Gesù è mistero per credenti e no, ma in sensi diversi
27 Luglio 2021Perché tanto fastidio e disamore per le nostre radici?
29 Luglio 2021Il pensiero di Julius Evola, così come quello di René Guénon, e in genere tutto l’esoterismo, è di per se stesso radicalmente, irrimediabilmente, incompatibile con il cristianesimo. Lo abbiamo già mostrato (Esoteristi o cattolici; Evola e Guénon o Gesù Cristo, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 27/06/21) ed è un discorso che non piace ai loro numerosi ammiratori e discepoli, palesi e discreti, i quali si arrabbiano e si sentono offesi, chi sa perché, come se fosse un attacco proditorio e personalmente rivolto, in maniera sleale, a ciascuno di essi in modo particolare. Davanti alle loro reazioni scomposte e un po’ ridicole, al limite della paranoia si può semplicemente sorridere e tirare dritto, lasciando, come consiglia il padre Dante, che si gratti la rogna chi ha motivo di farlo (cfr. Par. XVII, 129). Tuttavia non si può tacere il fatto che sono loro, i maestri della gnosi, a esprimersi con la massima chiarezza sull’argomento, Evola specialmente: per cui è evidente che quanti si mostrano infastiditi da tale affermazione, o non conoscono il pensiero degli esoteristi, o non possiedono un briciolo di onestà intellettuale e vorrebbero tenere il piede in due scarpe e, come è logico, si risentono quando sono messi di fronte all’evidenza. Riservando ad altro tempo un discorso specifico su Guénon, – del quale, peraltro, ci siamo già occupati in diverse occasioni – ci soffermeremo qui brevemente sul rapporto fra il pensiero di Evola e il cristianesimo, attingendo dall’opera nella quale egli stesso affronta la questione in termini inequivocabili e non privi di una brutale, definitiva chiarezza.
Scrive dunque Julius Evola nel saggio Imperialismo pagano, del 1928 (Padova, Edizioni di Ar, 1978, pp. 16; 19; 102-103):
L’anti-europa è l’anti-cristianesimo. Il cristianesimo è alla radice stessa del male che ha corrotto l’Occidente. Questa è la verità, ed essa non ammette dubbio.
L’onda scura e barbara, nemica di sé e del mondo, che nel sovverti,mento frenetico di ogni gerarchia, nell’esaltazione dei deboli, dei diseredati, dei sena nascita e senza tradizione agitati dal bisogno di "amare", di "credere", di abbandonarsi. Nel rancore verso tutto ciò che è forza, sufficienza, sapienza, aristocrazia, nel fanatismo intransigente e proselitario fu VELENO per la grandezza dell’Impero Romano, è la causa massima del tramonto dell’Occidente.
Il cristianesimo — si badi — non è ciò che oggi sussiste quale religione cristiana — troncone morto tagliato fuori dallo slanciò più profondo. Dopo aver disgregato la compagine di Roma, essi fui ciò che, con la Riforma, passò ad infettare la razza dei biondi barbari germanici per poi penetrare ancor più giù, tenace ed invisibile: il cristianesimo oggi è in atto nel liberalismo e nel democraticismo europeo e in tutti gli altri bei frutti della rivoluzione francese — fio all’anarchismo e al bolscevismo; il cristianesimo oggi è in atto nella struttura stessa della società moderna tipo l’anglosassone — e altresì nella scienza, nel diritto, nell’illusione di potenza della tecnica. In tutto ciò si conserva egualmente la volontà livellatrice, la volontà del numero, l’odio verso la gerarchia, la qualità e la differenza — e il vicolo collettivo, personale, fatto di mutua insufficienza, proprio alla organizzazione di una razza di schiavi in rivolta.(…)
L’identificazione della NOSTRA tradizione con la tradizione cristiana o cattolica che sia, È IL PIÙ ASSURDO DEGLI ERRORI.
ROMANITÀ È PAGANITÀ; e la restaurazione imperiale è un vuoto nome se non è prima di tutto, restaurazione pagana. È una contraddizione che si tocca con mano proclamare il ritorno di Roma e non ricordare che il cristianesimo è stato uno dei principali fattori della rovina di Roma; parlare d’impero, e non accorgersi che tutta la visione cristiana della vita è la negazione dei presupposti dell’impero. (…)
Il primo punto concerne l’essere il cristianesimo una forma oltracotante ed esclusiva dell’aspetto più basso della religiosità; e ci spieghiamo così.
La veduta classica, sia pagana che orientale, propria alla Sapienza, è che fra uomo e Dio non vi differenza qualitativa, non vi è eterogeneità di natura. «La mia stirpe è celeste» dichiara l’iniziato orfico; e, del pari, nei Veda e nelle Upanishad, l’uomo è considerato esser Dio stesso, se pur in uno stato di inconsapevolezza e di stordimento.
