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La natura contro la grazia, la carne contro lo spirito

Anche senza scomodare Robet Louis Stevenson e il suo celebre racconto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, ciascuno di noi avrà fatto di certo l’esperienza, solo che possieda una sia pur minima disposizione alla riflessione introspettiva, del divario abissale che esiste fra ciò che sentiamo essere giusto, con tutta la forza della nostra parte migliore, e ciò che siamo capaci di fare, non solo disattendendo il nostro impulso morale, ma sovente tradendolo e facendo esattamente l’opposto. È come se vi fosse in noi uno sdoppiamento della coscienza: colui che fa il male è un’altra persona da colui che vede il bene, e forse vorrebbe farlo, o quantomeno non vorrebbe calpestarlo. Due nature lottano entro lo stesso individuo, due opposte volontà si contendono la scena della sua vita interiore e delle sue risoluzioni. Anche se vi sono parecchio vittimismo, auto-commiserazione ed enfasi recitativa in Petrarca, il primo poeta dell’età moderna, nondimeno, quand’egli usa per descrivere se stesso, nella Lettera del Monte Ventoso, l’espressione quel doppio uomo che è in me, bisogna ammettere che ha delineato efficacemente il ritratto non solo di se stesso, ma di tutti gli uomini moderni.

E non basta. Se la modernità ha portato all’esasperazione il conflitto fra l’uomo interiore e l’uomo esteriore, fra l’uomo spirituale e l’uomo carnale, bisogna riconoscere che tale conflitto non nasce affatto con la modernità, sebbene questa abbia contribuito potentemente a renderlo palese e a stimolare la riflessione sul suo mistero. La verità è che tale conflitto appartiene alla natura umana: più precisamente, alla natura umana decaduta in seguito al Peccato originale. È il dramma del cattivo uso del libero arbitrio, che risale ai nostri primi progenitori: avevano tutto a disposizione, ma non bastò loro: vollero anche quell’unica cosa che Iddio aveva proibito loro di sperimentare, mettendoli in guardia sul fatto che, se avessero disobbedito, ne avrebbero pagato duramente le conseguenze. E dunque anche quella sola proibizione non nacque da una sorta di gelosia del Creatore verso le sue creature, ma al contrario, dalla Sua sollecitudine verso di esse. Egli sapeva quanto fosse pericoloso varcare quella soglia, e desiderava preservare l’uomo da un’azione della quale si sarebbe amaramente pentito. Tuttavia, al tempo stesso non voleva privarlo del bene inestimabile del libero arbitrio, perché non voleva proteggere la sua creatura prediletta sino a farne un balocco nelle proprie mani, ma voleva che vivesse a fronte alta, libera e cosciente delle proprie azioni, e perciò anche responsabile di esse.

Ma il dramma della caduta non è solo il dramma della fragilità umana di fronte alla coscienza morale. Accanto ad esso, c’è anche il dramma della ragione che si trova di fronte allo scacco: essa vede la verità e vorrebbe appigliarvisi, ma incontra un’opposizione quasi inspiegabile, che sale dall’interno della coscienza. Da un lato, l’esperienza e la riflessione mostrano all’uomo che tutte le cose di quaggiù, tutte le cose belle e amabili, tutto ciò che lo attrae e lo rende felice, è transitorio: non c’è nulla che duri oltre un certo tempo, tutto si consuma e tutto scivola via, come se fosse stato solamente un sogno o un incantesimo:. Questo sospinge la ragione a cercare altrove ciò che la possa appagare, qualcosa che non sia consumato dal tempo e non abbia carattere effimero, ma necessario: e questo qualcosa non può consistere che nell’Essere. Dall’altro lato, nel fondo oscuro della coscienza, l’esperienza della labilità e precarietà delle cose provoca una reazione di sdegno e di ribellione: come si permettono le cose di consumarsi e di svanire; come osa il tempo strapparci via i momenti più dolci; che razza di beffa è questa realtà ove tutto ci viene mostrato come godibile, e poi tutto ci si disperde fra le mani non appena lo stringiamo, come la sabbia che scivola fra le dita? E questa rabbia impotente, questa brama di rivincita spingono inconsciamente molte persone a voltar le spalle alla verità e alla giustizia, a non fare quello che è vero e giusto, ma quello che è falso e ingiusto, quasi per una ripicca contro Dio. È come se un’altra persona, annidata nel fondo di ciascuno di noi, digrignando i denti sibilasse: Non serviam.

