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È ora di scrollare la colonizzazione culturale straniera

C’è un aspetto un po’ trascurato dagli studiosi delle guerre, e cioè l’effetto che la vittoria o la sconfitta producono al livello della cultura, e precisamente lo spostamento degli interessi e degli orientamenti culturali reciproci fra vincitori e vinti; meglio: dagli uni agli altri. È naturale, e lo sanno tutti, che l’esito di una guerra significa predominio militare, politico, economico e finanziario del vincitore nei confronti del vinto; quello a cui si riflette meno è che in genere si verifica anche un predominio culturale, e che il vinto tende a ricevere dal vincitore il modello dell’arte, delle scienze, della filosofia; più recentemente, anche quello del cinema, della musica leggera, della moda dell’abbigliamento, e così via. Dopo la Seconda guerra mondiale è accaduto proprio questo: i film inglesi e americani hanno invaso il mondo e hanno letteralmente colonizzato soprattutto i Paesi sconfitti; la stessa cosa è accaduta con le canzoni, con la moda e con una serie di altre cose attinenti ai comportamenti sociali; così come, su un altro piano, la cultura, il romanzo, la poesia, il pensiero e la tecnologia anglosassoni si sono imposti nei Paesi sconfitti e sono stati accolti da quei popoli come qualcosa di intrinsecamente superiore. In effetti, era l’alone della vittoria militare a conferire a quei libri, a quei film, a quelle canzoni, e più di tutto a quella lingua, la lingua più parlata al mondo (in realtà, dopo il cinese e perfino dopo la spagnolo: ma questo lo sanno in pochi), un’apparenza di superiorità, tale da renderli meritevoli di essere ammirati e imitati; per cui i cantanti o gli scrittori o i commediografi italiani e tedeschi, per esempio, si sono sentiti lusingati di imitare lo stile dei loro colleghi anglosassoni, conosciuti in tutto il mondo grazie al prestigio conquistato con la vittoria, militarmente con lo sbarco in Normandia e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, ed economicamente con la strapotenza del dollaro, la moneta per antonomasia, al cui confronto le povere monete dei Paesi sconfitti apparivano una ben misera cosa, di cui vergognarsi, come il povero si vergogna del proprio vestito rammendato e troppo corto, quando si trova faccia a faccia col ricco ben nutrito e ben vestito, avvolto in abiti elegantissimi confezionati su misura.

Ebbene: la stessa cosa è avvenuta nel campo del pensiero filosofico. Non era scritto nel libro del destino che così dovessero andare le cose, specie per l’Italia. L’Italia aveva, e in teoria avrebbe ancora, nonostante tutto, un immenso prestigio culturale che le viene dalla sua riconosciuta sovrabbondanza di geni artistici, letterari e filosofici, i quali hanno prodotto una quantità impressionante di opere che destano l’ammirazione universale. È già accaduto che un popolo culturalmente più evoluto abbia imposto la propria supremazia intellettuale sul suo più rozzo conquistatore: come dicevano gli antichi Romani parlando di se stessi e del rapporto col civilissimo mondo greco: Graecia capta ferum victorem cepit.

È interessante rileggere questa pagina di Ugo Spirito tratta da uno dei suoi ultimi libri (sarebbe mancato di lì a tre anni), Dall’attualismo al problematicismo (Firenze, Sansoni, 1976, pp. 145-146):

Da lunedì 26 maggio[1975] a questa mattina, nelle sale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana in Roma, sottola direzione di Vincenzo Cappelletti [filosofo e storico della scienza; 1930-2020], è stata tenuta una settimana di studi gentiliani nell’anno centenario della nascita del filosofo e nel cinquantenario della fondazione della "Enciclopedia". È stata una manifestazione di proporzioni eccezionali, alla quale hanno dato il loro contributo un centinaio di relazioni di studiosi italiani, europei e americani. Giovanni Gentile è riapparso all’orizzonte con una rinnovata manifestazione di vitalità e di apertura verso l’avvenire.

Per molti il fatto ha costituito una sorpresa inverosimile. Dopo la morte del filosofo nel 1944, il neoidealismo era sembrato morto per sempre. Ed era una morte strana, senza che nessun evento l’avesse determinata speculativamente. Le ragioni erano state due, ma tutte e due di carattere estrinseco. La prima, dovuta alla sazietà per una filosofia che aveva imperato per decenni, attraverso un monopolio senza contendenti. La seconda, originata dalla sconfitta italiana e dalla fine del fascismo. Il Gentile era stato fascista e il suo pensiero doveva avere la stessa fine del fascismo. Ma, tale destino, poi, l’Italia vinta e mortificata nella sua realtà più profonda doveva subire, rinnegando se stessa e cercando al di là delle proprie frontiere quel pensiero straniero che la nostra filosofia aveva combattuto. Eravamo stati vinti con le armi, ma sembrava che lo fossimo in tutti i sensi, anche e soprattutto nel pensiero.