Fra lo stato di coscienza dell’IDENTITÀ — che corrisponde a ciò che volgarmente si chiama Dio — e lo stato della coscienza umana la distanza può esser grande finché si vuole, ma tuttavia l’intervallo di separazione viene pensato come CONTINUO; tale cioè che lo si può percorrere con un processo regolare e progressivo senza che si debbano incontrare salti. Perciò, in linea di principio, in questa veduta si riconosce la possibilità per l’uomo di poter ascendere a Dio non appena lo VOGLIA; divinificazione [sic] che l’uomo può compiere con i suoi propri mezzi, senza alcun intervento trascendente o, come anche si dice, soprannaturale.
Ciò, in linea di principio. In linea di fatto la grandissima maggiorana degli uomini è esclusa da questa, che la via del’iniziazione e dello yoga, ma solamente perché la loro volontà è volta altrove, perché, per una sorta di rinuncia trascendentale diventata abitudine inconscia, essa evita di imporsi e di suscitarsi nelle necessarie facoltà. Queste nature deboli ed esteriori non possono così connettersi a Dio direttamente, realizzandolo cioè come uno stato effettivo della loro coscienza; e se pur tuttavia una connessione vi deve essere, essa sarà estrinseca, non quella reale, diretta, identificativa, dell’iniziato o anche del mistico, bensì quella ideale e sentimentale del credente e del devoto. Tale è l’atteggiamento religioso in senso stretto, cioè l’atteggiamento DUALISTICO, quello che al luogo d’intendere nell’uomo e nel Dio due stati possibili di un’unica coscienza, ipostatizza questi due stati in due cose distinte — qui l’uomo, e là (nei "cieli" o altrove) Dio. Alla CONOSCENZA di Dio (gnosi, teosofia) subentra allora il CREDERE in Dio; all’esperienza spirituale, il dogma; allo sforzo verso una attività trascendente, la preghiera, il timore e la devozione; al senso della sufficienza, quello dell’insufficienza e della dipendenza dinanzi al "Signore Onnipotente".
Il cristianesimo, per Evola, è dunque la forma più basa di religiosità; e la sua Tradizione non ha nulla a che fare con il vero pensiero tradizionale, quale si torva nel paganesimo classico e in alcune scuole iniziatiche orientali. Evola infatti apertamente rivendica la tradizione romana in quanto imperiale per eccellenza e la dichiara totalmente incompatibile con il cristianesimo; rifacendosi al Nietzsche più iconoclasta e meno felice, dichiara sbrigativamente che il cristianesimo è il prodotto di una morale degli schiavi, tanto rancorosi quanto impotenti, e che esso è la base di tutto ciò che si oppone e si ribella a quanto è nobile, aristocratico, qualitativo, volendo instaurare al suo posto il regno della quantità e dell’indifferenziato. Nel far questo, Evola non esita a istituire un parallelismo fra la sapienza classica e quella indiana, asserendo che anche lo Yoga, per esempio, è una via per giungere alla potenza e non già una via della mortificazione per conseguire il supremo distacco dal mondo: il che presuppone un colossale fraintendimento dello Yoga e una forzatura intollerabile della spiritualità indiana. In una cosa, tuttavia, egli ha ragione, e cioè che sia gli orientali, sia i seguaci del paganesimo greco-romano non ponevano un abisso fra Dio e l’uomo, ma pensavano che l’uomo è già Dio, o ha la possibilità di esserlo, se si rende conto della vera natura del reale e si libera, mediante una serie di pratiche e di meditazioni, dall’illusione delle apparenze. E in questo, sì, fra la visione cristiana e quella pagana — e orientale – c’è un abisso incolmabile: perché il cristiano ricorda bensì le parole di Gesù Cristo, voi siete dèi (cfr. Gv 10,34); ma non le interpreta, meccanicamente, come l’affermazione di un’identità fra Dio e gli uomini, bensì come un invito alla partecipazione alla vita divina, che si ottiene mediante lo stato di grazia. Ed è cosa molto, ma molto diversa, pensare che l’uomo è un Dio che diviene tale, perché ancora non sa di esserlo, o come, invece, una creatura che può giungere fino a Dio con l’aiuto di Lui, ma senza identificarsi totalmente in Lui e senza che venga abolita la distanza ontologica esistente fra il Creatore e le sua creatura.
