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Il 95% di ciò che sappiamo è filtrato dalla massoneria

Una tipica illusione dell’uomo moderno, e dell’uomo di cultura non meno che di quello della strada, è di sapere, o di poter sapere, nel senso di conoscere in maniera adeguata, ciò che appartiene allo scibile umano, semplicemente consultando i libri, frequentando le aule scolastiche e poi quelle universitarie, ascoltando le conferenze pubbliche o private. In altre parole: il sapere è lì, a disposizione di chiunque abbia tempo a disposizione e una certa dose di buona volontà per abbeverarsi alle sue fonti: quel che la cultura sa, viene offerto a tutti; ciò che le varie scienze hanno appurato, è messo alla portata del pubblico. Perciò, se uno sa poco, o magari non sa nulla, deve solo darne la responsabilità a se stesso: gli è mancata una motivazione sufficiente per colmare la propria ignoranza. È quasi incredibile che anche la stragrande maggioranza delle persone colte la pensi in questo modo. Se si parla di un argomento culturale qualsiasi, poniamo le origini della Seconda guerra mondiale, oppure la teoria del Big Bang, o ancora l’evoluzione delle specie, l’uomo colto dà per scontato che infornarsi e istruirsi sia solo questione d’impegno individuale: gli strumenti per sapere le cose ci sono, e sono alle portata di chiunque; oggi non è come una volta, e anche chi proviene dalle classi umili ha qualche possibilità in tal senso, ad esempio vincendo una borsa di studio e ottenendo l’iscrizione gratuita ai corsi universitari.

Ebbene, tutto questo non è vero; o, quanto meno, non lo è più. In realtà, quello che sanno gli uomini di oggi, cioè quello che hanno appreso a scuola o all’università, o leggendo i giornali, o ascoltando la televisione, o leggendo la maggior parte dei libri, è frutto di un’attenta selezione: è passato ciò che ha voluto la massoneria, legata al potere occulto della grande finanza; non è passato ciò che ad essa dispiace. E anche quel che è passato, è passato in maniera tale da servire ai suoi fini e da determinare una certa percezione del reale: che non è certo oggettiva, e sia pure tendenzialmente oggettiva. Per fare un esempio: i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie e del liceo apprendono che l’unità d’Italia è stata fatta dai patrioti; che il Risorgimento ha visto emergere la forze sane della nazione; che Garibaldi era un eroe senza macchia e senza paura e Cavour uno statista raffinato e scaltrissimo. Non viene detto loro che la stragrande maggioranza degli italiani è rimasta estranea all’unità; che essa è stata fatta dalla massoneria, contro la Chiesa e contro il sentimento religioso del popolo italiano; che la Spedizione dei Mille è stata un’aggressione banditesca diretta contro uno Stato internazionalmente riconosciuto; che i plebisciti tenuti nelle varie regioni sono stati una burla; che Garibaldi odiava la Chiesa e voleva distruggerla, tanto da definire il papa Pio IX, quando ebbe notizia della sua morte, un metro cubo di escrementi; che nel 1915 furono arrestati e deportati, come nemici, centinaia d’italiani abitanti nelle regioni confinarie dell’Imperi austriaco, e in particolare numerosi preti cattolici; che Trento, Trieste e Gorizia furono annesse senza consultare le popolazioni; che la stessa massoneria che spingeva il governo sabaudo ad espropriare chiese, chiudere conventi e sopprimere ordini religiosi, quando trovava uno statista cattolico particolarmente fastidioso, come l’ecuadoregno Garcia Moreno, non esisteva a farlo assassinare. E questo per limitarci alla storia politica; ma una selezione analoga, o una manipolazione simile, sono state fatte per ogni singola disciplina, in ogni ambito del sapere. Per cui un ragazzo di liceo si fa l’idea che l’Italia degli anni ’20 e ’30 non avesse un intellettuale più geniale di Antonio Gramsci, né, negli anni del dopoguerra, un pittore più grande di Guttuso, o un romanziere più moderno di Alberto Moravia, o un poeta e un saggista più acuto di P. P. Pasolini; né, infine, la Chiesa degli anni ‘060, un prete più umano e lungimirante di don Milani; così come oggi non ha un filosofo più illustre di Galimberti, o un giornalista migliore di Paolo Mieli, o un regista più memorabile di Nanni Moretti, e così via. Ora, non è che gli "altri", cioè le figure appartenenti ad un diverso ambito culturale, specialmente i cattolici, siano poco ricordati: non sono ricordati affatto; a scuola non si studiano, la tivù non ne parla, e così il grande pubblico non sa neppure i loro nomi. Provate a parlare di Nicola Lisi, Domenico Giuliotti, Piero Bargellini, Tito Casini, Bonaventura Tecchi, a uno studente liceale d’oggi; provate a dirgli che Il cavallo rosso di Eugenio Corti merita forse di essere letto più di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, o che le poesie di Siro Angeli non la cedono per niente a quelle del Gruppo 63.

