La società ha bisogno di persone capaci di dominarsi
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17 Settembre 2021Il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nella storia politica d’Italia è uno di quegli argomenti complessi e spinosi, coi quali tuttavia è necessario presto o tardi fare i conti, perché dall’opinione che si forma su di esso, e dal giudizio che ne ricava, dipende gran parte della propria concezione complessiva della vicenda nazionale italiana. Al tempo stesso, è uno di quei temi che surriscaldano gli animi perché attirano immediatamente le simpatie o le antipatie ideologiche degli studiosi, sia italiani che stranieri: al punto che lo si potrebbe assumere quale campione per valutare la sincerità e l’onestà intellettuale di un determinato studioso e la sua capacità di porsi in maniera serena e obiettiva di fronte alla materia storica. A maggior ragione si tratta di un modo essenziale per il filosofo della storia, dal quale non può esimersi di svolgere una riflessione: perché la filosofia della storia nasce dallo sforzo di trarre conclusioni e idee generali dallo studio degli uomini, delle situazioni e dei fatti concreti e non da improbabili entità come lo Spirito assoluto o lo Spirito del mondo, delle quali hanno cognizione solo i filosofi idealisti, come Fichte o Hegel, per la buona ragione che sono il frutto di elucubrazioni della loro mente, e dei quali i comuni mortali nulla sanno né possono sapere, visto che i suddetti filosofi si tengono ben strette le chiavi per entrarvi e non lasciano passare alcuno, se non alle loro (folli) condizioni.
Fra gli studiosi stranieri, J. C. Léonard Sismonde de Sisimondi e Ferdinand Greogrovius spiccano per la severità del giudizio espresso nei confronti del ruolo svolto dalla Chiesa nella storia d’Italia, che essi giudicano in maniera pressoché totalmente negativa. Protestanti entrambi, non stupisce troppo il loro atteggiamento (che suscitò, nel caso di Sismondi, la vivace reazione di Manzoni). A loro si può aggiungere Leopold von Ranke, altro storico protestante, al quale si deve l’invenzione del termine "controriforma", che tanto ha pesato in senso ideologico deteriore nella valutazione del cattolicesimo tridentino. Restando nell’ambito degli studiosi italiani, il problema era stato posto, e in termini non molto dissimili, dai due massimi studiosi del Rinascimento, Francesco Guicciardini (1483-1540) e Niccolò Machiavelli (1469-1527). Entrambi avevano svolto un ruolo attivo nelle complicate e drammatiche vicende politiche italiane durante i primi decenni del XVI secolo, l’uno al servizio della Chiesa, l’altro quale funzionario della Repubblica fiorentina; entrambi avevano assistito con sdegno impotente al declino della libertà italiana e all’affermarsi del potere straniero, sotto la forma della monarchia spagnola; ed entrambi erano giunti alla conclusione che il cattivo genio che aveva favorito la catastrofe dell’indipendenza degli Stati italiani e la decadenza del senso civico e patriottico fra le popolazioni era stato il potere temporale della Chiesa e, più in generale, il cattivo esempio morale dato agl’italiani dai costumi del clero. Guicciardini, nei suoi Ricordi, a un certo punto sbotta a dire:
Tre cose, scrive, desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutt’i barbari e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti.