Per Evola, o si persegue la sapienza, o si crede: credere è l’atteggiamento dello schiavo che adora ciò che gli è infinitamente superiore, mentre l’atteggiamento dell’esoterista è quello di chi, fiducioso in se stesso, si concentra tutto nello sforzo di conseguire la conoscenza e, pur essendo conscio che solo pochissimi, di fatto, possono giungervi, nondimeno fa appello a tutte le proprie risorse nello slancio magnifico verso l’assoluto. Pertanto si può dire che la dottrina di Evola consista in un umanesimo assoluto, radicale, che vede nell’uomo la creatura capace di superarsi e di trascendesi, ma unicamente con le proprie forze e attingendo esclusivamente al proprio sapere, che poi non è personale e individuale, ma è lo stesso sapere divino, del quale egli è capace perché in realtà "Dio" è la sostanza che pervade tutte le cose, e chi giunge alla piena consapevolezza di ciò diviene automaticamente una sola cosa con Dio. E tanto dovrebbe bastare a mostrare come sia letteralmente incolmabile la distanza che separa la concezione di Evola da quella cristiana e quanto sia assurdo immaginare che si possa essere, in qualche modo, ammiratori e discepoli di Evola, ma anche seguaci di Cristo.
Fin qui Evola non ha fatto altro che ripetere le solite banalità anticristiane della cultura positivista di fine ‘800 e dei primi del ‘900, le stesse che ripetevano Giosuè Carducci, Anatole France e poi tutto quel mondo di nostalgici del paganesimo che, avendo mal digerito alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, vedeva nel cristianesimo solo la forza dissolutrice che aveva fatto crollare l’Impero Romano e diffuso in tutto il mondo i germi pestilenziali del suo egualitarismo, buono per i deboli e i vili, infettando la modernità e propagando ovunque le dottrine liberali e democratiche che hanno condotto alla gravissima crisi in cui versa l’Occidente, e rispetto alla quale il fascismo è stata una risposta (che Evola sperava di poter orientare secondo le sue idee, aristocratiche e anti-popolari per eccellenza). Qui peraltro il suo pensiero offre qualche spunto più interessante, perché, quando smette di poetare fiaccamente sui biondi germani contaminati dalla peste cristiana, e punta il dito contro il cristianesimo quale vero artefice della Rivoluzione francese e ispiratore di tutto quanto è anti-tradizionale nel mondo moderno, apre una prospettiva che si presta a utili chiarimenti e approfondimenti. Non si può negare infatti che la critica di Evola, per quanto estremamente rozza e semplificatrice, contenga un nocciolo di verità. Nel cristianesimo, così come si è storicamente sviluppato nel corso di duemila anni, vi è sia la tendenza tradizionale, trascendente, spirituale, che pone l’accento sulla distinzione fra la Città celeste e la Città terrena, mostrando la loro assoluta eterogeneità e incompatibilità, sia la tendenza modernista, livellatrice, "politica", democratica, che effettivamente può rivendicare un ruolo nella formazione della cultura illuminista e quindi nella Rivoluzione francese, nonché nelle tendenze egualitarie moderne, il liberalismo, la democrazia, il socialismo e il comunismo. Che queste due tendenze esistano da sempre, è innegabile: nel corso dei secoli vediamo sovente riaffiorare quella democratica, dai Donatisti a fra’ Dolcino e da Thomas Müntzer a Pedro Arrupe e i gesuiti dei nostri giorni, quelli che ammirano la Cina comunista e la definiscono il modello che più s’avvicina alla realizzazione della dottrina sociale cattolica. D’altra parte, la tendenza principale è sempre stata quella tradizionale e spirituale, che non ha mai preteso d’instaurare il Regno di Dio su questa terra, ben sapendo che il Regno di Dio non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36) e che anzi quaggiù regna il principe del mondo, ossia il signore delle tenebre, che odia la luce e i figli della luce.
Poi, nel 1958, si è verificato un fatto nuovo, sconvolgente. La massoneria ha preso il controllo della Chiesa e da quel momento la tendenza liberale ha avuto il sopravvento, dichiarando finito il tempo della contrapposizione fra il Vangelo e il mondo, e accettando di fatto tutta una serie di cose che piacciono al mondo, dall’aborto alle unioni omosessuali, ma che la dottrina cattolica ha sempre condannato. È significativo che i discorsi di Bergoglio paiano scritti da un alto funzionario delle Nazioni Unite: vi si sente una piena adesione alla concezione moderna, massonica e illuminista, basata sui pretesi diritti dell’uomo e chiusa, in pratica, ai diritti di Dio. Qui effettivamente la critica di Evola ha una sua plausibilità: è lecito infatti vedere in questo tipo di cristianesimo la diretta continuazione dello spirito del 1789 (e ricordiamo che anche i discorsi di Giovanni Paolo II erano tutti incentrati sui diritti dell’uomo), nonché la forza che ha preparato le rivoluzioni moderne, perché odia la trascendenza e tutto ciò che è spirituale. Pertanto è qui che necessita un chiarimento…
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