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Il caos sociale inizia quando la donna non sa più chi è

Sotto il profilo psicologico, la dissoluzione sociale che stiamo vivendo ha un’origine precisa, che prevale su tutte le alte cause: lo smarrimento del senso d’identità della donna; il fatto che ella, suggestionata dagli stimoli della società moderna e specialmente dal retaggio della cultura femminista, si sente scontenta del proprio ruolo e quindi della propria identità, smania per essere altro da quello che è, e finisce per scordare la sua fondamentale vocazione a realizzarsi nell’amore di un uomo, nel diventare madre e nel prendersi cura della sua famiglia. La cultura femminista le ha insegnato che tutto questo è brutto, retrogrado, è il portato di un mondo maschilista che la mortificava, e che la via della libertà passa attraverso la distruzione dei cosiddetti stereotipi di genere, a cominciare da quello femminile: ma l’ha ingannata. Privata della sua identità e della sua fierezza, del piacere di essere quella che è, la donna moderna ha cominciato a diventare nevrotica, insoddisfatta, distruttiva. È divenuta di peso a se stessa e alle persone con le quali si relaziona, e in particolare, come è ovvio, è divenuta inadeguata e molesta ai propri figli, incapace di amarli come madre, e segretamente suggestionata dall’idea che essi sono le sue catene da schiava, e che quindi per liberarsi non deve più fare la madre, semmai l’amica e la rivale, eventualmente anche la carceriera e la seviziatrice dei propri figli.

A partire da quel momento la schizofrenia è entrata nella mente della donna, e il caos nelle coppie, nelle famiglie e nella società intera. Un proverbio friulano dice che la donna sostiene tre dei quattro angoli della casa; ora come ora, non solo ella non sostiene proprio nulla, ma non è in grado di badare nemmeno a se stessa. Stiamo parlando in generale, naturalmente, e con le debite eccezioni del caso. La donna moderna — che, come osservava acutamente Oswald Spengler un secolo fa, invece di avere dei figli ha dei problemi — è divenuta scontenta del proprio ruolo e rifiuta inconsciamente la propria femminilità. Vuole fare il poliziotto con la pisola, il paracadutista, il calciatore, anzi pretende che tutte le professioni maschili siano declinate al femminile, per mettere in chiaro non solo che lei è in grado di fare qualsiasi cosa, ma che la grammatica è sbagliata e che deve finire la tirannia di declinare i nomi maschili e femminili con l’aggettivo maschile, e cose del genere. Parallelamente l’uomo si è femminilizzato: incapace di far valere il suo ruolo maschile, si è adattato a essere sottomesso dalla donna, e dunque ad adottare un ruolo femminile. I figli sono stati le maggiori vittime di questa inversione di ruoli: perché, qualsiasi cosa dicano i seguaci della cultura femminista e più ancora dell’ideologia gender, i bambini hanno bisogno di una figura maschile e di una figura femminile, e hanno pure bisogno, ma guarda un po’ che strana pretesa, che il ruolo femminile sia svolto dalla donna, e quello virile, dall’uomo. Una madre viriloide e un padre femmineo non sono due validi modelli di riferimento: questo dice la natura, questo dice il buon senso, questo dice l’esperienza pratica di migliaia e migliaia di psicologi, psichiatri e psicoterapeuti, i quali da decenni tentano con poco successo di curare il male del secolo: la perdita dell’identità di genere, che inizia da uno squilibrio esistenziale della donna.

C’è un romanzo di Hemingway – un cattivo romanzo in tutti i sensi, cui un maestro di composizione creativa, come oggi si chiamano quanti insegnano a scrivere romanzi o racconti, non potrebbe dare onestamente la sufficienza — che descrive bene questo fenomeno, cogliendolo al suo primo manifestarsi: Il giardino dell’Eden, pubblicato postumo nel 1986, cioè ben venticinque anni dopo il suicidio dell’autore. Sorvoliamo sulla penosa debolezza della storia e sulla piattezza dello stile, che si potrebbero paragonare entrambi a quelli di Alberto Moravia, sebbene in quest’ultimo predomini nettamene la nota esplicitamente pornografica. La storia narrata da Hemingway non è affatto pornografica, semplicemente prurigginosa, di un prurito banale e quasi scontato, il solito menage à trois di tre personaggi ricchi e annoiati che non sanno come riempire le loro giornate nelle località balneari alla moda d’Europa. All’inizio c’è una coppia "normale" (se è ancora lecito dirlo), David e Catherine, due americani appena sposati, che si godono la luna di miele in Costa Azzurra, fra un drink ghiacciato e un bagno nelle tiepide acque del Mediterraneo. Lui è uno scrittore promettente, ma ancora alle prime armi, che ha trascurato il suo lavoro per dedicarsi alla bella mogliettina, presumibilmente ricca e viziata; lei non ha alcun interesse nella vita, crede di amare il suo uomo ma in realtà ama solo se stessa, e per giunta è divorata da un segreto odio per il proprio sesso, nonché da una altrettanto segreta gelosia per il successo nascente del marito (e infatti un giorno brucia tutti i suoi racconti con la scusa che erano cattivi e che così lo sprona a dare il meglio di sé, riscrivendoli). Mano a mano che lui si immerge nel lavoro, lei si sente trascurata, si annoia tremendamente e comincia ad assumere dei comportamenti strani. Si taglia più volte i capelli, corti come quelli di un maschio; pretende che lui se li tinga della sua stessa tinta biondo cenere; a letto vuole assumere il ruolo del maschio, insomma pretende che lui diventi la sua amante femmina. Lui l’asseconda, il che suggerisce che nemmeno David deve essere molto saldo nella propria identità di genere; nel frattempo, forse per placare il crescente disagio, forse solo per noia, bevono molto, hanno sempre il bicchiere in mano, e talvolta ricorrono all’assenzio. Lei prende la macchina e fa le corse in città per fare shopping, sperimenta nuove acconciature, ma naturalmente non le basta, il disagio interiore non fa che crescere, ma non sa esprimerlo e i suoi dialoghi col marito sono di una povertà e una banalità assolute: vuote dichiarazioni d’amore reciproco, che servono solo a mascherare l’inquietudine e dare una patina di rispettabilità borghese al loro civilissimo rapporto, nel quale non esistono scenate e nessuno dei due alza mai la voce, con perfetto fair-play anglosassone anche se hanno l’inferno nel cuore: loro che si credono così liberi e anticonformisti.