Per supportare la nostra affermazione, scegliamo un esempio fra tanti: quello del pittore Noè Bordignon, del quale ci eravamo già occupati (cfr. il nostro articolo: Un quadro al giorno: La mosca cieca" di Noè Bordignon (1873), pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/01/09 e ripubblicato sull’Accademia Nuova Italia il 14/10/17). Bordignon è stato un grande pittore, ma il vasto pubblico non lo conosce per niente, neppure nella sua terra: la sua fama non è mai veramente "decollata", nonostante i suoi meriti artistici, perché inviso alla massoneria. Scrive Luigi Dal Bello a proposito di questo aspetto della vita e della (mancata) carriera del pittore trevigiano (in: Paolo Rizzi, Noè Bordignon, pittore veneto (1841-1920), Edizione privata, Venezia, 1982, p. 21):

Durante il periodo veneziano [dal 1885 al 1891] si afferma ulteriormente la fama del pittore. Ma il suo inserimento come artista nell’ambiente accademico non è facile. Incontra l’opposizione dei rappresentanti più autorevoli della Biennale, che contestano le sue opere. Respinti i quadri "Pappa al fogo" e "Interno della Chiesa dei Frari", il pittore li invia all’Esposizione di Parigi, dove vengono premiati con medaglia d’oro. Vari sono i motivi del rifiuto da parte degli esponenti della Biennale, derivanti soprattutto — secondo le testimonianze – dalla personalità dell’artista, che non accetta compromessi con i suoi colleghi. Lui stesso afferma, ormai vecchi, «che il Ciardi lo invitò con insistenza ad affiliarsi alla massoneria se voleva far strada»; ma non accettò e si oppose con coerenza anche con la sua fede cattolica (Bernardi).

Se da un lato però si vede disatteso dall’Accademia, dall’altro può partecipare a mostre in varie città italiane ed estere: a Parigi, Esposizione Internazionale, nel 1878 ("Fanciulli che cantano", opera premiata);a Torino nel 1880 ("Fanciulle che cantano nella valle" e "Ritorno dalla scuola"); a Firenze nel 1883; di nuovo a Torino nel 1884 ("Lucrezia degli Obizi"); a Venezia nel 1887; a Roma presso la Società Amatori e Cultori di Belle Arti nel 1889 ("Scarpette nuove"); a Berlino nel 1894 ("La cresima", opera premiata); a Sassari nel 1895 ("Età beata"); ancora a Torino nel 1898 ("Inizio alla carriera", "Modella in posa", "Partita a carte"); a Liverpool "Interno di Santa Maria dei Frari a Venezia, premiata con medaglia d’oro di primo grado); a Milano nel 1900; a New York nel 1902; in Cile nel 1902; a Firenze nel 1907 e nel 1908; a Berlino nel 1910 e nel 1911; ancora a Monaco, a Bruxelles, a Lipsia, a Vienna, a Palermo.

Si afferma in questo modo come artista, facendosi conoscere a livello internazionale e riscuotendo apprezzamento ed interesse per il suo stile dalla critica mondiale (…)

Nel frattempo il contrasto col Ciardi si acuisce. A causa di un diverbio con quest’ultimo, l’artista viene accusato di provocazione ed insulti, ma viene assolto dal tribunale. Le opposizioni però non terminano, tanto da indurlo ad abbandonare Venezia ed a ritirarsi a San Zenone, terra d’origine della famiglia, che gli riprometteva l’affetto delle persone semplici.

