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Grazie, professore

Abitava in Viale Venezia, verso l’inizio, credo in parrocchia di San Rocco. Mi piace immaginare con la mente che strada percorreva tutti i giorni per recarsi da noi, alla nostra scuola, situata in un vecchio edificio di fronte alla suggestiva chiesa di San Francesco, in via Odorico da Pordenone, una delle più antiche della città. Percorreva il tratto finale del grande viale, attraversava il Piazzale XXVI luglio, dove una volta c’era una delle porte d’ingresso, imboccava via Poscolle, poi girava a destra, prendeva per Via del Gelso, e a metà di essa tagliava per la Galleria Astra, uscendo in Piazza dei Grani sotto i portici di Palazzo Kechler, nel cuore della città vecchia. Da lì, affacciandoci alle finestre della nostra aula, potevamo vederlo arrivare. Un uomo di età indefinibile, presumibilmente quarant’anni, forse più o forse meno, impossibile dirlo; sempre inappuntabile nel vestire, in camicia e cravatta – ricordo in particolare un completo beige, giacca e pantaloni perfettamente stirati. Portamento eretto quasi da militare, statura media, figura snella, viso ovale, mento un po’ appuntito, capelli lisci e corvini, con una particolare attaccatura a triangolo sull’ampia fronte, che gli conferiva un aspetto vagamente mefistofelico, del quale solevamo scherzare, accentuato dal colorito olivastro della pelle e soprattutto dalla voce profonda, nasale, del cui fascino strano lui stesso doveva essere conscio poiché ne accentuava il timbro e le sonorità, qualsiasi cosa dicesse, con dizione chiara e scandita. E due occhi penetranti, maliziosi, scuri come il carbone, animati da una sorta di luccichio, che si fissavano in faccia all’interlocutore e parevano scrutarlo, vagliarlo, soppesarlo. È stato il mio professore di italiano, latino, storia e geografia in prima superiore, poi la vita mi ha portato altrove. Eppure in quell’unico anno ha lasciato in me un ricordo così profondo da restarvi scolpito per sempre, mentre tutti gli altri professori sono scivolati via dalla memoria e di molti ho scordato rapidamente non solo il nome, ma anche il volto e qualsiasi gesto, parola o situazione che si riferiscano alle loro lezioni.

Ma lui, no. Lui, Sebastianutti, o meglio Seba, come lo chiamavamo tutti, ovviamente solo parlando fra noi, era entrato nel mito non a distanza di tempo, ma subito, fin dai primissimi giorni. La sua forte personalità, la sua intelligenza, la sua cultura, la sua stessa figura fisica, la sua voce cavernosa e inconfondibile, il suo amore "anacronistico" per la disciplina, le sue memorabili sfuriate, tutto concorreva a far di lui un personaggio epico, per noi ragazzini inesperti al primo anno delle superiori, nonostante il clima di smobilitazione generale, fatto di scioperi continui e sfrenata demagogia, che già da qualche tempo si respirava — era il 1970 — sull’onda del favoloso Sessantotto. Dalle nostre parti un po’ meno che nel resto d’Italia, a dire il vero, perché la nostra era una città marginale in una terra di frontiera, e l’altro pianeta, quello del comunismo internazionale e della Guerra Fredda, incombeva a meno di trenta chilometri in linea d’aria, dietro la prima fila di monti. Ripensandoci, quell’uomo aveva tutto per colpire la nostra immaginazione, ma ho il sospetto che i miei compagni restassero impressionati dagli aspetti più esteriori, per esempio dal suo evidente compiacimento per una certa teatralità di gesti, che lui stesso accentuava ed esasperava per creare un clima particolare, nel quale ci fosse posto anche per il sorriso: perché da buon educatore sapeva che tutte quelle ore di lezione sempre con lo stesso professore — quattordici a settimana, e scusate se è poco — avrebbero potuto diventare molto pesanti, se lui stesso non le avesse vivacizzate con un pizzico d’ironia, cosa per la quale era molto portato. Noiose, no, non c’era questo pericolo: come avremmo potuto annoiarci, quando in cattedra c’era un professore come Seba? Molto più facilmente che della noia, avremmo potuto essere dominati semmai dalla paura. Sì, paura: la parola non sembri eccessiva. Anzi se vogliamo proprio dirla tutta, la parola giusta sarebbe terrore. Se in lui non vi fosse stato il lato scherzoso, credo che le sue ore di lezione sarebbero state dominate da un perenne senso di terrore, o poco meno. Perché Seba, quando si arrabbiava — e non accadeva di rado — a noi faceva realmente paura, c’è poco da dire.

