Quel profumo di vita santa dei vecchi sacerdoti
14 Settembre 2021
La società ha bisogno di persone capaci di dominarsi
16 Settembre 2021
Quel profumo di vita santa dei vecchi sacerdoti
14 Settembre 2021
La società ha bisogno di persone capaci di dominarsi
16 Settembre 2021
Mostra tutto

Dio fa impazzire quelli che vuol perdere

Quos Deus perdere vult, dementat prius: coloro che vuol perdere, Dio li fa impazzire, disse il senatore Giovanni Gentile davanti ai membri dell’Accademia d’Italia, il 19 marzo 1944, adattando la frase latina: Quos vult Iupiter perdere, dementat prius. È una massima che esprime la difficoltà di trovare spiegazioni razionali per il comportamento assurdo di certe persone, specie di principi, sovrani o dittatori, i quali dopo una vita di empietà, ma nella quale sono stati assistiti da una buona dose di fortuna, improvvisamente commettono la pazzia irreparabile destinata a causare la loro rovina totale. Di esempi ne se ne potrebbero fare moltissimi, a partire dalla storia sacra e arrivando fino ai nostri giorni. Fra i mille, scegliamo un episodio che ha un significato molto particolare per i cristiani, poiché è stato il presupposto della loro libertà di culto, al tempo del tardo Impero Romano: la battaglia del ponte Milvio, che consentì al vittorioso Costantino di liberare i cristiani dall’incubo della persecuzioni.

Gli studiosi di storia militare si sono sempre chiesti quale cattivo genio abbia ispirato l’imperatore Massenzio ad affrontare il suo rivale Costantino, il 28 ottobre 312, sulla riva destra del Tevere, che in quel punto ha un’ampiezza di 130 m., parallelo al Ponte Milvio, anziché attendere l’attacco a pie’ fermo sulla riva sinistra, cosa che avrebbe obbligato il rivale a tentar di forzare il fiume sotto l’incombente minaccia di un pronto contrattacco e senza disporre di un campo di manovra; peggio, a metterlo col fiume alle spalle se non fosse riuscito a sfondare. Nemmeno un bambino avrebbe potuto concepire un piano così stupido, schierando l’esercito con una barriera naturale alle spalle, il che avrebbe inevitabilmente trasformato un’eventuale ritirata in una rotta. Cosa che era già accaduta nella battaglia del lago Trasimeno del 21 giugno 217, durante la Seconda guerra punica, nella quale Annibale fece a pezzi l’esercito romano del console Gaio Flaminio Nepote. Lo stesso copione si ripeté adesso, in vista di Roma: travolto sulle ali, l’esercito di Massenzio si ridusse a fare quadrato sulla riva del Tevere, in località Saxa Rubra, per finire massacrato o tentare la fuga sul ponte di barche che i genieri militari avevano costruito, ma che cedette sotto il peso dei fuggiaschi e travolse migliaia di uomini, fra i quali lo stesso Massenzio, che perì annegato. La sola spiegazione possibile di un piano tattico così sconsiderato è che Massenzio, confidando nella schiacciante superiorità numerica del suo esercito, forte circa del doppio degli effettivi di quello di Costantino, fosse talmente sicuro di vincere, da voler avere campo libero per lanciare un rapido inseguimento in profondità. Ciò spiegherebbe anche la costruzione di un ponte di barche a fianco del Ponte Milvio, che raddoppiava la velocità degli spostamenti da una riva all’altra, ma che, se le cose fossero andate male, avrebbe offerto un’ulteriore via d’ingresso in città ai vincitori; il che non accade solo perché il ponte si sfasciò miseramente per il peso degli uomini che vi si accalcarono. A quanto pare Massenzio, come tutti i tiranni, aveva bensì numerosi cortigiani, ma neppure uno stratega degno di tal nome per consigliarlo; l’unico veramente in gamba, il prefetto del Pretorio Ruricio Pompeiano, era caduto in agosto nella battaglia di Verona.

Eccome come il vescovo Eusebio di Cesarea descrive l’episodio (da: Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, IX, 9, 2-9; traduzione e note di Mons. Giuseppe Del Ton, Firenze, Casa Editrice Adriano Salani, 1943, vol. 2, pp. 241-244):

2. Costantino, primo dei due imperatori per onore e grado, fu anche il primo ad avere pietà della sorte dei Romani oppressi dalla tirannide. Invocato con preghiere in suo aiuto il Dio del Cielo e il suo Verbo, Gesù Cristo, Salvatore di tutti, si avanza col suo esercito per restituire ai Romani la libertà dei loro antenati.

3. Massenzio, il quale poneva la sua fiducia più nelle arti magiche che nella lealtà dei suoi sudditi, non osava uscire dalle porte della città, sebbene in ogni luogo a lui soggetto, campagne e città, nei dintorni di Roma e in tutta l’Italia, avesse in sua difesa una moltitudine senza numero di soldati e migliaia di schiere di armati. Ma l’imperatore Costantino, fiducioso nella divina assistenza, assale la rima, seconda e terza posizione del tiranno e le prende tutte con somma facilità; poi marcia avanti nell’interno d’Italia e viene nei pressi di Roma.