Il Gentile fu messo da parte, in modo totale. Non lo si combatté, ma lo si dimenticò. Fu bandito dalla scuola e l’ignoranza dell’attualismo divenne di carattere pregiudiziale. La morte era considerata definitiva e non bisognava perdere tempo nel suo ricordo. Nessuno l’aveva ucciso, ma non c’era bisogno di un uccisore.

Improvvisamente il pensiero italiano si volse alle filosofie straniere di moda. Erano tante e avevamo acquistato un dominio incontrastato. Esistenzialismo, fenomenologia, filosofie analitiche, filosofia del linguaggio, neopositivismo, empirismo logico, sociologia, psicanalisi e via dicendo. Ce n’era per tutti i gusti e per tutte le avventure. Ma, intanto, un sempre più deciso processo dissolutore cominciò a poco a poco a logorare la presunta assolutezza dei nuovi indirizzi. Il che avveniva per l’intrinseca povertà delle basi speculative delle tendenze innovatrici, ma soprattutto per il senso critico degli studiosi italiani, educati per tanti anni al rigore critico. Non si rinnegava niente, ma tutto si cominciava a sottoporre a una revisione profonda, di ben altra coscienza filosofica. La sociologia, ad esempio, era accolta dapprima con fiducia immediata, ma poi apparve nella sua inconsistenza logica, sì da dover essere posta su nuove basi, ben altrimenti consapevoli. E così avvenne anche per la psicanalisi, riportata a un orizzonte molto più largo e con fondamenti di maggior rigore speculativo. Gli indirizzi di moda, in tale maniera, furono sottoposti progressivamente a una revisione molto più approfondita, che condusse alla loro trasformazione e alla loro costruzione.

Così, di giorno in giorno, un dubbio sempre pi profondo cominciò a intaccare la fede dei primi anni del dopoguerra. D’oltre alpe non ci veniva la luce in cui avevamo sperato. Ci accorgemmo – sia pur lentamente e faticosamente — che la nostra educazione neoidealistica aveva fondamenta di una logica superiore, alla quale le tendenze straniere non sapevano resistere. Bisogna riprendere il cammino per riportarsi a un livello più alto. Non certamente per negare nulla, ma per dare nuove basi a esigenze superficiali e anche banali. Il nostro pensiero aveva avuto una storia e volevamo fare sul serio. A tale storia occorreva rifarsi con un senso critico che andava al di là della moda. A un certo punto, perciò, ci fu chi cominciò a rivedere il nostro passato e a domandarsi se tutto fosse davvero morto.

Sebbene noi personalmente non proviamo alcuna particolare simpatria per l’attualismo di Giovanni Gentile, né per il problematicismo di Ugo Spirito, anche se nutriamo invece una viva simpatia nei confronti della figura umana e della dirittura morale di entrambi i filosofi, bisogna riconoscere che qui il discorso di Spirito è assolutamente veritiero e condivisibile. Non c’è alcuna ragione per spiegare il dilagare nell’Italia del secondo dopoguerra delle filosofie d’importazione, specialmente il neopositivismo e l’empirismo logico, la cui base speculativa è a dir poco modesta, se non il riflesso psicologico e culturale della sconfitta del nostro Paese e della vittoria schiacciante dell’ex nemico divenuto fortunosamente amico (nonché istigatore e finanziatore della pagina più nera della nostra storia recente, la guerra civile in cui appunto perì, vilmente assassinato, Giovanni Gentile) dopo il voltafaccia dell’8 settembre 1943, e poi tollerante padrone, ma pur sempre padrone assoluto, dopo il 25 aprile 1945. L’Italia, con tutto il suo immenso patrimonio culturale, con la coscienza del ruolo di primissimo piano svolto nella civiltà europea, e, quanto al cattolicesimo, della sua missione universale di ordine spirituale, fu travolta da un’ondata di auto-disprezzo verso i propri valori, le proprie certezze, i propri studi, e gettò alle ortiche gran parte di quel formidabile patrimonio, per mettersi ad imitare goffamente, con dichiarato o inconscio servilismo, ogni parola, ogni atteggiamento e quasi ogni starnuto venissero da oltre Manica e oltre Atlantico. E i nostri studiosi, i nostri docenti universitari, i nostri valorosi studenti, formati in un’università che era stata fra le migliori al mondo, assunsero l’atteggiamento degli scolaretti adoranti nei confronti di autentici palloni gonfiati (un nome per tutti: Bertrand Russell) purché avessero un cognome anglosassone e la cattedra a Oxford o a Yale. Peggio ancora: la nostra scuola, e specialmente la scuola elementare, che sotto l’impulso della riforma pensata e voluta da Giovanni Gentile, era ottimamente strutturata e forniva maestri e laureati di prim’ordine, con le idee chiare e una invidiabile base culturale, un poco alla volta subì il supposto fascino e si aprì all’influenza del pragmatismo pedagogico anglosassone, col risultato che alla fine, anche per opera del nefasto 1968, divenne la fabbrica di pretenziosi ignoranti che vogliono pontificare su tutto senza sapere un bel nulla di nulla.