A un certo punto si spostano in Spagna, senza una ragione precisa, semplicemente perché dopo i mesi estivi vogliono cambiare ambiente, ma sarebbe stato lo stesso andare in Svizzera o magari in Islanda o in Sud Africa. Lì incontrano una bella e ricca ereditiera molto spregiudicata (mai problemi di soldi per questi annoiatissimi figli di papà, mai la necessità di guadagnarsi il pane come tutti gli altri), Marita, della quale s’invaghiscono entrambi: ed è l’inizio di un rapporto a tre che resta sempre sul filo dell’ipocrisia, perché i loro veri desideri restano solo accennati, c’è tutto un gioco di allusioni ma nessuno mette apertamente le carte in tavola, neppure la furba spagnola che per portarsi a letto lui, accetta anche un intermezzo con lei. Ma si capisce che mentre per Catherine il rapporto fisico con Marita è la rivelazione della sua vera identità (anche se lei lo nega e ora si dice pronta a "tornare" interamente al suo David), per l’ereditiera è stato solo un espediente per rendersi indispensabile a entrambi e, forse, un divertissment senza importanza. Il romanzo finisce così, senza una vera conclusione, coi tre sconclusionati che seguitano a dirsi frasi solenni nella loro assoluta vuotezza, e fingono di sapere quel che vogliono dalla vita, mentre non ne hanno la minima idea, e, quel che è peggio, non ne avvertono neanche il bisogno. Sono tre perfetti campioni dell’umanità moderna: liberi in senso negativo, liberi di fare qualsiasi cosa e perciò di non far mai nulla di serio; liberi di giocare e trastullarsi e distruggere lentamente le proprie vite, inseguendo le emozioni del momento e credendosi profondi, sinceri, eccezionali, o quanto meno dei sinceri ricercatori della propria verità esistenziale. Si resta sconcertati al pensiero che per scrivere un romanzo così scadente e noioso Hemingway ci abbia messo quindici anni, dal 1946 alla morte, tenendo anche conto che la stesura originaria era molto più ampia, poiché comprendeva ben 48 capitoli, ridotti a trenta dalle forbici dell’editore. Per rimpolpare la storia, Hemingway ci aveva ficcato dentro anche le solite avventure di caccia grossa in Africa, attingendo senza ritegno al proprio repertorio esotico già tanto sfruttato: evidentemente si rendeva conto lui stesso dalla esilità e della inconsistenza della vicenda di Davd e Catherine. La sola spiegazione ragionevole è che la difficoltà di scrivere quella storia sul serio e fino in fondo, cioè scavando alla radice della psicologia dei protagonisti e non limitandosi alle trite schermaglie verbali, fatte di troppe allusioni e troppi non detto, scaturisse dal fatto che lo scrittore si rispecchiava fin troppo non nel protagonista maschile, ma in quello femminile. Non occorre essere seguaci della psicanalisi freudiana, né conoscere nei dettagli la biografia di Hemingway, per capire che quell’omone in apparenza così virile, che adorava le corride e la caccia al leone, era lacerato da un forte tendenza omosessuale, che non fu capace di confessare nemmeno in quello che voleva essere un libro-confessione postumo.

Affinché il lettore possa farsi un’idea dello stile e della cadenza narrativa di questo romanzo, riportiamo poche battute dal dialogo in cui Catherine confessa a David di volerlo amare come se se lei fosse il suo ragazzo, il che farebbe di lui, inevitabilmente, o una ragazza, o un omosessuale consapevole (da: Ernest Hemingway, Il giardino dell’Eden; titolo originale: The Garden of Eden, 1986; traduzione dall’inglese di Masolino d’Amico, Milano, Mondadori, 1987, pp. 67-68):

Era l’ora della siesta e riposavamo sul letto e David leggeva alla luce che veniva dalla finestra sulla sinistra del letto dove aveva sollevato una delle tendine a stecche di circa un terzo della sua lunghezza. La luce era riflessa dal palazzo dirimpetto. La cortina non era sollevata abbastanza per vedere il cielo.