Il giudizio di Machiavelli, che è un filosofo della storia più che uno storico, è molto simile; ma si articola su due piani distinti, anche se contigui e comunicanti. Sul piano strettamente politico, egli vede nella Chiesa un fattore di corruzione morale, perché ritiene che essa abbia infiacchito la tempra del popolo italiano attraverso una vera e propria distorsione del Vangelo, operata dal clero allo scopo di favorire di favorire la passività e l’infingardaggine delle masse e così poterle dominare più facilmente. Sul paino storico, egli rimprovera alla Chiesa di non aver avuto forza bastante per sottomettere e unificare la Penisola, ma di non aver tollerato che altri si provasse a farlo, per timore di trovarsi sottomessa ad un potere politico vicino e incombente, preferendo semmai un potere straniero e lontano. E cita, in particolare, il caso dei Longobardi, fermati e sconfitti da Carlo Magno su richiesta di papa Adriano I, e quello dei Veneziani, contro i quali papa Giulio II chiamò a raccolta tutte le maggiori potenze dell’Europa continentale nella Lega di Cambrai (salvo poi rendersi conto d’aver sbagliato i suoi calcoli e cercare precipitosamente di modificare la propria linea politica, avendo compreso che la vera minaccia incombeva dalla parte della Francia). D’altra parte, più che un filosofo della storia in senso stretto, Machiavelli è essenzialmente un filosofo della politica: la storia gl’interessa nella misura in cui offre strumenti per comprendere i meccanismi del potere e i pro e i contro delle varie forme di governo: repubblica, monarchia, tirannide. La religione è da lui vista come una sottovariante della storia, e a sua volta gl’interessa nella misura in cui offre vantaggi o svantaggi dal punto di vista del governo, ossia come instrumentum regni. La sua idea è che un popolo religioso è più sereno, più felice, più mansueto, il che è un bene dal punto di vista dello Stato: e così sarebbe anche per la religione cristiana. Il problema, secondo lui, è che la Chiesa ha stravolto il messaggio di Cristo e l’ha piegato ai suoi fini, accentuando nei fedeli degli atteggiamenti negativi della passività, della rassegnazione e della fiacchezza. È una critica che somiglia a quella successiva tanto di Marx che di Nietzsche, a quest’ultima specialmente.
Scrive dunque il Segretario fiorentino nel Principe (I, 12; da: N. Machiavelli. Antologia e discorso storico, a cura di Raffaello Ramat, Napoli, Edizioni Glaux, 1957, pp. 157-158):
… E perché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime le quali secondo me non hanno repugnanzia [non possono essere confutate].
La prima è che per gli esempli rei di quella corte questa provincia [cioè l’Italia] ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché così come dove è religione si presuppone ogni bene, così dove quella manca si presuppone il contrario. Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati sanza religione e cattivi.
Ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda ragione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una repubblica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. Ela cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella una repubblica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l’abbia potuto occupare la tirannide d’Italia [divenire signora assoluta d’Italia] e farsene principe, e non è stata, dall’altra parte, sì debile che per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Magno la ne cacciò i Longobardi che erano già quasi re di tutta Italia, e quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza a’ Viniziani con l’aiuto di Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi con l’aiuto de’ Svizzeri.
Non essendo adunque stata la Chiesa potente da poter occupare la Italia, , né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo, ma è stato sotto più principi e signori, da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obligo con la Chiesa, e non con altri.
E chi volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l’autorità che l’ha in Italia, in le terre de’ Svizzeri, i quali oggi sono solo popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi; e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte che qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.
La critica di Machiavelli si articola sul piano morale e sul piano politico: consideriamo dunque separatamente i due aspetti.
