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O la Chiesa domina il mondo, o ne viene dominata

La storia della Chiesa, nel corso dei secoli, è in gran parte la storia del tentativo della Chiesa di rendersi indipendente dal potere politico — quello romano e bizantino prima, quello imperiale germanico poi, infine quello degli stati nazionali, da ultima l’Italia — e di come quel tentativo l’abbia necessariamente portata, per la forza delle cose, a cercare d’incarnare lei stessa il supremo potere non solo spirituale, ma anche politico, sì da avere il controllo, o quanto meno la suprema direzione, di ogni potere estraneo che avrebbe potuto minacciare la sua sovranità e la sua autonomia. Insomma solo uno studioso accecato dal pregiudizio anticattolico può sostenere che la Chiesa abbia sempre cercato, soprattutto mediante l’istituto del Papato, il potere per il potere, così, per pura libidine di esercitare la propria supremazia e per trarre da tale situazione i mezzi finanziari sempre più cospicui dei quali riteneva, a torto o a ragione, di aver bisogno, non solo per assolvere le sue funzioni spirituali, ma appunto anche per difendere la propria sovranità, condizione necessaria per esercitare liberamente la sua funzione religiosa. È chiaro infatti, come illustrano soprattutto le vicende del periodo decisivo in cui si svolse tale battaglia per la sua libertà, da Gregorio VII a Innocenzo III a Bonifacio VIII, che il Papato, da sempre impegnato ad affermare la propria autonomia, a partite dalla lotta per le investiture si vide quasi costretto ad attingere a tutte le proprie risorse per emanciparsi una volta per tutte dal potere politico, cosa che lo portò naturalmente a opporsi non solo a ogni disegno politico ghibellino, ma anche al feudalesimo in quanto strumento del potere imperiale mediante il sistema dei vescovi-conti, e quindi a favorire i liberi comuni e il partito guelfo, che a quel sistema si opponevano, e sia pure da una diversa prospettiva e con altre finalità. Poi però si trovò condotto dal suo stesso movimento a non contentarsi della salvaguardia della propria autonomia, ma a puntare più in alto, alla supremazia universale: perché solo così avrebbe potuto risolvere alla radice il problema di un potere politico, quello imperiale, che in qualsiasi momento avrebbe potuto riacquistare forza e tornare a minacciare la sovranità della Chiesa, sia nominando i vescovi, sia determinando l’elezione dei Papi stessi. Perciò la domanda che ci si deve porre non è se la Chiesa, attraverso l’istituto del Papato universale, si lasciò accecare dal demone del potere e volle esercitare una supremazia mondiale che avrebbe finito per ritorcesi contro di lei, snaturandola: perché ciò rientra nella dinamica di qualunque potere che, una volta convinto di doversi espandere sempre di più per ragioni difensive, subisce un’ipertrofia e una sorta di mutazione, divenendo altra cosa da ciò che era; ma se fosse giusta la convinzione dei Papi che la sola via per proteggere l’indipendenza della Chiesa consisteva nell’esercitare in prima persona un potere politico universale, o sovrintendere in linea di diritto a ogni altro potere, cosa che l’avrebbe necessariamente impegnata sempre più nelle cose temporali, con grave pericolo per la sua natura d’istituto spirituale.

Uno studioso che ha affrontato tale questione storiografica in maniera intellettualmente onesta, da un punto di vista peraltro non cattolico, è stato il filosofo Pantaleo Carabellese (Molfetta, Bari, 6 luglio 1977-Genova, 19 settembre 1948), un pensatore in qualche modo di ascendenza postkantiana e rosminiana, cui va senz’altro il merito di aver riaffermato, in tempi di quasi assoluto predominio positivista e idealista, la centralità della ricerca sull’essere e l’idea che la filosofia o è anche metafisica, oppure non è filosofia. Sensibile da sempre all’aspetto teologico del pensiero (aveva frequentato il ginnasio e il liceo presso il seminario), oltre a opere speculative di ampio respiro come Le obiezioni al cartesianesimo (in tre volumi), Da Cartesio a Rosmini. La fondazione dell’ontologismo critico e L’essere e la manifestazione (in due volumi) evidenziò anche, soprattutto agli inizi della sua carriera, un forte passione per la storia, specie in collegamento con i suoi interessi metafisici e religiosi. A quel periodo iniziale appartiene il saggio Sulla vetta ierocratica del Papato, del 1910: un libro oggi pressoché dimenticato, ma a nostro avviso non privo d’interesse anche in chiave di attualità, visto quel che sta accadendo negli ultimi tempi alla Chiesa cattolica nel suo rapporto col potere statale: una svolta che ha sorpreso molti ma che in realtà non era affatto imprevedibile, se la si considera dal punto di vista della dialettica sempre aperta ed irrisolta fra Papato e politica e fra cattolicesimo e realtà secolare, che ha caratterizzato per due millenni, con alterne vicende, la vita della Chiesa.