«Al colonnello sono piaciuta così scura» disse Catherine. «Dobbiamo tornare al mare. Devo conservare l’abbronzatura.»

«Ci andiamo quando vuoi tu.»

«Sarà meraviglioso. Posso dirti una cosa? Devo.»

«Cosa?»

«Non sono ridiventata una ragazza per il pranzo. Mi sono comportata bene?»

«Ne sei convinta?»

«No. Ti dispiace? Ma ora sono il tuo ragazzo e farò qualunque cosa per te.»

David continuò a leggere.

«Sei arrabbiato?»

«No.» Rinsavito, pensò.

«È più semplice, ora.»

«Non credo.»

«Allora farò attenzione. Questa mattina tutto quello che facevo sembrava così giusto e felice, così buono e pulito alla luce del giorno. Non potrei provare adesso e poi vediamo?»

«Preferirei che non lo facessi.»

«Posso baciarti e provare?»

«No se sei un ragazzo e io sono un ragazzo.»

Nel torace aveva una sensazione come se fosse attraversato da una sbarra di ferro. «Avrei preferito che non lo dicessi al colonnello.»

«Ma mi aveva vista, David. Ha tirato in ballo lui l’argomento e sapeva tutto in proposito. E aveva capito. Non è stato stupido dirglielo. È stato meglio. È nostro amico. Se glielo avessi detto non lo avrebbe raccontato. Se non glielo avessi detto ne avrebbe avuto il diritto.»

«Non ti puoi fidare di tutti in quel modo.»

«Non mi importa di tutti. Mi importa solo di te. Non avrei mai fatto uno scandalo con degli altri.»

«Mi sento il petto come se fosse sbarrato[sic] col ferro.»

«Mi dispiace. Io nel mio sento una grande felicità.»

«Mia adorata Catherine.»

«Bene. Puoi chiamarmi Catherine sempre quando vuoi. Sono anche la tua Catherine. Sono sempre Catherine quando hai bisogno di lei. Faremmo meglio a dormire o dobbiamo cominciare a vedere cosa succede?»

«Prima stiamocene zitti zitti al buio» disse David e abbassò lo schermo a graticcio e giacquero l’uno accanto all’altra nel grande sul letto nella grande stanza del Palace a Madrid dove Catherine aveva passeggiato nel Museo del Prado alla luce del giorno come un ragazzo e ora avrebbe mostrato le cose scure in piena luce e il cambiamento, così parve a lui, non avrebbe avuto mai fine.

A parte la sciatteria dello stile, che in Addio alle armi poteva ancora passare per originale e, chissà, magari per profondo, ma qui diventa di una vacuità perfino imbarazzante, la cifra di questo dialogo assurdo, simile — ma involontariamente — a certi dialoghi di Ionesco o di Beckett — è nella distonia che si crea fra l’atteggiamento di ultrasincerità, con se stessi e con l’altro, dei due protagonisti, lei specialmente (ma abbiamo visto che "lei" è in realtà il riflesso dell’autore, che è un uomo) e la paradossalità dei loro sentimenti e delle loro azioni, che tuttavia entrambi, e specialmente lui, si preoccupano di velare dietro una cortina di rispettabilità, affinché la gente non abbia da spettegolare sul loro conto. Sicché quando Catherine dice a David: Ora sono il tuo ragazzo e farò qualunque cosa per te, si tratta chiaramente di un inviti sessuale a usare di lei all’incontrario, reso più ultimativo dall’affibbiare a lui, esplicitamente, un’identità differente da quella maschile; offerta del proprio corpo che viene ripetuta con la domanda falsamente ingenua e volutamente piccante: Faremmo meglio a dormire o dobbiamo cominciare a vedere cosa succede?

Già, il problema è proprio questo. E non solo in senso anatomico e fisiologico, naturalmente: perché l’affettività, come la sessualità, risiede anzitutto nella mente, e da lì si trasmette al corpo. Quando la donna si disamora della propria femminilità e sogna di essere virile, è inevitabile che non solo la relazione con l’uomo, ma anche coi figli subisca una torsione paurosa, che ne capovolge i normali connotati. E questo non è bene per alcuno: né per la donna, né per l’uomo, né per i loro bambini. I quali cresceranno e diverranno adulti, certo, ma si porteranno dietro, senza colpa, le stigmate di un’identità irrisolta nella figura dei loro genitori; e la riverseranno a loro volta sui propri figli, e così via. Finché qualcuno non troverà la lucidità e la forza di rompere la spirale maligna, e riportare le cose nella loro giusta direzione: cioè nell’aderenza piena e pacificata del proprio corpo e la propria interiorità, e della mente con il cuore.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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