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18 Settembre 2021Se c’è una parola che, da qualche tempo a questa parte, viene terribilmente abusata nel linguaggio comune, è autenticità, col suo relativo aggettivo, autentico. Tutti dichiarano ad ogni pie’ sospinto — quasi excusatio non petita — di essere autentici e veraci: perfino i concorrenti di squallidi reality televisivi come Il grande fratello e L’isola dei famosi. E poco importa se l’aspetto stesso di tali personaggi smentisce, più e meglio di qualsiasi discorso, una simile pretesa: il piatto, banale, assoluto conformismo che traspaiono nell’acconciatura, nell’abbigliamento e in tutto il modo di porre la propria persona, dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi. Né si venga a dire che queste sono solo le apparenze e che una persona può benissimo essere autentica, pur seguendo l’ultima moda: sarebbe come dire che una persona può essere pacifica anche se viene scossa da continui accessi d’ira, o che una persona ama gli animali anche se veste pellicce di volpe o di visione e adora sfoggiare borsette di coccodrillo. No, non è possibile: se si è autentici, non si segue affatto la moda, tanto meno la moda più stupide ed effimera dell’ultima ora: perché essere autentici significa essere se stessi; e come può essere se stesso chi studia il proprio apparire in relazione all’effetto che può suscitare sugli altri?
Diamo allora una definizione di autenticità. È autentica una persona che non solo è se stessa, ma che è pienamente cosciente di essere quel che è, pregi e difetti inclusi; e che in qualche misura è soddisfatta di essere quel che è, pur coltivando in sé il desiderio di ridurre o contenere i difetti e di potenziare ulteriormente i pregi. Laddove pregi e difetti vanno intesi non in senso puramente soggettivo: perché sarebbe troppo comodo, ad esempi, considerare "pregio" una supposta qualità che gratifica chi la possiede, ma riesce molesta al prossimo; così come sarebbe sbagliato giudicare difetto un’altra qualità che, pur se vissuta con una certa sofferenza, nondimeno ha la proprietà di far crescere il livello di empatia con le persone che sono in relazione con lei. In altre parole, il criterio per giudicare i propri pregi e difetti non può essere meramente soggettivo: perché se lo fosse, allora ciascuno stabilirebbe cosa è bene e cosa è male, magari calpestando gli altri e ingannando anche se stesso; ma deve essere il più possibile oggettivo, cioè misurabile in base ai frutti che produce nella vita di relazione, oltre che nella vita interiore di quella persona.
Qui abbiamo sfiorato un tasto delicato. Abbiamo affermato che per essere persone autentiche bisogna conoscersi e approvarsi, o almeno accettarsi: il che si presta a un certo margine di ambiguità, che ora vedremo di eliminare. Se una persona sente come un difetto la propria eccessiva arrendevolezza, ma, di fatto, gli altri percepiscono quella caratteristica come disponibilità, allora il diretto interessato non è un buon giudice di se stesso, perché disprezza o sottovaluta il lato positivo di quella sua caratteristica. Se, viceversa, una persona è fiera del proprio carattere deciso, ma gli altri lo considerano invece durezza e ostinazione, allora è chiaro che il diretto interessato non ha ben giudicato se stesso e persevera in una linea di comportamento che scambia per virtuosa, mentre nei fatti è inutilmente oppositiva e conflittuale, anche dove sarebbe possibile ed utile una onesta capacità di compromesso. Non sempre infatti i compromessi sono merce cattiva: lo sono quando implicano la rinuncia ai principi e ai valori; non lo sono quando si risolvono in una capacità di accomodare o ridimensionare tensioni e conflitti che possono essere superati con un minimo dei buona volontà.