E tuttavia, i suoi modi erano quelli di un perfetto gentiluomo, direi di un signore d’altri tempi. Tanto per cominciare, ci chiamava non con il nome di battesimo, ma per cognome: un’usanza sfumata da tempo nel panorama della scuola italiana; figuriamoci, noi pivellini di quattordici anni, ancora freschi della scuola media. Era un retaggio di altri anni e di un altro modo d’insegnare, che pure, nella sua bocca, pur così di frequente incline all’ironia, non aveva un sapore ironico, ma di doverosa distinzione dei ruoli: io sono il vostro insegnante, non un amicone; vi do del lei per mantenere la giusta distanza e perché non dimentichiamo, né voi né io, che siamo qui per lavorare insieme, sì, ma da due sponde diverse: io per insegnarvi, voi per imparare. Patti chiari e amicizia lunga. E un altro aspetto di questa impostazione all’antica era la sua pretesa che ci alzassimo in piedi quando entrava e che restassimo in piedi finché lui non si sedeva in cattedra: un’usanza penetrata così a fondo nella mia coscienza che molti anni dopo, divenuto a mia volta insegnante, l’ho adottata e pretesa a mia volta dagli alunni fino all’ultimo giorno, anche se ormai non eran pochi i professori che ostentavano atteggiamenti camerateschi con gli studenti e si facevano persino apostrofare con il tu. Ricordo con estrema chiarezza il silenzio istantaneo che scendeva sulla classe dopo la confusione del cambio dell’ora, e l’atto di scattare tutti in piedi all’unisono, quasi trattenendo il fiato; io, lo confesso, profittando dell’occasione per sbirciare, sotto i grembiuli neri, le gambe delle compagne nei banchi più avanti. Creature misteriose che per la prima volta si materializzavano fra le quattro pareti dell’aula, giacché sia le elementari che le medie erano strutturate in modo da tener separati i due sessi, non solo nella composizione delle classi ma anche nella disposizione dei rispettivi edifici, divisi a metà per i maschi e le femmine, i due portoni situati alle opposte estremità. Dunque, all’entrata di Seba, tutti su come spinti da una molla e trattenendo quasi il fiato; poi lui sedeva di fronte a noi, noi ci sedevamo a nostra volta, e la lezione cominciava.

Lezione che era interessante, sempre; qualche volta affascinante; e se lui era di buon umore, anche un po’ scherzosa. Talvolta, aggirandosi fra i banchi e dando un’occhiata ai quaderni, si fermava a commentare l’ordine col quale erano tenuti; e se questo lasciava a desiderare, prendeva a schiarirsi ostentatamente la gola, in un crescendo che ci faceva ridere come matti — anche per l’allentarsi della tensione -, strabuzzava gli occhi, fingeva di soffocare, faceva dei versacci inarticolati e infine esclamava: Ruzzene (poniamo), il suo quaderno mi fa venire il vomito delle paludi. Ma quand’era di cattivo umore e, seduto in cattedra, si faceva mostrare i quaderni dagli alunni interrogati, se vedeva una pagina pasticciata, dava quasi in escandescenze: afferrava il quaderno, trafiggeva con la penna la pagina macchiata, poi si alzava in piedi e sbandierava quel tragico trofeo, facendolo ondeggiare nel vuoto, infine lo scagliava lontano, come un proiettile di nuovo genere, per mostrare il suo supremo disgusto verso una così abominevole trascuratezza dei nostri doveri scolastici. E nessuno rideva, potete starne certi; anzi si sarebbe potuto udire un moscerino volare. Un giorno i miei compagni, esasperati ma troppo impauriti per reagire, ebbero la bella pensata d’incaricare me, eletto chi sa come rappresentante di classe, di fare la più rischiosa delle ambascerie: dirgli apertamente che quei sistemi dovevano finire. Erano tutti dei leoni mentre mi aizzavano, nel cambio dell’ora, a non lesinare le parole; ma quando Seba entrò in classe e tutti sedettero sui banchi, mi parve che ciascuno volesse addirittura sprofondare nel proprio, e quasi non osasse levar lo sguardo alla scena terribile che stava per svolgersi. In un silenzio di tomba alzai la mano e chiesi di parlare al professore, come rappresentante, a nome di tutti. Ricordo ancora le precise parole che gli dissi: Signor professore, a nome della classe, devo chiederle di usare modi e termini più moderati. Ecco, le parole irreparabili erano state pronunciate: tutti avevano voluto che fossero dette e ora avrei scommesso che avrebbero desiderato che non fossero mai state dette. Lo scoppio della folgore stava sospeso sul nostro capo, in un clima saturo di elettricità nel quale il tempo pareva sospeso, come se anch’esso trattenesse il respiro. Invece, miracolosamente, il fulmine non scoppiò; non ci fu alcun temporale. Lui parve stupito, ma non arrabbiato; prese atto di quel che avevo detto e la cosa finì lì — se non altro, non ci furono più quaderni squarciati ed esibiti a mo’ di bandiere al vento. Devo dire che l’incidente non gettò alcuna ombra sui nostri rapporti; non percepii la più piccola traccia d’irritazione o di risentimento nei miei confronti; rimase quello di sempre, confermandosi per ciò che era: un gran signore.