Scrive dunque Pantaleo Carabellese nel saggio Sulla vetta ierocratica del Papato (Palermo, Sandron Editore, 1910, pp. 15-16):

La Chiesa, strettamene coinvolta nelle spire della vita sociale e politica, e perciò soggetta, nei suoi gradi e nelle sue funzioni più alte, all’intervento sovrano del potere laico, [alla vigilia della lotta per le investiture] non solo non godeva di quella libertà ed indipendenza di funzionamento, che potessero assicurarle il conseguimento incontrastato del fine religioso ed etico che si proponeva; ma anche si erano creati, in tale stato di fusione con la società laica, rapporti tali che dovevano necessariamente danneggiare il suo stesso organismo.

Bisognava dunque togliere la causa del male, se si voleva soppresso il male; bisognava cioè rendere indipendente la nomina così del papa che dei vescovi dal potere politico; BISOGNAVA ASSICURARE ALLA CHIESA UNA VERA E PROPRIA AUTONOMIA. Ed era necessario cominciare proprio dall’elezione del papa. Io credo che Ildebrando, quando accompagnava a Roma Leone IX, aveva già, se non chiara e netta nei particolari, certo determinata nelle sue linee generali la visione di questo scopo che doveva proporsi la riforma. Ed il primo atto di Leone IX, cioè il suo recarsi a Roma privo delle insegne e della pompa pontificia prima che il popolo e il clero di Roma non l’abbia acclamato pontefice, è forse una prova di ciò. Che per tale autonomia abbia poi combattuto Ildebrando durante il suo diaconato, oltreché varie deliberazioni dei vari concili ispirati dal suo pensiero e dalla sua azione, viene dimostrato dal graduale progresso che, nel senso appunto dell’autonomia ecclesiastica, egli ottiene nelle quattro successioni pontificie (Vittore II, Stefano IX, Nicolò II, Alessandro II) che egli ebbe la fortuna di regolare.

A tal punto però non doveva e non poteva fermarsi Ildebrando. Egli è uno di quegli uomini che, o intensificando il sentimento loro individuale nella grande anima collettiva, in modo che questa si personifichi in quello, o correndo imperterriti alle conseguenze logiche nascoste dei principî universalmente accettati o sentiti, compiono una rivoluzione, ovvero creano ed attuano un sistema. Dalla autonomia della Chiesa, voluta nella elezione dei suoi capi, se non era breve, era già ben preparato il passo alla sua supremazia, e per essa, alla supremazia del Papato. Gli ostacoli trovati nella conquista della desiderata autonomia sono le vie che aprono un ben più vasto campo all’attività d’Ildebrando. Se la Chiesa non è la istituzione fondamentale e suprema della società, e se perciò il Papa, che ne è il sommo moderatore, non ha nelle sue mani il potere supremo, dinanzi al quale debba ogni altro, sia temporale che spirituale, sottomettersi, la Chiesa non potrà essere veramente autonoma: dall’autonomia della Chiesa si passa così alla supremazia di essa.

Come è noto, la Chiesa raggiunse il culmine della sua potenza sotto il papato di Innocenzo III, che si caratterizzò come una vera e propria teocrazia, o ierocrazia, universale, con i sovrani e i principi dell’intera Europa che riconoscevano al pontefice il primato indiscusso di chi esercita un potere proveniente direttamente da Dio. Noi concordiamo col giudizio di Francesco Landogna – un illustre storico e dantista sul quale è caduta una vera e propri damnatio memoriae, probabilmente perché fascista e autore, fra molte altre cose, di un Elementi di cultura fascista, del 1934, che la cultura italiana uscita dalla guerra civile e dall’antifascismo militante e perpetuo non gli ha mai perdonato – il quale conclude (in: F. Landogna, Il genio dei popoli. Sommario di storia per gli Istituti tecnici superiori, vol. 3, La civiltà medioevale e moderna, Torino, G. B. Petrini, 1951, p. 124):

Questa inaudita potenza Innocenzo III non la volle a soddisfazione di mire egoistiche d’ambizione o di dominio: MA PER IL TRIONFO DELLA CAUSA CRISTIANA E DELLA CHIESA CONTRO TUTTI I SUOI NEMICI O RIVALI.