Primo aspetto: l’asserzione che a causa della Chiesa gli italiani sono divenuti senza religione, cioè hanno perso la fede, e cattivi. È giusta e legittima, questa critica? A nostro avviso, qui Machiavelli, che è un temperamento aristocratico (appunto come Nietzsche, e come lui un grande ammiratore degli antichi) estende arbitrariamente le sue impressioni personali, che si riferiscono alla cerchia delle élites dominanti, con l’insieme del popolo. Non si dimentichi che tutto il Rinascimento è un feiomeno di élite: è opera di alcune decine, al massimo di alcune centinaia di uomini: principi, papi, artisti, scrittori, scienziati, filosofi e filologi. Il popolo non vi partecipa, non ne è neppure sfiorato; del resto, un suo coinvolgimento non sarebbe gradito. E mentre tali élites sono in buona parte senza religione, nel senso descritto da Machiavelli, non riteniamo che questa nozione si debba estendere all’insieme del popolo, formato soprattutto da contadini, poi da mercanti, per i quali la religione è una cosa seria e quindi una cosa viva. Il XVI secolo ha prodotto una schiera di mistici e di santi, che hanno ravvivato moltissimo la fede del popolo: san Francesco da Paola (1416-1507), Angela Merici (1474-1540), san Gaetano da Thiene (1480-1547), san Girolamo Emiliani (1486-1537), san Filippo Neri (1515-1595), san Carlo Borromeo (1438-1584) san Luigi Gonzaga (1568-1591), lo stesso papa Pio V (1504-1572) e molti altri, parecchi dei quali di estrazione aristocratica. Ma il Segretario fiorentino, per la sua stessa forma mentis non presta alcuna attenzione questa vitalità religiosa: per lui, la Chiesa è la tomba del vero cristianesimo. Però non argomenta, non dimostra, non si confronta coi fatti: il suo istintivo disprezzo per il vulgo, e specialmente per la gente di campagna, lo porta ad ignorare tali realtà, che pure formano l’ossatura della società italiana. Una cosa è certa: a quel tempo la devozione popolare era ancora molto forte e radicata, e se è vero che la devozione popolare non attesta, di per sé, l’intimo e puro sentimento religioso di una società, è altrettanto vero che si accompagna ad esso e ne costituisce la parte più visibile, anche se talvolta mescolata ad elementi rozzi e perfino superstiziosi. Sarebbe tuttavia un errore ignorala o disprezzarla: la gente semplice adora Dio e venera i santi come sa e come può: ma Dio solo è giudice della reale purezza e sincerità della sua fede; e del resto ricordiamo le parole di Gesù (Mt 11,25-26): Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre: perché così è piaciuto a Te. E se il sentimento religioso è rimasto vivo tra le masse lo si deve al clero: anche qui Machiavelli ha il torto di dire Chiesa mentre sta pensando all’alto clero corrotto, intrigante e simoniaco. La sua avversione per la Chiesa lo induce perciò a formulare un giudizio che non è argomentato né giustificato; né potrebbe essere altrimenti, visto che della Chiesa gli sfugge completamente la natura soprannaturale, e della stessa religione (ammesso che una religione possa reggersi senza una struttura organizzata) apprezza sì la funzione spirituale, ma solo come utile supporto del potere politico.
Secondo aspetto: la Chiesa come ostacolo decisivo alla formazione dell’unità nazionale. Qui è difficile dargli torto: bene o male, la Chiesa ha creduto di poter esistere solo subordinando a sé il potere politico, o magari accettando — con sofferenza – la propria subordinazione, mai però su di un piano totalmente separato dalla realtà politica. Il che l’ha resa timorosa di dover convivere con un potere laico forte, quello di un’eventuale Italia unita (vedi le lotte furibonde contro Federico II di Svevia), mentre da se stessa non era abbastanza forte per creare lei un potere statale coincidente con l’intera Penisola; e del resto ciò sarebbe stato in contrasto con la sua missione universale. Pertanto, è vero che l’esistenza della Chiesa ha ostacolato oggettivamente la formazione dello stato nazionale. Ciò riconosciuto, bisogna pur dire che molto altri fattori, non meno forti, rendevamo difficilissima un’eventuale unificazione. Mentre in Francia, in Spagna e in Inghilterra si formavano le monarchie nazionali su una base preesistente assai antica, in Italia il potere politico è sempre stato frammentato e quando il comune si trasformò in signoria, le signorie più forti e capaci d’espandersi ulteriormente si trovarono sempre la strada sbarrata dalla coalizione di quelle più deboli. Inoltre non sarebbe giusto scordare che l’esistenza del papato fece di Roma, per la seconda volta nella storia, la capitale del mondo, sia pure stavolta in senso religioso e simbolico-politico: tanto che gl’imperatori tedeschi non si sentivano tali se non venivano a farsi incoronare dal papa. E ciò ha pure significato qualcosa…
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