4. Perché non fossero coinvolti in quel combattimento anche i Romani a causa del tiranno, Iddio trasse costui come a mezzo di catene lontano e fuori dalle porte. Ciò che nei tempi antichi si è verificato contro gli empi ed è narrato nei libri santi — molti a questo racconto negano fede, quasi si trattasse di una favola, ma i credenti lo ritengono per vero — ha avuto una riconferma evidente per tutti, credenti e miscredenti, i quali hanno visto coi loro propri occhi queste nuove meraviglie.

5. Come al tempo di Mosè, e dell’antico popolo ebreo, «i carri di Faraone e l’esercito di lui furono ributtati nel mare, il fiore dei suoi cavalieri fu sommerso nel Mar Rosso sicché il mare li ricoprì» (Esodo 15, 4-5), così pure Massenzio e i soldati e le guardie, che lo circondavano «precipitarono nel profondo come un sasso», allorquando essi, volgendo le terga alla forza di Dio sostenitrice di Costantino, attraversarono il fiume. Fu per Massenzio un istrumento costruito a sua rovina il ponte fatto di barche, col quale aveva accuratamente unite le due sponde.

6. Di lui si poté dire: «ha aperto una fossa e l’ha scavata, e cadrà nel buco,m che ha fatto. Il suo lavoro si rivolgerà contro la sua testa e la sua malizia ricadrà sul suo capo» (Salmo7,16-17).

7. Scioltasi dunque la compagine del ponte, il passaggio delle truppe si arrestò ed insieme barche e uomini da esse portati affondarono; primo di ogni altro si sommerse lo scelleratissimo tiranno e poi le guardie del corpo che lo circondavano secondo le parole del divino oracolo, «sprofondarono come piombo nelle acque poderose» (Esodo, 15,10).

8. A ragione quindi i soldati, che allora riportarono il trionfo con l’aiuto di Dio, come anticamente gli Israeliti guidati dal grande servo di Dio Mosè, potevano, se non con le parole, almeno ci fatti, ripetere l’inno che quelli cantarono contro l’empio tiranno, ed esclamare: «Cantiamo al Signore, poiché si è sommamente esaltato; cavallo e cavalcante Egli trabalzò nel mare. Mio soccorso e mia protezione è il Signore; è divenuto mia salvezza. Chi è pari a te, tra gli dèi, o Signore, chi è pari a te, glorificato tra i santi, mirabile nella gloria, operatore di prodigi?» (Esodo, 15, 1,2,11)

9. Queste parole e altre, uguali a queste o analoghe, cantò Costantino con le sue gesta a Dio, reggitore di ogni cosa e autore di quella vittoria, ed entrò a Roma trionfante. Tutti in massa, i bambini, le donne, i membri del Senato, gli altri personaggi ragguardevoli e tutto il popolo romano lo accolsero con l’anima raggiante sul volto, tra cantici di esultanza ed inesauribile giubilo come loro liberatore, salvatore e benefattore.

Eusebio adopera un’espressione curiosa per spiegare la mossa illogica con cui Massenzio decise di schierare il proprio esercito con il fiume alle spalle, mossa che però, oltre a rendere più catastrofica la sua sconfitta, ebbe anche il merito di preservare la popolazione di Roma dagli orrori della guerra civile, perché se avesse deciso di attendere il nemico dietro le possenti Mura Aureliane, probabilmente Costantino avrebbe dovuto ritirarsi, come già era toccato a Galerio, venuto con un esercito dall’Oriente per punire Massenzio della sua usurpazione, nell’autunno del 307. Egli scrive: Perché non fossero coinvolti in quel combattimento anche i Romani a causa del tiranno, Iddio trasse costui come a mezzo di catene lontano e fuori dalle porte (IX, 9, 4). Dunque anche il vescovo di Cesarea si rendeva conto che la mossa di Massenzio era umanamente pressoché inspiegabile e, da cristiano che crede nella Provvidenza, l’attribuisce a una speciale azione di Dio, che paragona al trascinare qualcuno contro la sua volontà per mezzo di catene, come si fa con gli schiavi. Il tiranno perciò aveva agito contro se stesso; e anche nei dettagli la sua azione era preordinata fatalmente a ritorcersi contro di lui: Fu per Massenzio un istrumento costruito a sua rovina il ponte fatto di barche, col quale aveva accuratamente unite le due sponde (IX, 9, 5). Ora, la battaglia di Ponte Milvio non fu semplicemente una delle tante combattute fra imperatori rivali in un’epoca di guerre civili: fu la battaglia da cui dipese il destino dei cristiani: la fine delle persecuzioni, la libertà di culto per loro e l’inizio della rapida conquista dello Stato da parte della Croce di Cristo. Come non intuire perciò l’invisibile mano di Dio dietro un simile evento?