Da tutto ciò si ricavano almeno queste conclusioni: che per essere buon giudice di se stesso occorre molta maturità; e che se si è discretamente maturi, cioè spiritualmente evoluti, allora non si cade nell’errore di scambiare i difetti per virtù e le virtù per difetti, né in se stessi e nemmeno negli altri, Quante storie di coppie sono minate, sin dall’origine, da malintesi di questo tipo! Quante volte lui o lei scelgono un partner credendo di aver trovato la persona giusta, e poi restano amaramente delusi, perché non hanno saputo vedere con chiarezza cosa è pregio e cosa è difetto, ma hanno scambiato le apparenze per la sostanza, ad esempio hanno scambiato una dolcezza esteriore per una bontà del cuore, mentre quella dolcezza nasconde una sostanziale indifferenza ai sentimenti altrui e un sostanziale, inguaribile egoismo! In altre parole, e un po’ paradossalmente, è buon giudice di se stesso chi ha già superato la fase dello squilibrio interiore e ha raggiunto, a prezzo di lotte e sofferenze, un proprio equilibrio; mentre chi non lo ha raggiunto non sa giudicare rettamente né a proposito di se stesso, né a proposito degli altri. Di fatto, i peggiori disastri affettivi e le situazioni più laceranti e inutilmente dolorose sono quelle in cui una persona che si crede capace di amare e di portare del bene agli altri, in pratica è mossa dal proprio egoismo e da un bisogno compulsivo di gratificazione, per cui tutto ci che fa, lo fa non per l’altro, ma per se stessa; e tuttavia non ha abbastanza coraggio o abbastanza onestà per guardarsi dentro lealmente e riconoscere la vera natura del suo movente e delle sue azioni. Se un tal genere di persona ne incontra un’altra onesta e leale, ma un po’ingenua o sprovveduta sul piano delle relazioni interpersonali, o — il che è lo stesso — un po’ troppo idealista, costei è in grado di provocare molto male all’altra, ma avvolgendo le proprie azioni di nobili intenti che in realtà non ci sono, e quindi seguitando a permanere nella più grossolana ignoranza a proposito di sé. In definitiva: essere autentici implica conoscersi in maniera realistica e oggettiva; senza tale presupposto si potrà parlare al massimo di sincerità soggettiva, ma non certo di autenticità.
Molto utili ci sembrano gli spunti forniti da questa pagina tratta da un’opera di don Giuseppe Colombero (1925-2019), studioso di teologia, filosofia e psicologia, (in: Dalle parole al dialogo. Aspetti psicologici della comunicazione interpersonale, Edizioni Paoline, 1987, pp. 52-54):
L’AUTENTICITÀ, come indica l’etimologia del termine, è ESSERE SE STESSI, VIVERE LA VERITÀ DI SE STESSI; conoscersi e accettarsi.
AUTENTICITÀ e SINCERITÀ sono intimamente collegate anche se, propriamente, non sono la stessa cosa. Se, per esempio, una persona crede di essere generosa e si descrive come tale, è SINCERA anche se avara; le sue parole sono in accordo cin ciò che lei pensa di se stessa, anche se ha un’opinione erronea di sé.
L’AUTENTICITÀ invece suppone una CONOSCENZA VERA di se stessi ed una presentazione di sé agli altri PRIVA DI FINZIONE. Autentico l’uomo che conosce e vive la verità di se stesso, non ha paura di essere chi è, accetta di coabitare con se stesso così com’è, ricco e povero, terso ed opaco, ordine e caos secondo che gli capita o gli conviene, con fedele incoerenza. L’autenticità è questo ACCORDO INTERNO, questa pace con la propria realtà.
Ciò non significa abdicare di fronte all’opaco e al male che si hanno nell’animo e nella condotta; non significa rassegnarsi e rinunziare al loro disgusto. Rimane doveroso l’impegno di far arretrare i loro confini e di rendere sempre più tersa la propria vita.
L’autenticità è essere liberi dalla paura del giudizio degli altri, liberi quindi dal desiderio di fingere: non sentirne né la necessità né la voglia. La lettura leale di se stessi e l’amore preferenziale per la verità, qualunque fosse, hanno consentito di giungere a questo coraggio.
Conoscendo e riconoscendo noi stessi, possiamo camminare avanti e indietro sotto i nostri occhi, a viso scoperto, liberi dalla paura di imbatterci con la nostra vera identità quando forse meno ce lo aspettiamo; liberi dalla paura di noi stessi e degli altri.
Ci rappacifichiamo con la caratteristica sostanziale della creatura: il LIMITE. Il limite segna il nostro essere lungo tutta la sua frontiera; DE-LIMITA appunto. Il limite è il confine col nulla; è la linea di demarcazione tra ciò che si è e ciò che non si è, tra ciò che si sa e si ha e ciò che non si sa e non si ha. È il confine tra il giorno e la notte che sono in noi.
L’uomo vero accetta il limite senza soccombere sotto l’angoscia del limite. Sa che esso fa parte della sua identità creaturale; non ha paura di pronunciare le due parole che sembrano provenire proprio dall’essenza del limite: l’indigena e la defettibilità che sono le più difficili da pronunciare tra tutte le parole che costituiscono il lessico umano: GRAZIE e CHIEDO PERDONO; sa riconoscersi debitore senza sentirsi umiliato e sa chiedere perdono senza sentirsi sconfitto.
