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22 Luglio 2021Tutto, per Hegel, è giustificato in se stesso, perché ogni cosa fa parte di un processo dialettico ininterrotto, nel quale la tesi si scontra con l’antitesi ed entrambe generano, misteriosamente, la sintesi, distillato alchemico equivalente alla pietra filosofale: tutto ciò che è razionale è reale e tutto che è reale è razionale. Magnifica prospettiva che consente di giustificare tutto, di assumere tutto, anzi di "porre" ogni cosa, per usare una tipica espressione hegeliana: senza scartare nulla, senza dover distinguere nulla, senza che sia necessario operare una scelta irrevocabile. Il bello della filosofia hegeliana, si fa per dire, è che non occorre prendere posizione, neppure fra la verità e la menzogna, perché ogni cosa fa parte del divenire dialettico e ogni cosa ha la sua ragion d’essere, legittimata con il crisma di un’intrinseca razionalità.
L’impressione diffusa d’imbonimento, se non di vera e propria ciarlataneria, del sistema hegeliano, che sia Kierkegaard, sia Schopenhauer avevano ben visto e denunciato, deriva proprio dalla sua pretesa indimostrabile, e perciò inconfutabile, di potere e di voler spiegare tutto, grazie alla logica del "superamento" dialettico. È come se Hegel — l’osservazione è di Kierkegaard — pretendesse dal lettore una fede incondizionata nella bontà della conclusione: abbiate pazienza, dice mentre seguita a snocciolare un discorso dopo l’altra, alla fine capirete tutto, perché la conclusione spiegherà ogni cosa. Insomma la spiegazione è sempre rimandata: aspettate a sollevare delle obiezioni, abbiate pazienza e alla fine si chiarirà tutto. Ma quando poi si arriva alla fine, con la testa piena di confusione per l’impressionante gioco pirotecnico delle fumisterie hegeliane, ci si accorge che la promessa non è stata mantenuta; al che Hegel vi risponderà che il suo sistema è sempre in divenire, perché la realtà è sempre in movimento, non ci sono un principio e una fine, tutto scorre e tutto si "oltrepassa", e insomma la risposta viene rimandata di giorno in giorno, di secolo in secolo, anche se dubitiamo fortemente che arriverà mai la fortunata generazione meritevole di vedere sciolto l’arcano. Fra mille anni, pertanto, o fra duemila, i lettori e i discepoli di Hegel saranno ancora e sempre nella nostra stessa situazione; anche ad essi verrà detto: abbiate un po’ di pazienza, e alla fine capirete; oggi non si forniscono spiegazioni definitive, ma domani sì. E questo domani sempre rinviato al giorno successivo, non arriva mai.
Questo aspetto di esasperante presa in giro dell’idealismo hegeliano viene messo bene a fuoco da Søren Kierkegaard, con eleganza e una dose di sottile umorismo, nella Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia"(I, 1, 2.; in: S. Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni, 1993, p. 277 n):
È così che anche si deve comprenderlo scetticismo della filosofia hegeliana, tanto sbandierata per la sua positività. Secondo Hegel la verità è il processo storico mondiale continuato. Ogni generazione, ogni stadio è giustificato e non è quindi che un momento nella verità. Se qui non c’entra un pizzico di ciarlataneria che ci spinga a credere che la generazione in cui viveva il prof. Hegel, o quella che ora dopo di lui ha l’"imprimatur", che questa generazione è l’ultima e che la storia mondiale è passata: allora noi tutti siamo impegolati nello scetticismo. La questione appassionata della verità non può neppure sorgere, perché la filosofia è riuscita prima a rincitrullire gli individui facendoli diventare oggettivi. La verità positiva hegeliana è altrettanto fallace come la felicità nel paganesimo. Anzitutto si riesce soltanto in modo retrospettivo a sapere se si è stati felici, e così la generazione seguente riesce a sapere ciò che di vero c’era nella generazione morta. Il grande segreto del sistema (ma questo resti fra noi, come il segreto fra gli hegeliani!) è qualcosa di molto simile al sofisma di Protagora : "tutto è relativo", se non che qui tutto è relativo nel progresso che continua. Con ciò tuttavia colui che vive non ha vantaggio alcuno e se per caso egli conoscesse un aneddoto di Plutarco (nei "Moralia") del lacedemone chiamato Eudamida, se ne sarebbe senz’altro ricordato. Vedendo Eudamida nell’Accademia il vecchio Senocrate cercare la verità con i suoi discepoli, chiese: chi è quel vecchio? E poiché gli si rispose ch’era un uomo saggio, uno di coloro che vanno in cerca della virtù — egli gridò: «Ma quando allora se ne servirà?». Probabilmente è cosiffatto anche il processo che si continua e che ha prodotto il malinteso che sia necessario essere un asso della speculazione per poter svincolarsi dall’hegelismo. Tutt’altro! Per riuscire basta una intelligenza umana, sana, il senso del comico, con un po’ di atarassia greca. Fuori della "Logica", e in parte anche in essa, in una luce ambigua che Hegel non è riuscito a schivare, Hegel e l’hegelismo sono una ricerca nell’ambito del comico. Il beato Hegel ha probabilmente già trovato il suo maestro nel defunto Socrate, che senza dubbio ha trovato qualcosa da ridere, mentre invece Hegel è rimasto impassibile. Sì, Socrate lì ha trovato un uomo con cui valeva la pena di parlare, e specialmente di chiedere socraticamente (ciò che Socrate aveva cura di fare con tutti i morti): se egli sapeva qualcosa o se non lo sapeva [vedasi nel "Diario" il gustoso dialogo fra Socrate e Hegel nell’oltretomba ("Papirer" 1845, VI A 145), nota del curatore]. Bisognerebbe dire che Socrate è ben cambiato, se contrariamente alla propria indole, se ne è stato tranquillo a subire quando Hegel ha cominciato a declamate paragrafi a tutto spiano, promettendo che tutto sarebbe diventato chiaro nella conclusione. (…)
Per smontare i sofismi di Hegel non è affatto necessaria, come taluni ritengono, un’intelligenza eccezionale, capace di chi sa quali sottigliezze dialettiche; basta, dice Kierkegaard, un’intelligenza normalissima, però sana, e il senso del comico, più un pizzico di sovrano distacco. Un’intelligenza sana, perché c’è qualcosa di malato, di patologico, nel sistema hegeliano, e in generale in tutto il modo di ragionare idealistico. E tuttavia quei sofismi sono meno innocui di quel che si potrebbe immaginare. Non si tratta solo del vaneggiare di una mente che capovolge tutti i principi della logica, dal principio d’identità a quello di non contraddizione, e pretende di far scaturire l’essere dal pensiero, anziché il pensiero dall’essere; c’è dell’altro e di peggio: c’è un fondo tenebroso che deriva, da una parte, dal massonico e alchimistico solve et coagula, e dall’altro dalla Cabala ebraica: l’elisione degli opposti in vista di una loro sintesi, il che presuppone la negazione del bene e del male, del vero e del falso, del bello e del brutto. Le cose non sono assolutamente vere o false, buone o cattive, belle o brutte, ma si compenetrano e si trasformano l’una con l’altra, l’una nell’altra. Dio e il diavolo, il paradiso e l’inferno, la grazie e il peccato, sono solo momenti dialettici. Tutto è solo un momento dialettico, tutto è solo una fase preparatoria allo stadio successivo, come un edificio che cresce incessantemente, un piano dopo l’altro, smisuratamente, follemente, come la Torre di Babele; e non si ferma mai, perché gli architetti sono convinti, convintissimi, che solo gli sviluppi successivi potranno rendere ragione delle fasi precedenti. Perciò la parola d’ordine è andare avanti, avanti sempre, non importa dove, non si sa fino a quando, andare avanti senza fare domande, perché tanto tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale, tanto ti basti sapere e più non dimandare.
È terribile questo perenne andare avanti senza sapere verso che cosa, sospinti ciecamente dalle azioni precedenti, come se qualunque errore, qualsiasi colpa (ma ci sono colpe ed errori nel sistema hegeliano, relativistico per eccellenza e per necessità?) potesse e dovesse trovare giustificazione proprio in quel movimento, per cui tutto può essere scelto e tutto può essere fatto, anche le cose peggiori, perché in ogni caso la spiegazione la giustificazione stanno in qualcosa di ordine superiore, che noi qui, oggi, non posiamo vedere né capire, ma che, alla fine (domani!) apparirà chiaro, non si sa quando, non si sa soprattutto a chi, probabilmente non a noi che saremo già stati "oltrepassati" da un pezzo dal movimento della storia. Ma che importa? Queste sono quisquilie; che importanza ha il desiderio di capire del singolo individuo, in un sistema così possente, così ciclopico, così universale, come quello di Hegel, dove le piccole unità di misura non contano niente, perché la storia si fa con i secoli e i millenni e lui solo, il beato Hegel, potrà assidersi al culmine della sua creazione e contemplarla soddisfatto da quelle sublimi altezze? Per noi, comuni mortali, la razionalità del reale ha previsto un altro copione; a noi non è dato comprendere, ma è richiesto solo di aver fede. Consolati dalla certezza che ogni istante, ogni granello infinitesimale della nostra vita così come i millenni della storia, hanno la loro ragion d’essere nel reciproco e incessante superamento dialettico, possiamo ben accettare un così lieve sacrificio. Via, i piccoli uomini non devono essere egoisti, né aggrapparsi alle quisquilie e pretendere chiarezza circa le loro minuscole esistenze individuali: dove si andrebbe a finire, se ciascuna formichina pretendesse di sapere quale sia la ragion d’essere del formicaio? Infine, quella ragione la sanno, o quantomeno dicono di saperla i professori di filosofia che occupano le cattedre più prestigiose e tengono i corsi universitari più affollati: possibile che non basti?