Aveva una straordinaria capacità di suscitare l’interesse partendo da una cosa qualsiasi, spesso dalle pure e semplici parole, delle quali ci conduceva, per gradi, a scoprire noi stessi l’etimologia. Se consigliava la lettura di un libro, io ne prendevo buona nota, anche se l’effetto poteva essere ritardato. Mi è capitato, molti anni dopo, di leggere I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, solo perché non mi ero mai scordato che lo aveva nominato, parlando del genocidio degli armeni; e devo dire che la sua lettura non mi ha deluso. Ma soprattutto erano coinvolgenti le lezioni di epica, cui era dedicata l’ora del sabato: è lì che ho appreso l’amore per Virgilio, è lì che ho sentito l’Eneide come uno dei più alti libri di poesia che siamo mai stati composti. Da buon friulano era molto esigente, non regalava mai nulla. Avevo fatto lo schema dell’Averno virgiliano e glielo feci vedere; ma lui, notando qualche mia incertezza, osservò sbrigativamente: Eppure lo hai disegnato con le tue mani! Però non mortificava mai i ragazzi in quanto persone. Quante volte mi son trovato a chiedermi cosa avrebbe pensato, cosa avrebbe detto in una certa circostanza. Proveniente da una scuola media permeata d’ideologia, ove il professore di lettere era un comunista intransigente, che apprezzava i miei temi d’italiano però si lagnava con mia madre perché vi esprimevo certe idee che evidentemente erano assai lontane dalle sue, con Seba non ci accadde mai di chiederci per quale parte politica propendesse, né avemmo la tentazione di manifestare certe opinioni solo per compiacerlo. Era un uomo che teneva le due cose ben distinte: a scuola lui non faceva politica, anche se la politica entrava con invadenza nella scuola sotto forma di scioperi, manifestazioni, cortei a getto continuo. Lui faceva educazione e cultura; ci faceva volare alti. Penso, col senno di poi, che fosse un po’ sprecato al biennio d’un istituto magistrale, che peraltro all’epoca era un’ottima scuola superiore: con la sua cultura, la sua finezza intellettuale e il suo carisma, avrebbe potuto puntare più in alto. E tuttavia non l’abbiamo mai sentito dire qualcosa che facesse pensare a una sua delusione o frustrazione professionale: si vedeva che era una persona ben piantata sulla terra, che faceva bene il suo lavoro e non aveva tempo di recriminare, perché sapeva che un insegnante deve fare il pane con la farina che ha. Credo che lo ammirassimo tutti, anche quelli che meno lo apprezzavano a livello di empatia, per la sua fierezza e la sua franchezza. Ecco, questo si può dire: che era una persona fiera e franca

Alla fine dell’anno scolastico lasciai la mia città e andai fuori regione; persi di vista tutti quanti e iniziò una nuova vita. Dieci anni dopo, il servizio militare mi riportò da quelle parti, e volli andare a trovarlo nell’ora di libera uscita. Non sapevo dove abitasse; chiesi informazioni, e le trovai presso la più antica osteria cittadina, La spezieria dei sani, che, scoprii, da buon friulano frequentava volentieri. Fu contento di rivedermi, anche se all’inizio stentò a ricordarsi di me: una cosa che poi ho compreso benissimo, perché facendo quella professione, dopo un certo tempo riesce difficile ricordarsi di tutti gli ex alunni, specie di quelli che si è avuti in classe per un solo anno. Tornai una seconda e una terza volta, molti anni dopo; cercai di comunicargli quale vivo ricordo avesse lasciato in me quell’unico anno scolastico trascorso insieme, nel vecchio edificio coi pavimenti di legno che oscillavano sotto i passi e la stufa a legna che bisognava alimentare di continuo nelle fredde giornate d’inverno (ma già l’anno dopo la mia partenza la scuola si era trasferita in un bell’edificio nuovo, tanto confortevole quanto banale). Parlammo ancora di poesia epica e di letteratura, di Ulisse, di Nestore, dei Quaranta giorni del Mussa Dagh: gli dissi come avessi letto quel libro ricordandomi della sua citazione, e lui commentò, coi suoi occhi scintillanti d’entusiasmo: Sì, è una lettura affascinante! Quando uscii dall’appartamento di viale Venezia dopo essermi accomiatato, ed ero ancora sul pianerottolo, lo udii esclamare fra sé e sé, dietro la porta chiusa, evidentemente un po’ commosso: Che bravi ragazzi!, e quella frase mi colpì, venendo da una persona apparentemente burbera, come se avesse svelato per un attimo il suo segreto, che poi è il segreto dell’anima friulana: un vivissimo calore di affetti celato dietro una possente cortina di riserbo. Non sono mai più tornato nella mia città natale e non l’ho più rivisto; e ormai credo sia andato in quel luogo dove il tempo, con tutto il suo bagaglio di speranze e apprensioni, di gioie e sofferenze, si dissolve come nebbia al sole, e resta solo il fulgore dell’eternità. Però mi sono ricordato sempre della lezione più importante che mi ha insegnato: che non si vive solo per l’oggi, ma si semina, si semina per il domani; e forse quel seme, che oggi sembra sprecato, sboccerà poi nella vita di qualcuno, e porterà frutti a sua volta.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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