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18 Settembre 2021Storie dimenticate: S. Priamo, la sua chiesa, il culto
19 Settembre 2021Negli Atti degli Apostoli (17,24-28) san Paolo, rivolgendosi agli ateniesi col famoso discorso dell’Areopago, a un certo punto dice:
24 Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo 25 né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26 Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27 perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. ~28~ In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto:
Poiché di lui stirpe noi siamo.
Dunque Dio si rivela a noi in primo luogo con l’evidenza dei sensi, nella bellezza e nell’ordine della natura; subito dopo con la ragione naturale, la quale ci dice che tanta bellezza e un sì meraviglioso ordine non possono essere il frutto del caso, ma devono avere un’origine precisa, e che tale origine non può risiedere se non in una Mente, o uno Spirito, supremamente sapiente e amorevole, che ha profuso i suoi tesori in sovrabbondanza, e ha impresso in loro il proprio sigillo, appunto per dare alle creature un indizio della Sua presenza, affinché lo cerchino e, trovatolo, si appaghino della sua contemplazione e della sua adorazione. Infatti, come dice ancora san Paolo (Epistola ai Romani, 1,19-20)
19 … ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità…
E non solo Dio è riconoscibile come causa prima degli enti e come motore primo di tutto ciò che è soggetto al movimento; ma Lui stesso si manifesta come causa finale, perché attira a sé tutte le cose, e specialmente dopo l’avvento di Cristo esse si protendono verso di Lui come alla loro redenzione finale (Romani, 8, 19-23):
19 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
La bellezza del creato, dunque, come scala per l’ascesa dell’anima verso lo splendore incomparabile del Creatore. Per illustrare questo concetto, scegliamo — fra innumerevoli altre – una pagina di prosa in cui il sacerdote salesiano, missionario ed esploratore Alberto Maria De Agostini (Pollone, Biella, 2 novembre 1883-Torino 25 dicembre 1960) descrive una regione terrestre da lui molto amata, la Terra del Fuoco, mostrando una non comune capacità di evocare, al tempo stesso, le sensazioni e gli stati d’animo che quei luoghi posti quasi ai confini del mondo evocano nel solitario viaggiatore. E veramente egli si rivela poeta e finissimo pittore non solo dei paesaggi naturali, ma anche di quelli interiori, in brani come questo, che è tratto da I miei viaggi alla Terra del Fuoco (Paravia, Torino, 1934; cit. in: Tommaso Pisanti, Argomenti. Antologia italiana con letture epiche per la scuola media, Napoli, Loffredo Editore, 1968, pp. 382-384):
La mano del Creatore sembra abbia profuso con speciale larghezza i suoi tesori di bellezza radiosa, riunendo in poco spazio quanto di più particolare e meraviglioso si trova nelle diverse e lontane regioni del mondo, presentandole in una armonica composizione di parti, in una ammirevole fusione di linee, di luci e di colori.
A settentrione ed a levante, estese pianure, la pampa sconfinata che produce nell’animo una profonda suggestione di mistero, un senso vago e piacevole dell’infinito e dell’ignoto.
"Nella zona centrale le pianure vanno gradatamente trasformandosi in una verde distesa di boschi, di serre, di colline, fra cui si aprono piccole valli deliziose; è scomparsa tutta la monotonia di linee e di colori della pampa, ed ora il paesaggio si presenta gaio e festoso sotto la forma d’un esteso parco infinitamente vario e ricco di incantevoli panorami.
Macchie verdeggianti di arbusti artisticamente aggruppati, come da mano maestra, lasciano fra di loro numerose radure in forma di eleganti viali, serpeggianti in volute graziose, praticelli ameni, ingemmati qua e là di placidi laghetti, nelle cui acque si specchia con mille vezzi e arcane linee di bellezza la esuberante foresta magellanica. In quei verdi pianori tappezzati di rigogliosi pascoli, irrorati da fonti cristalline, vanno errando tranquillamente numerosi branchi di guanachi e vive ancora l’ultimo residuo della forte razza degli Indi Ona, dalle forme eleganti e atletiche. Quivi più non rugge né sibila il vento della pampa, ma dimora il profondo silenzio della selva che impressiona fortemente e accresce solennità e mistero a quelle solitarie e remote regioni.
Poco più in basso, a Sud e a Ovest, la catena massiccia della Cordigliera, estremo lembo delle Ande, lancia ad altezze imponenti candide e ardite vette coronate di geli eterni; e poscia va spezzandosi in centinaia di insenature, baie e pittoreschi fiordi ed anfratti, dove le acque del mare penetrano, per decine di chilometri, fra altissime e dirupate pareti, rivestite di fitta vegetazione e solcate da argentei nastri di pittoresche cascate.
Nei solitari recessi della Cordigliera, in mezzo a questo intricato labirinto di canali, appariscono i contrasti più sorprendenti, le più straordinarie manifestazioni del bello.