Scrive san Paolo nella Lettera ai Romani (7,14-25):

14 Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. 15 Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. 16 Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.~ 18~ Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19 infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20 Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21 Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22 Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23 ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. 24 Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 25 Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

La legge spirituale ci mostra ciò che è gradito a Dio, mentre il richiamo della carne ci seduce offrendoci ciò che soddisfa i desideri carnali: superbia, lussuria, cupidigia. Ciascuno di noi è il teatro vivente di un dramma cosmico: il cielo e l’inferno lottano in interiore homine, e la posta in gioco è il nostro destino eterno. Con buona pace non solo di Pelagio, ma di tutti i filosofi moderni che affermano la bontà originaria dell’uomo, e, peggio ancora, di tutti quei teologi contemporanei secondo i quali l’uomo è talmente forte e talmente maturo da potersi regolare nella vita etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, la verità è che noi siamo prigionieri di un corpo di morte, che ci trascina verso la morte. Ciò va inteso non solo nel senso dei desideri carnali, ma anche nel senso che l’uomo, sprovvisto della grazia, si aggrappa convulsamente a ciò che non permane, come il naufrago si aggrappa al relitto; pretende di godere per sempre di ciò che è solo transitorio, e con ciò si condanna da se stesso ad una infelicità e ad una angoscia che culminano nella morte, perché alla fine tutte le cose amate scompaiono in essa, e così pure la coscienza di colui che le ha amate: solo lo spirito vive, ma per vivere degnamente esso deve respingere l’inganno di ciò che è transitorio e appigliarsi saldamente a ciò che è permanente. Questo è anche il dramma della filosofia moderna: essa rifiuta l’Essere e la stessa nozione di verità, inseguendo le chimere dell’apparire e della fugacità, più o meno elegantemente confezionate sotto espressioni altisonanti come pensiero debole o filosofia dell’esistenza. Tutte chiacchiere! Il pensiero, per essere tale, deve essere solido, non debole: ed è solido solo se è saldamente agganciato al reale, vale a dire alla Cosa in sé e non ai fenomeni. E la filosofia, se è vera filosofia, non corteggia l’esistenza, ma le detta le regole: non si muove all’interno delle cose mutevoli, ma s’innalza come un’aquila che vede ogni cosa e al tempo stesso coglie perfettamente la relazione esistente fra le parti ed il tutto.

Ma l’uomo, chiederà qualcuno, giunti a questo punto, è in grado di fare una cosa simile: d’innalzarsi a una tale altezza e giungere alla Cosa in sé, tralasciando i fenomeni ingannevoli? Ebbene sì, è possibile: ma a due condizioni. La prima è che egli usi correttamente il dono della ragione naturale, che lo guida infallibilmente a riconoscere ciò che è transitorio e ciò che, invece, è permanente: perché tale dono gli è stato dato non per aggravare la sua angoscia, mostrandogli che è preso in trappola, in una situazione senza uscita (Leopardi, Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Heidegger, Sartre), ma per mostrargli la via che conduce alla libertà. La seconda è che possieda abbastanza umiltà da rendersi conto che la ragione non può svelargli tutta la verità, ma solo una parte di essa; e che per spingersi più innanzi sulla via del conoscere deve aprirsi al mistero della Rivelazione, mistero che si è messo alla sua portata mediante l’Incarnazione del Verbo. A queste due condizioni l’uomo può trionfare di tutti i suoi dubbi e del senso di disperazione che lo assale davanti allo spettacolo della finitezza e della contingenza.

Scrive Sant’Agostino nelle Confessioni (VII, 18; a cura di Christine Mohrmann, traduzione di Carlo Vitali, Milano, Rizzoli, 1958 e 2001, pp. 207-208):

