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Questi nostri figli, specchio dell’età postconciliare

Può essere molto utile, per capire il particolare clima spirituale e religioso che ha caratterizzato la società italiana, e specialmente la sua componente cattolica, negli anni ’60 del secolo scorso, vedere – o rivedere, a seconda della propria età anagrafica – lo sceneggiato televisivo Questi nostri figli, diretto da Mario Landi nel 1967 (https://www.youtube.com/watch?v=aeNB7xAqQvU). Scritto da Diego Fabbri e liberamente tratto da un romanzo poco conosciuto di François Mauriac, Pane vivo, lo sceneggiato in quattro puntate è interamente ambientato a Bologna e girato con mezzi non grandissimi, però con molta professionalità e buon gusto, mettendo al centro la problematica religiosa negli anni decisivi dell’immediato post-Concilio, poco prima dell’introduzione del Nouvs Ordo Missae derivato dalla riforma liturgica voluta da Paolo VI. Gli attori sono molto bravi, provenienti quasi tutti, come allora usava, dal teatro; dei due giovani protagonisti, quasi un Renzo e una Lucia proiettati nell’epoca delle discoteche e della contestazione, si sono perse poi le tracce, ed è un vero peccato, perché avevano dato un’ottima prova delle loro capacità. Andrea Lala nei panni di Leonardo, il figlio ventiduenne di due scienziati agnostici e razionalisti, che lo hanno cresciuto senza battesimo e lontano da ogni pratica religiosa, e Nicoletta Languasco in quelli di Chiara, la figlia d’un professore, dirigente dell’Azione Cattolica (Antonio Battistella), abbandonato anni prima dalla moglie e inaridito nella propria solitudine, con un altro figlio scapestrato (Lino Capolicchio) che suona il sassofono invece di studiare, sono gli interpeti di questa tenera e sofferta storia d’amore che deve confrontarsi non solo e non tanto con l’enorme diversità culturale dei rispettivi ambienti di provenienza, ma anche con il dramma familiare di lei, caratterizzato dalle tensioni fortissime fra padre e figlio e da una esagerata possessività del padre nei confronti della figlia, sulla quale egli ha riversato tutto il suo bisogno di aggrapparsi a qualche brandello della perduta felicità domestica. Lei specialmente, una presenza fisica non irresistibile secondo gli standard comuni, eppure un volto dolcissimo e capace di accendersi di una vivida luce interiore quando s’immedesima nella sua parte di ragazza innamorata dell’Amore con la maiuscola, lascia il segno e resta a lungo nella memoria dello spettatore; quando lei non c’è, è come se il sole se ne fosse andato dietro un banco di nuvole. Le riprese degli esterni a Bologna, città forse non bellissima, ma che grazie alla cinepresa di Mario Landi acquista un fascino straordinario, e la colonna sonora iniziale e finale, costituita dalla canzone di Lugo Tenco (che era appena morto a Sanremo in circostanze oscure, e del quale cominciava a diffondersi la leggenda postuma) Guarda se io, una delle più intense del cantautore genovese, fanno il resto. Per cui si può anche chiudere un occhio su una certa fissità dei personaggi e su una certa verbosità dei dialoghi, peraltro assai curati, derivante dall’origine letteraria della storia, elementi che tendenzialmente ne farebbero più un soggetto teatrale che televisivo, perché, se si tolgono le scene all’aperto (molto bella quella della salita al santuario di San Luca) e i frequenti spezzoni musicali coi successi allora in voga (c’è perfino un giovane e paffuto Lucio Dalla che si esibisce in diretta), si potrebbe immaginare benissimo la storia su d’un palcoscenico di teatro, e le quattro puntate come i quattro atti di un dramma moderno a lieto fine.

Dicevamo che Questi nostri figli è un documento televisivo di eccezionale interesse (quando la Rai era una cosa seria, e la televisione un valido strumento educativo) per capire le speranze, i dubbi, le contraddizioni e tutto il confuso ribollire di pensieri e sentimenti che hanno vissuto gli italiani, e specialmente i credenti, nel giro dei pochi anni che vanno dal 1962 al 1969, nei quali si consuma la parabola di una vagheggiata rinascita sociale e un’impossibile ripartenza su basi interamente nuove. Facendo la tara ad alcune eccessive concessioni al gusto dei tempi (i personaggi che fumano in continuazione; fuma persino il parroco del paesino ove il protagonista si è rifugiato per sfuggire alle sue pene d’amore, e col quale intreccia un surreale dialogo notturno), si respira un’aria di grande pulizia morale, di rigore quasi ascetico, e si resta incantati e anche un po’ commossi nel vedere quanto idealismo vi fosse nei giovani di allora, e come quel magnifico patrimonio sia evaporato negli anni successivi, a una velocità impressionante, per dare luogo poco dopo alla stagione del terrorismo e della cieca contrapposizione ideologica, tutta giocata sul terreno del materialismo e della stupida e feroce utopia rivoluzionaria. Oggi pare quasi incredibile che due giovani come Leonardo e Chiara possano aver vissuto il loro amore sotto il segno di un’esigente, ineludibile problematica di tipo religioso; che il loro mondo, le loro speranze e aspettative abbiano potuto ruotare intorno alla domanda di Dio. Vi è molta pulizia nel loro animo; un po’ meno in quella dei loro genitori, fossilizzati nei rispettivi ruoli e incapaci, o quasi, di mettersi in discussione, di instaurare coi loro figli un dialogo autentico. A un certo punto si ha la netta sensazione che i veri genitori siano loro, i ragazzi, capaci di vedere con comprensione affettuosa le debolezze e le contraddizioni dei loro padri e delle loro madri; e che i veri figli siano loro, i "vecchi", abituati a indulgere alle proprie manie e ai propri schemi pregiudizi come dei ragazzi un po’ viziati, immersi nei loro giochi preferiti. E proprio in questo ribaltamento di ruoli e prospettive, che raramente raggiunge punte di vera asprezza (come nel caso del rapporto fra il padre di Chiara e il figlio Ferruccio, giunti quasi a odiarsi) si svela la cifra cristiana dell’opera, perché la chiave per comprendere l’altro e per superare i conflitti è sempre l’amore (inteso, come dice un personaggio, come la bontà del cuore): e a saper amare davvero possono essere benissimo dei ventenni più di quanto non lo siano i cinquantenni.