Foreste sempre vergini di faggi, mirti, cipressi e magnolie di un verde intenso e perenne, fanno stupenda cornice a ghiacciai eterni, che discendono dall’alta montagna in immani pareti di seracchi bianco-azzurri fino a lambire e precipitare nelle acque del mare; una vegetazione che evoca le regioni tropicali, circoscritta da bracci di mare percorsi in piena estate da ghiacci galleggianti, rallegrata dal chiassoso strido del pappagallo equatoriale e dal cupo e monotono boato del pinguino antartico.
Più ad occidente sparsi ai piedi della Cordigliera, si staccano, quali sentinelle avanzate, una infinità di isolotti, di irsute scogliere, scheletriche, fantastiche, in lotta perenne contro le onde inferocite dell’oceano, che su di esse si spezzano in colonne formidabili di bianca schiuma, mentre alle loro basi, corrose dalla forza demolitrice del mare, profonde caverne e antri solitari danno rifugio a migliaia di cormorani, di lontre, di fochi e leoni marini i cui ruggiti superano lo strepito delle onde che si infrangono nelle scogliere.
E fra questa magnificenza e imponenza di paesaggio di un bello orrido e sublime, vive una misera popolazione di indiani ormai in avanzata estinzione, i Yagan, che passano la vita sulle piccole canoe, navigando di spiaggia in spiaggia, in cerca del quotidiano alimento, lanciandosi anche talora fra i burrascosi mari del capo Horn.
È una verità indiscutibile che la Terra del Fuoco possiede paesaggi e panorami tanto grandiosi da poter competere coi migliori delle nostre Alpi; i suoi numerosi fiordi sono pari, se non superiori, a quelli tanto decantati della Norvegia, e per quanto la rigidezza del clima lo permette, essa si può annoverare fra le più pittoresche regioni del mondo.
Ma disgraziatamente sopra questa meravigliosa regione si scatenano i venti e le tempeste con violenza inaudita e gravita un cielo sempre fosco, lugubre, impregnato di un denso strato di vapori che i raggi del sole di rado riescono a dileguare per dare vita e splendore alla magnificenza della natura.
È appunto dai vani di questo denso velario, specialmente nelle calme mattutine o nelle placide ore dei tramonti, che la luce del sole, scapricciandosi nelle gamme dei colori più delicati, sorprendenti, inverosimili, cullata da morbidi e fantastici strati di nubi che si trasformano ad ogni istante, offre i più superbi e suggestivi spettacoli.
Sopra tutto quest’incanto del paesaggio domina però uno spirito di morte, un silenzio che opprime; anche quando il sole brilla nella magnificenza dei suoi colori e spande all’intorno calore e vita, anche quando la luna accarezza soavemente di bianca luce le acque tranquille del mare o le aspre pendici dei monti, sempre traspare un bello, grandioso sì, ma velato di tristezza.
Come si vede, dallo splendore e dalla magnificenza delle immagini che aprono il brano si passa, alla fine, ad una nota decisamente malinconica, per non dire triste: perfino nelle migliori condizioni atmosferiche, non troppo frequenti a quelle latitudini; perfino quando il sole spende alto nel cielo e i boschi brillano nella veste lucente del loro fogliame, fra cui spiccano le bacche colorate e si stagliano gli elegantissimi ricami delle felci arborescenti, un velo di tristezza pare avvolgere quelle vaste solitudini, nei cui cieli volano solo poche specie di uccelli, talché regna ovunque un silenzio quasi innaturale, rotto solo dal soffiare del vento. Né questa sensazione dipende unicamente dal particolare luogo geografico che qui viene descritto: essa affiora sempre, in ogni luogo, anche il più ameno e ridente, perché se la natura è il riflesso della sublimità del Creatore, è pur vero che la riflette per mezzo di una superficie opaca e imperfetta, tale da accrescere piuttosto che placare e soddisfare il desiderio del pieno appagamento spirituale.
Il pensiero corre inevitabilmente a quell’altro brano di prosa, scritto da Giacomo Leopardi nello Zibaldone il 19 aprile 1826, a Bologna:
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta.
Anche se Leopardi certamente esagera, perché è evidente che per evitare qualsiasi tipo di sofferenza bisognerebbe essere morti, nel qual caso però non vi sarebbe neanche alcun tipo di gioia (mentre lui vorrebbe queste senza quelle), è pur vero che la pace perfetta, l’appagamento perfetto non esistono nel mondo di quaggiù; e che anche il più bel paesaggio riflette, sì, lo splendore del Creatore, ma in maniera limitata e imperfetta, come tutto ciò che appartiene alla dimensione di quaggiù. Ecco allora che la bellezza della natura agisce su noi in due sensi: da un lato ci affascina, ci esalta, ci rapisce, come hanno sperimentato generazioni di artisti, quasi trasportandoci in un altro mondo, fatto di pure emozioni; dall’altro ci fa avvertire il senso del limite, dell’incompletezza e con ciò stesso ci predispone a cercare la vera bellezza là dove il tempo non modifica le cose, né le fa invecchiare o le corrompe. È come quando ci sentiamo felici, senza una ragione precisa; e poi, senza una ragione, ecco la noia, la tristezza. Ciò accade perché il senso interno ci rammenta dov’è la nostra vera patria…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash