani in tutto il pianeta.

No, così non va. Questi non sono operai della vigna santa. E se non sono da Dio, da chi sono allora?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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