Rimanevo io stesso stupito di amare proprio Te, ormai; e non un fantasma al tuo posto. Ma non avevo stabilità nel gioire del mio Dio: appena ero estasiato dalla tua bellezza e tosto ne ero strappato dal mio peso e mi lasciavo travolgere piangendo dalle cose di quaggiù: ed era il peso delle abitudini dei sensi. Vivo era tuttavia in me il pensiero di Te, non dubitavo punto dell’Essere a cui dovevo stringermi; ma ero io che non riuscivo ancora a questa fusione, perché il corpo preda della corruzione appesantisce l’anima, e il vivere terra terra deprime lo spirito che va disperdendosi in mille pensieri (Sapienza, IX,15). Eppure ero certissimo che «le tue invisibili perfezioni diventano visibili al nostro intelletto dal primo istante della reazione attraverso le cose create, come oppure la tua potenza eterna e la tua divinità (san Paolo, Romani, 1,20)».Cercando infatti donde avessi la facoltà di apprezzare la bellezza dei corpi, sia celesti che terrestri, e di dare un giudizio sano su ciò che è mutabile, sì da poter dire: «Questo va bene così, quello no», cercando, ripeto, donde e perché giudicassi in tal modo, mi era apparsa l’eternità immutabile e genuina della Verità al di sopra della mia mente mutevole. E così, gradatamente, dal corpo passai all’anima che sente per mezzo del corpo, e, più su, a quell’interiore facoltà a cui i sensi trasmettono le impressioni esterne — percezioni raggiungibili anche dagli animali -; e di qui ancora più su, alla forza raziocinante cui appartiene il potere di trarre un giudizio da ciò che è fornito dai sensi: potere che riconoscendosi in me soggetto a mutazione, si elevò fino all’intelligenza di se stesso [per s. Agostino, come per s. Tommaso, la ragione è facoltà superiore all’intelletto], strappò via dal pensiero le consuetudinarie prevenzioni, liberandosi dalla folla di fantasmi contraddicentisi per giungere a scoprire quale lume la avvolgesse quando affermava con tutta certezza che l’immutabile deve essere anteposto al mutabile; e donde traesse la conoscenza dell’immutabile — conoscenza che in qualche modo deve pur avere se lo preferisce con sicurezza al mutevole -, e giunse così all’Essere per se stesso esistente, nel lampo di una trepidante visione. Allora davvero intravidi e capii le tue perfezioni invisibili attraverso le creature: ma non fui da tanto di figgervi addentro lo sguardo; risospinto dalla mia debolezza, tornai nel mio solito stato, non conservando dentro di me altro che un amoroso ricordo, come il desiderio di cibi di cui avevo solo gustato il buon odore, ma che non avevo ancora possibilità di mangiare.

L’uomo sen ala grazia, dunque, è costretto a vagare come in un mezzo ad una folla di fantasmi: scambia le apparenze per realtà, confonde il transitorio per ciò che è permanente. Non è vero che la cosa più importante è l’amore: la cosa più importante è la verità. Chi ama senza la luce della verità che viene dalla grazia, ama da folle, in maniera dissennata; e quando l’oggetto del suo amore dilegua, impazzisce e non sa darsi pace. Non così amano i figli di Dio e quanti hanno compreso che la bellezza delle cose terrene è solo una preparazione e un gradino sulla scala che conduce alla bellezza ineffabile delle cose incorruttibili. Chi ama da pazzo, in maniera carnale, è ancora dominato dal proprio ego, è schiavo di esso: in fondo, è se stesso che ama, o meglio ama il piacere che quell’amore gli procura. Chi ama in senso spirituale, ama secondo verità, perché non cerca il proprio piacere egoistico, ma il bene: e il bene è bene sempre e per tutti, non è bene per qualcuno e non bene, o perfino male, per qualcun altro. Dove ci sono la brama di possesso e la gelosia, lì c’è la tirannia dell’ego: e se l’ego è tiranno, allora la persona è schiava di se stessa, della propria natura carnale. La natura carnale è la natura spogliata della grazia, che, sola, può restaurarla nella propria condizione originaria: quella anteriore al Peccato di Adamo. Perciò tutta la nostra vita, tutta la nostra scelta, si riducono a questo: o si invoca la grazia e ci si affida ad essa, e così si entra nella dimensione spirituale, mediante la quale nulla va perduto di ciò che è buono e amabile, ma tutto si trasfigura e si sublima in una realtà più alta e luminosa; oppure ci si sprofonda nella carne, ci si aggrappa come disperati alle cose fuggevoli, e si va fatalmente incontro allo scacco matto della disperazione e della morte.

Ricordiamo le parole di Gesù Cristo (Lc 20,38): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui. Bisogna rileggerle e meditarle a fondo. O si vive per la vita, e allora si cerca la luce della verità e ci si fa suoi servitori, o si vive per se stessi, da disperati, e si entra nel buio della morte.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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