Il fatto che il vescovo Eusebio ragioni in tal modo, mentre il cristiano moderno ragiona in un altro, e trova "superstizioso" quel modo di considerare la storia, ci dà la misura di quel che è successo ai cristiani nel corso degli ultimi secoli: perché fino a Dante, cioè fino al principio del XIV secolo, l’interpretazione provvidenzialistica dei fatti umani, anche al livello della vita individuale, era cosa assolutamente normale, mentre poi iniziò a dileguare gradualmente, e oggi è pressoché scomparsa. La mentalità moderna, scientista e razionalista, è penetrata a fondo anche nella psicologia dei cristiani: è rarissimo, oggi, vedere qualcuno che ripone seriamente le proprie speranza nell’opera misteriosa della Provvidenza; o che spiega i fatti che accadono adoperando questa particolare prospettiva. Anche il credente, ormai, è un credente più a parole che di fatto: come tutti gli altri, applica alla propria vita e al giudizio complessivo sulla realtà, le stesse categorie mentali del non credente, quelle che la "cultura ufficiale", attraverso la scuola, l’università e i mass-media, ha gradualmente imposto alle coscienze. Eppure, chi ha una certa età ricorda benissimo che fra le persone di due o tre generazioni orsono, la fiducia nella Provvidenza era un caposaldo intangibile della loro fede, senza la quale non sarebbero state capaci di vivere. A sua volta, la fiducia nella Provvidenza si alimentava continuamente alle fonti della preghiera: i nonni di allora recitavano il Rosario tutte le sere, anzi ve n’erano diversi, specie se vedovi o vedove, che lo recitavano più volte al giorno, anche cinque o sei. E non erano per niente delle persone dal carattere debole o passivo; erano anzi persone energiche e volitive, che nella loro vita avevano affrontato e superato difficoltà per noi inimmaginabili, a cominciare dalle guerre mondiali: l’una vissuta negli anni dell’infanzia, l’altra nella maturità, senza mai smarrire la fede in Dio e l’abitudine alla preghiera fervida e assidua. Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto; cercate troverete: questo insegnamento di Gesù Cristo era per loro qualcosa di ovvio, di naturale, in cui riponevano piena fiducia, e che li fortificava dinanzi alle prove della vita. Occorre ricordare che per le fervide preghiere di san Leopoldo Mandic il convento dei francescani di Padova fu distrutto da un bombardamento aereo, ma neppure un confratello perì; e le sole due cose rimaste miracolosamente intatte furono il suo confessionale, nel quale egli aveva riconciliato a Dio migliaia di anime, e la statua di Maria Santissima? E che le fervide preghiere di san Pio da Pietrelcina impedirono agli aviatori angloamericani di bombardare il convento di san Giovanni Rotondo, perché, come poi disse uno di loro, a guerra finita, l’immagine gigantesca d’un frate in preghiera lo aveva costretto ad allontanarsi senza sganciare le bombe?

La riflessione sulla Provvidenza ci porta inevitabilmente a porci la domanda su che tipo di cristiani siamo. Se, con il Manzoni, pensiamo che la c’è, la Provvidenza (Promessi Sposi, XVII) e, come Renzo Tramaglino, siamo pronti a fare la carità a chi è nel bisogno più di noi, privandoci delle ultime risorse di cui disponiamo, ma con la certezza che Dio non ci lascerà soli e provvederà Lui alle nostre necessità, allora siamo dei cristiani veri, pur — s’intende — con tutti i nostri umani limiti e difetti. Se invece pensiamo che questo sia un modo di pensare arcaico, superato, che pretende di fare di Dio un tappabuchi, come pensava il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che oggi va fortissimo anche fra i sedicenti cattolici, tanto da essersi assicurato un posto sicuro negli scaffali delle librerie diocesane (vedi il nostro articolo: Il "caso" Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea, sul sito di Arianna Editrice il 26/06/08 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/02/18; e Sì, certo: Bonhoeffer è un maestro del nichilismo, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 15/05/18), allora possiamo gloriarci a buon diritto del titolo di cristiani adulti e di cattolici aperti, dialoganti e al passo coi tempi moderni. Quelli per intenderci che non vanno più in chiesa se non hanno assunto la loro dose di vaccino, e che approvano la decisione di quei vescovi i quali hanno imposto l’obbligo vaccinale ai sacerdoti per celebrare la santa Messa. Quelli che, entrando nella casa di Dio, non cercano l’acqua benedetta (tanto sanno già che non la troveranno, perché potrebbe essere infettata dal virus!), ma si igienizzano le mani con l’amuchina e poi siedono ben distanziati nei banchi, e si accostano alla santa Comunione protendendo le mani in avanti, per ricevere il Corpo di Cristo da quella del sacerdote, stretta in un guanto di plastica, sul palmo della propria, indi portarselo in bocca da sé. In tal caso, inutile chiedersi perché Massenzio fu sconfitto in maniera così stupefacente al Ponte Milvio: che volete, fu semplicemente opera del caso.

E inutile chiedersi perché nella nostra vita abbiamo fatto certi incontri e non altri: è sempre il caso…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.