La notizia sull’invito di Guglielmo Ciardi (1842-1917) ad affiliarsi alla massoneria è stata dunque raccolta dal parroco di San Zenone degli Ezzelini, il quale, arrivato in paese nel 1917, era entrato in confidenza col pittore settantaseienne e l’aveva ricevuta dalla sua stessa bocca. Il trasferimento forzato di Bordignon da Venezia a San Zenone, con tutta la famiglia, in seguito alla persecuzione del Ciardi — ché tale si deve considerare, visto l’accanimento con cui lo volle trascinare in tribunale, e da porre certamente in relazione con l’atteggiamento di totale chiusura verso di lui delle autorità della Biennale — è stato dunque il risultato del rifiuto da parte di quest’ultimo di aderire alla richiesta, aggravato, agli occhi del Ciardi, dalla motivazione religiosa: per cui è facile vedere come l’atteggiamento di quest’ultimo sia passato dall’amicizia, o quanto meno dal tentativo di attirare Bordignon nella propria loggia, alla più acre ostilità e al risentimento più implacabile. Sta di fatto che un insigne pittore veneto, che la sua terra avrebbe avuto ogni ragione di onorare e valorizzare, agevolandone la carriera e la notorietà, in pratica si vide rifiutato ed escluso: non dalla gente semplice che egli tanto amava e che rappresentava senza leziosità nei suoi quadri, ma dall’establishment culturale e dalle autorità accademiche; e questo mentre all’estero, e segnatamente all’Esposizione di Parigi, le sue opere non passavano inosservate, ma ricevevano attestati e vincevano premi di prima classe. Dunque, la massoneria ha posto il veto sulla carriera e sulla diffusione della fama di Noè Bordignon ed è riuscita a confinarlo in un ambito ristretto, dal quale è uscito, sì, grazie alla partecipazione ad alcune mostre internazionali, ma senza che ciò gli aprisse le porte per una più incisiva presenza a livello nazionale, o ne stabilisse durevolmente la fama. Sicché molti suoi lavori sono rimasti sotto forma di affreschi in una quantità di chiese della provincia di Treviso, dalla stessa San Zenone fino a Sarmede e Montaner, alle pendici del Cansiglio, mentre i quadri sono dispersi in varie collezioni private, e il suo capolavoro, La pappa al fogo, è di proprietà di una banca e, quando ci siamo recati sul posto per ammirarlo, dopo una certa attesa ci fu risposto che non era possibile perché non c’era nessuno del personale che potesse accompagnarci. Buono per la polvere, ma non per gli sguardi del pubblico: e ciò a distanza di un secolo dalla scomparsa dell’artista. Laddove chi voglia ammirare le opere di Ciardi, Favretto, Nono, non trova alcuna difficoltà a reperirle nelle gallerie dei musei; e naturalmente si forma l’idea che quella è stata la pittura veneziana di fine ‘800, quella e non altra. Se invece si confrontano lo stile e i temi delle opere di Bordignon con quelli degli altri, si vede subito in cosa sta la differenza: per i cari artisti massoni, quel che conta è la rappresentazione della realtà secondo il loro particolare sentimento, e, nel caso della vita popolare, nella prospettiva di un bozzettismo un po’da cartolina; mentre il nostro aveva una concezione spirituale della vita e del mondo, amava rappresentare scene di storia sacra o soggetti religiosi, e quando dipingeva la campagna e la gente del popolo, lo faceva con l’intima partecipazione di chi condivide tutto di quel mondo, anche l’atteggiamento di fronte alla vita, e quindi non vede mai le cose come fine se stesse, ma sempre come rinvio a qualcosa d’altro, di spirituale. Nella Pappa al fogo, per esempio, la scena commovente di un interno domestico poverissimo, col pavimento della cucina in terra battuta, la giovane madre seduta presso il focolare, coi due bambini in attesa che il desinare sia pronto, ha la dolce solennità e la semplice bellezza di una Madonna laica, e tutta l’atmosfera raccolta e soffusa di sacralità esprime la sensibilità di una gente abituata ai sacrifici e alla vita dura, mai però dimentica della dimensione verticale dell’esistenza, mai ridotta a identificare se stessa, la propria casa, il proprio lavoro e il proprio povero desco con la totalità dell’esistente. E siamo perciò convinti che proprio questo quid, questo senso religioso della vita, questa capacità di scorgere, fra le pieghe delle cose quotidiane e delle persone comuni, pur realisticamente rappresentate, il mistero dell’anima, sia stato l’elemento che ha tanto indispettito i dirigenti della Biennale di Venezia, per i quali ogni richiamo alla fede religiosa era un atto di superstizione e un elemento retrogrado, che andava eliminato per non ostacolare le magnifiche sorti e progressive della modernità, sotto lo sguardo attento delle logge, coi loro compassi e grembiulini.

Questo, ripetiamo, è solo un esempio fra mille, fra diecimila. Quello che sappiamo della cultura italiana non rispecchia fedelmente la realtà dei fatti, ma è il risultato di una selezione e di una manipolazione occulte, che agiscono a monte del nostro sapere; così come le notizie che apprendiamo dai giornali e dai telegiornali sono selezionate prima di essere "notizie", cioè prima di arrivare nelle tipografie e sul piccolo schermo. Noi crediamo di sapere e di essere informati, ma sappiamo solo ciò che vuole il potere: e il potere, oggi più che mai, è quello massonico, che odia la Chiesa, odia il Vangelo e odia Gesù Cristo. Così, poco a poco, le gente viene indottrinata senza saperlo; e anche la maggior parte dei liceali diplomati col massimo dei voti, e dei laureati che hanno ricevuto la lode, ignorano un sacco di cose, nel loro stesso ambito di studi, per la sola ragione che il potere ha saputo fare in modo che le ignorino. E perché Draghi può dire una bugia così sfrontata come questa: Chi non si vaccina muore e fa morire? Perché Mattarella può dire un’altra menzogna vergognosa come questa: Chi non si vaccina non deve invocare la libertà, perché mette in pericolo gli altri? E perché Bergoglio, il più inescusabile, può dire impunemente: Chi non si vaccina è un negazionista suicida? Perché sono sostenuti dal potere massonico, che controlla tutti i giornali e i telegiornali, e che adesso controlla pienamente anche il Parlamento, i partiti, gli organi di garanzia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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