A ben considerare, l’hegelismo è la filosofia perfetta per questi nostri tempi meravigliosi della globalizzazione e del Nuovo Ordine Mondiale, che stiamo vivendo. Prendiamo il sabba infernale di Astana, nel quale i rappresentati di tutte le religioni s’incontrano per celebrare e adorare non si sa quale dio del cielo, o quale diavolo dell’inferno: è una conseguenza naturale della dialettica hegeliana. Perché, nella visione di Hegel, Dio e il diavolo sono due momenti dialettici che vanno entrambi superati; e si superano nella sintesi, che sarà un qualcosa che ha in sé elementi divini ed elementi diabolici. Tutto ciò è tipicamente esoterico, occultistico e cabalistico: e infatti il pensiero di Hegel non viene dalla logica, impeccabile, razionale tradizione di Aristotele e san Tommaso d’Aquino; non viene dalla philosophia perennis, perché ignora la metafisica, o meglio la identifica con la storia, e quindi fonde le due cose in una sorta di panteismo assoluto; viene piuttosto dalla Cabala, come quello di molti altri filosofi moderni che ne condividono l’orizzonte di fondo: l’indistinto e l’indifferenziato, e soprattutto l’ambizione di "oltrepassare" l’esistente per far nascere un nuovo aspetto del reale.
La verità è che Hegel è un mente grossa: una di quelle pesanti, ottuse menti tedesche (e quanto le prendeva in giro il buon vecchio Nietzsche, lui sì, un tedesco sui generis!); e come Lutero, altra mente grossa tipicamente germanica, non aveva alcuna sensibilità per le sfumature del pensiero, ma tagliava i concetti con la mannaia, per il solo piacere di ricomporli secondo un disegno di suo gusto. Il che gli costava tanta fatica da indurlo ad ammettere, in un raro slancio di sincerità, che lui stesso talvolta non capiva più, dopo aver posato la penna, il senso di ciò che aveva appena scritto sul foglio. Nella sua mente il pensiero cabalistico, che ha una sua perversa raffinatezza, un suo fascino indubbio, benché sulfureo, diventa la piatta, noiosissima, fluviale lezione cattedratica di un pedate professore tedesco. Ed ecco il buon Hegel sbizzarrirsi a cercare ovunque applicazioni concrete al suo principio triadico della tesi, sintesi e antitesi, per esempio nella configurazione dei continenti, asserendo che la forma tozza e massiccia dell’Africa è indizio sicuro del carattere tardo e grossolano dei suoi abitanti e dell’arretratezza della loro civiltà. C’è tuttavia un problema: che i continenti, sulla scala della storia (non della geologia) restano sempre gli stessi, mentre l’evoluzione umana va sempre avanti, grazie al movimento dialettico. E allora come mai la forma dell’Africa resterà immutata nei prossimi diecimila anni, quando la civiltà dei suoi abitanti sarà stata stimolata dall’antitesi dell’incontro/scontro coi popoli non africani? Se tutto si supera, se tutto si oltrepassa, come potrebbe qualcosa restar fermo, e come si potrebbe parlare dei caratteri di un popolo o di una cultura? Ma non crediate d’averlo colto in flagrante contraddizione, Hegel avrebbe una risposta per tale obiezione, come per qualsiasi altra: non ci sono contraddizioni nel sistema di Hegel perché tutto incessantemente diviene. L’uomo diviene, la realtà diviene, Dio diviene. Perciò non si può mai dire: eccoti, t’ho preso! Hegel in questo senso è il pensatore moderno per eccellenza: è moderno perché è sempre proteso in avanti, è sempre perfino davanti a se stesso. Essere in contraddizione è la stessa cosa che essere in ritardo, ma Hegel è sempre in anticipo: ha una tale fede nel progresso universale, nel progresso come principio cosmico onnisciente e onnipossente, che gli basta salire sul treno del progresso per essere certo che nessuno mai lo troverà in ritardo. Anche per questo è il filosofo più adatto a questi nostri tempi: in lui salutiamo con riverenza il profeta dell’infallibilità del progresso, della marcia trionfale della ragione. Una ragione che aderisce così bene alle cose, che a rigore non dovrebbe essere chiamata più ragione, perché la ragione è il pensiero delle cose, distinto e separato da esse. Ma anche questa, vedete, è una critica retrograda, che si spunta contro la perenne modernità e la perenne freschezza e giovinezza di Hegel. Chi potrebbe competere con lui? È il filosofo che più d’ogni altro si trova a suo agio in ogni tempo e luogo, per l’ottima ragione che li ha già oltrepassati…
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