Non così il Carabellese, o non del tutto, né per le stesse ragioni; il quale osserva (Op. cit., p. 177):

Così l’eccessivo politicismo è un’accusa che non si può giustamente rivolgere a Innocenzo. Ritroviamo bensì nel suo pontificato un maggiore sviluppo, che non nel pontificato di Gregorio, della parte più propriamente politica; ma detto sviluppo è il necessario effetto del maggiore incremento potere religioso nel senso teocratico datogli da Gregorio VII. Allo stesso modo noi troviamo certo nel pontificato di Gregorio VII una molto più spiccata tendenza ierocratica che non in quello, mettiamo, di Leone I, o di Gregorio I, o di Nicolò I; ma questa più spiccata tendenza ierocratica è l’effetto necessario dell’interpretazione cattolica del cristianesimo. (…)

La necessità, per Gregorio da una parte, di affermare un sistema sociale teocratico, pur partendo da motivi etici e religiosi, per Innocenzo dall’altro, di attuare quel sistema con un indirizzo politico, è spiegata da una unica e identica ragione, come gli stessi ed identici sono i principi operanti nel pensiero dell’uno e nell’azione dell’altro. I principî son quelli di cui noi già sin dall’inizio abbiano cercato di trarre logicamente tutto il gregorianesimo: la concezione religiosa oltremondana della vita ed i versetti biblici dì relativi a Pietro fondatore della Chiesa e depositario, in terra, del potere divino e quindi delle chiavi del Regno dei Cieli. E come nell’Evangelo biblico, a ragione od a torto, realmente voluti e detti ed insegnati da Cristo o non, sono i principi che, sviluppati, dovevano diventare il sistema ierocratico del papato; così nel rapporto che il Vangelo steso ha con l’uomo e con la vita sociale, deve ritrovare la ragione logica precipua del massimo secolarizzarsi della autorità religiosa proprio nel periodo del massimo dominio della religione stessa.

Dunque per il filosofo pugliese il male, per così dire, è alla radice: il cristianesimo essendo una religione contraria alla vita, perché toglie ogni valore alla dimensione terrena e propone il dolore come scopo di essa, non poteva che condurre alla ierocrazia, cioè al tentativo d’imporre con la massima concentrazione di autorità un sistema di vita innaturale e patologico, tale che — dice Carabellese riecheggiando Nietzsche – se il cristianesimo davvero si estendesse al mondo intero, senza più incontrare resistenza, condurrebbe l’umanità all’estinzione, spegnendo ogni forza vitale e ogni speranza nel futuro. Ci sembra il caso di dire che qui lo storico si è fatto prendere la mano dal filosofo: la sua idea preconcetta del cristianesimo lo ha portato a teorizzare una inevitabilità della ierocrazia papale che a noi non pare così scontata. Che il cristianesimo sia una religione contraria ad un sano senso della vita perché esalta il dolore e la rinuncia, è un luogo comune facile da smentire: egli confonde l’accettazione del dolore e la rinuncia quali mezzi di perfezionamento spirituale con una loro esaltazione assoluta. Ma il cristianesimo non nega né disprezza quanto di buono c’è nella vita terrena, tanto è vero che Gesù si è fatto vero uomo, e da vero uomo ha partecipato ai sentimenti umani: si è commosso per gli sposi di Cana rimasti senza vino, ha pianto sulla tomba dell’amico Lazzaro. Che poi, secondo il testo evangelico, la Chiesa sia stata fondata da Pietro, è un’asserzione tale da far dubitare che egli abbia mai letto il Vangelo. Più seria sarebbe l’accusa di un’indebita commistione, nella ierocrazia papale, di spirituale e politico: accusa che il Carabellese tuttavia non fa, convinto che si tratti d’un processo inevitabile date le premesse. Se però si vuol essere equanimi, bisogna convenire che, su questo singolo punto, e fatte salve le questioni teologiche e dottrinali, Lutero aveva ragione, come hanno ragione gli ortodossi (si pensi alla Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij). È innegabile che l’essere stata "adottata" da Costantino, che ne assunse la supervisione, nel momento stesso in cui la emancipava dalle persecuzioni, ha posto sulla Chiesa una gravissima ipoteca politica, che prima o poi sarebbe venuta a scadenza. Ma è anche vero che i Papi erano giustamente preoccupati di preservare l’indipendenza della Chiesa e non c’erano molte alternative a quel che fecero. Però si lasciarono sedurre dall’ebbrezza del potere: questo è indubbio. Ciò fa parte della debolezza umana. Ma lo Spirito Santo non veglia sulla Chiesa? Sì, e infatti essa non ha mai deviato dal retto Magistero per quasi duemila anni, fino al Vaticano II, quando è stata sovvertita con la frode, dall’interno. Ma quanto agli uomini, la carne è debole: è lo spirito che giova.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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