Che cosa dunque ha impedito all’Italia di svolgere lo stesso ruolo che la Graecia capta svolse nei confronti del suo rozzo conquistatore, cioè di conquistarlo spiritualmente, con la sua superiorità intellettuale e culturale? Crediamo che le ragioni siano state essenzialmente due. La prima, l’inconsistenza morale della classe dirigente, che non si sentiva intimamente legata al destino del popolo (e infatti nel 1940-43 molti pezzi grossi dell’esercito, dell’industria e della finanza avevano tradito la causa nazionale) e non aveva salde radici spirituali, poiché si era formata in cosciente contrapposizione al sentire del popolo e alla temperie culturale italiana: una classe dirigente massonica, anticattolica, filo-inglese e ora anche filo-americana, formata da figli di papà abituati a vivere di rendita, che non avevano mai dovuto lottare per guadagnarsi il pane e affermare i loro meriti. Piaccia o non piaccia, il solo periodo nel quale era salita al potere una classe dirigente almeno in parte di estrazione popolare fu il fascismo: e infatti esso fu il solo governo italiano che si dedicò seriamente alle riforme sociali a favore dei lavoratori. Mussolini, il figlio di un fabbro, fu l’unico capo di governo che provenisse direttamente dal popolo; e così non pochi ministri e funzionari del Ventennio. Prima del fascismo, nell’Italia liberale, e dopo di esso, nella Repubblica democratica (e antifascista) vigeva e vige tuttora la regola opposta: presidenti del consiglio e ministri vengono dall’aristocrazia e dalla più ricca borghesia e nella loro vita, se non avessero scelto la carriera politica per aggiungere lustro al loro stato sociale, avrebbero potuto benissimo non fare nulla e godersi i beni di famiglia, con le loro ricche mogli, provenienti anch’esse, in gran pare, dagli ambienti più ricchi ed esclusivi. Come se non bastasse, dopo il 1945 la direzione intellettuale e culturale dell’Italia fu presa da quei professori antifascisti che, fin da prima del 1940, ma specialmente dopo, avevano gravitato attorno a quelle tali università anglosassoni, e si erano fatti apprezzare da quei governi per il loro zelo filo-anglosassone, vale a dire per il loro scarso o nullo patriottismo: perché chi non ha capito che la Seconda guerra mondiale, quanto al nostro popolo, non è stata pro o contro il fascismo, ma pro o contro l’Italia come nazione, non ha capito assolutamente niente. Di conseguenza, dal 1945 la scuola, l’università, le istituzioni culturali italiane, sono finite in mano a una folla d’intellettuali filo-inglesi e filo-americani, bramosi di cancellare nei loro potenti referenti stranieri il brutto ricordo dell’autarchia e del nazionalismo italiano, e di rassicurarli sulla loro incondizionata fedeltà. La soppressione dell’Accademia d’Italia, rea di fascismo, fu il primo e più significativo atto di auto-mortificazione di tale classe d’intellettuali servili.

Il secondo fattore risiede nell’indole del popolo italiano, la cui coscienza nazionale è maturata troppo tardi e in modo troppo limitato, dopo secoli di divisioni quasi sempre miopi e faziose, il che non ha favorito l’affermarsi in un solido sentimento di fierezza e giusta coscienza di sé. Così, quando i primi carri armati americani e britannici entrarono sferragliando nelle città che i loro aviatori avevano bombardato e mitragliato con crudele accanimento non per colpire obiettivi militari ma per infliggere ulteriori sofferenze alla popolazione stremata, e dalle torrette i liberatori si misero a gettare alla folla sigarette, tavolette di cioccolata e scatolette di carne, è iniziato quel processo di asservimento psicologico verso i nuovi, ricchissimi padroni. Il Piano Marshall ha fatto il resto. Ora, quando un popolo perde la propria dignità e bacia le mani al nemico che ha distrutto la sua indipendenza, non ci si può aspettare che la cultura, filosofia compresa, brilli per senso del proprio valore e tenga il punto davanti alle grossolane mode del vincitore. Accade invece che esse appaiano come le più belle e progredite al mondo, e che vengano imitate con detestabile servilismo. Non era destino che andasse così; ma è andata così. Per questo si deve lavorare sul piano intellettuale e morale: per ridare alla nostra gente la giusta coscienza e fierezza di sé, senza le quali non c’è futuro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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