Dunque la persona autentica si può identificare, con ragionevole esattezza, laddove essa è capace di ringraziare per i benefici ricevuti e di domandare perdono per i propri errori o le proprie colpe: se non è capace di far ciò, se non ringrazia mai nessuno perché ritiene tutto dovuto, e non si scusa mai perché è troppo superba per farlo, allora siamo in presenza di una persona inautentica, cioè contraffatta. Quante persone contraffatte ci sono in giro? In una società sana, in un ambiente sano, in una famiglia sana, poche: perché il loro modo di porsi è talmente sgradevole e fastidioso, che gli altri fanno loro capire che, se proprio non vogliono emendarsi, devono almeno tenere un profilo basso, e farsi notare il meno possibile. In una società profondamente malata, come è la nostra, dove ogni progetto educativo è stato distrutto o almeno gravemente compromesso dall’opera incessante di vere e proprie agenzie contro-educative (fra le quali, purtroppo, da qualche tempo è entrata a far parte anche la scuola), le persone inautentiche, posticce, sbruffone e millantatrici, crescono e si moltiplicano come i funghi dopo la pioggia: sono dappertutto, petulanti ed esibizioniste; si pavoneggiano, pretendono di essere lodate e ammirate, si risentono se ciò non accade e divengono ancor più moleste con un sovrappiù di comportamenti artefatti e miranti ad attrarre su di sé il massimo dell’attenzione possibile. In altre parole: in una società sana queste persone, che sono fondamentalmente malate d’ignoranza e d’immaturità, sono tenute a cuccia e messe in condizioni di non infastidire troppo il prossimo; ma nell’ora presente si stanno godendo la loro grande occasione, imperversano ed impazzano ovunque, scimmiottano i tristi vip dei social e della tivù, invadono qualsiasi spazio pur di esserci e farsi vedere, e sia pure per esibire tutta la loro vuotezza e la loro penosa inconsistenza. Infatti è andato perduto, con la capacità di guardarsi dentro onestamente, il senso del pudore: chi avrebbe motivo di vergognarsi, si vanta, e chi avrebbe ogni ragione di nascondersi, si offre e si espone senza ritegno. Perché lo fa? Perché, e qui viene la parte più imbarazzante della faccenda, un tal modo di porsi, in larga misura, paga, vale a dire che dà dei risultati e attira le attenzioni di molti: anche se ciò accade perché viviamo in tempi anormali, nei quali è in corso una vera e propria selezione all’incontrario, ove chi dovrebbe emergere e riceverei giusti riconoscimenti, viene mortificato e chi invece dovrebbe cercar di passare inosservato, perché palesemente immaturo, insipido e inadeguato, si sente nel pieno diritto di pretendere su di sé le luci della ribalta.
C’è un punto specifico della pagina che abbiano sopra riportato che richiama la nostra attenzione: quello in cui l’autore parla del limite interno della persona, accettando il quale si è consapevoli di sé, mentre negandolo e rifiutandolo si dimostra di essere ancora molto immaturi. Il limite, il proprio limite, in qualche modo spaventa, perché è il confine col nulla: e il pensiero di vivere costantemente sul confine del nulla è angoscioso per la quasi totalità degli esseri umani. D’altra parte, se si riflette che tale limite non è di per sé una minaccia, ma una protezione, perché stabilisce fin dove siamo noi e dove comincia ciò che non siamo, esso diviene un prezioso strumento per sviluppare la consapevolezza del proprio vero io. Al tempo stesso, il limite — ma bisogna saperlo vedere! — è anche il confine tra la sfera di ciò che si sa e si può, e ciò che non si sa e non si può. E siccome noi siamo sostanzialmente ciò che sappiamo e che possiamo, ne consegue che chi non ha il senso del limite non ha neppure il senso della propria identità. Non è un caso che proprio in questo momento sia stata sferrata l’offensiva contro la famiglia e l’identità sessuale dell’individuo, facendo appello a un non ben chiaro "diritto" di essere come si vuol essere, giorno per giorno, in base a imprecisati "orientamenti" e non alla realtà concreta del dato biologico. Ciò non è dipeso solo dal fatto che la tecnologia chirurgica e la padronanza delle "cure" ormonali rendono possibile il traguardo del cambio di sesso: perché sappiamo che la tecnologia resta in giacenza nei laboratori scientifici fino a quando il vero potere che tutto controlla e a tutti comanda, perché li ha sul proprio libro paga, il potere usuraio della grande finanza speculativa, non decide che è ora di passare alla fase operativa (si pensi all’automobile elettrica, per dirne una). Il motivo principale è che ora si sono create le condizioni culturali perché una simile "proposta" venga accolta senza troppe resistenze da parte della gente, e trovi diritto di cittadinanza negli asili e nelle scuole elementari. Ecco dunque perché è importante il senso del proprio limite: io sono un uomo, non sono una donna; io sono un bianco e non un nero; io sono cristiano, e non ebreo o islamico. È alzare muri, questo? No: è essere se stessi…
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