In filigrana, però, nello sceneggiato è visibile anche dell’altro. La società laica è pervasa da vaghi interrogativi religiosi: significativa la scena in cui il padre di Leonardo (Adolfo Geri), un chimico che ha sempre escluso Dio dal proprio orizzonte intellettuale ed esistenziale, legge con un misto di diffidenza e curiosità un libro di Teilhard de Chardin. Ma, appunto, sono interrogativi vaghi e, per giunta, mal diretti: se almeno avesse sfogliato un volume di San Tommaso d’Aquino! E lì si vede il carattere contingente, quasi militante, di questo coraggioso, ma un po’ velleitario sceneggiato: perché vuol gettare a ogni costo un ponte fra due mondi reciprocamente inaccessibili, ma non sa come farlo, e si appiglia alle mode del momento. Teilhard, il gesuita eretico, era anche uno scienziato, un paleontologo evoluzionista: per cui le sue opere sono in apparenza le più adatte a catturare l’interesse d’un non credente. Peccato che la sua concezione del mondo, e di Dio stesso, non sia cristiana, ma di un panteismo vagamente verniciato di cristianesimo, e perciò alquanto fuorviante, tanto per un cattolico che per un laico alle sue prime curiosità in fatto di religione. La definizione dell’amore data da una suora, la bontà del cuore, piacerebbe a Ernest Renan e a tutti i modernisti, perché riduce l’amore a puro sentimento; mentre l’amore cristiano, la charitas, è sentimento, sì, ma sentimento indirizzato dalla ragione e diretto dalla volontà, proprio come lo è la fede, che, nel cristiano, coincide in definitiva con l’amore stesso. Se sì identifica l’amore con la bontà, si rischia di cadere nel buonismo, perché non sempre la bontà è illuminata dalla grazie e quindi non sempre si volge nella giusta direzione: in un certo senso essa è cieca, come lo è l’amore, quando è solo un sentimenti umano. Manca perciò, nella definizione della suora, sia l’elemento razionale, sia, soprattutto, la dimensione soprannaturale: il vero amore infatti è sempre un dono di Dio agli uomini, i quali da se stessi, anche nelle circostanze più favorevoli, non sanno amare nella maniera giusta, né l’oggetto giusto, e neanche perseverare nell’amore quando sorgono delle serie difficoltà. E anche questa possiamo considerarla una concessione ai tempi, cioè ai tempi del Concilio da poco concluso, e del clima di fermento, generoso ma disordinato, creatosi nella Chiesa negli anni immediatamente successivi. Era l’epoca in cui si costruivano chiese e conventi a più non posso (uno, assai imponente e architettonicamente audace, cioè "moderno", anche nella nostra città natale, Udine, per volontà dei cappuccini): chiese destinate a restare semivuote, e conventi destinati a non ospitare mai i frutti delle attese nuove vocazioni. Il Concilio aveva dato l’illusione di aver rinnovato tutto e dato una potente boccata d’ossigeno a un cristianesimo languente, mentre era vero il contrario: gli aveva assestato il colpo finale. La smania del nuovo per il gusto del nuovo, quale che sia, anche il più strambo e discutibile; l’implicito e talvolta esplicito disprezzo del "vecchio", ossia della Tradizione; la pretesa di rifondare quasi la liturgia, la catechesi, la pastorale e da ultimo persino la dottrina, sempre in nome di quella parola magica, "dialogo", che aveva maleficamente pervaso l’intera atmosfera dei lavori conciliari, e ispirato i peggiori documenti (la Dignitatis humanae, la Nostra aetate e la Gaudium et spes) e le più pericolose ambiguità: tutto questo stava per condurre la Chiesa e i fedeli là dove inevitabilmente arrivano tutte le rivoluzioni – e quella, anche se non parve, fu una rivoluzione perfetta, se mai ve ne sono state – cioè a bruciare se stesse e a tagliare i ponti con il passato, senza però saper aprire una strada percorribile verso il domani, perché sul nulla non si può costruire alcunché, e chi sa solo togliere e disprezzare, non saprà mai costruire per la durata.

La figura più emblematica, dal punto di vista sociale e culturale, è quella del professor Fantuzzi, il padre di Chiara. È un cattolico intransigente, tutto d’un pezzo; ricopre un importante incarico al vertice dell’associazionismo cattolico, e sente odor di siluramento: la scena in cui lo profetizza ai sui colleghi, dicendo che ormai essi sono considerati dei sorpassati che si possono accantonare come oggetti inservibili, è terribilmente aspra e veritiera. Si potrebbe pensare che Fabbri, dipingendo quest’uomo con e un vecchio inasprito dalla vita e irrigiditosi a forza di delusioni, rappresenti quel certo tipo di cattolicesimo che era giusto e benefico archiviare, per voltar pagina e iniziare una nuova stagione. Poi, però, nella scena in cui egli viene effettivamente silurato, e uno spocchioso e antipatico monsignore (l’attore Silvano Tranquilli) gli dice senza mezzi termini, con pretesca untuosità, che è giunto il momento di andarsene, è anch’essa memorabile, ma in un altro senso. Quello che gli viene rimproverato è di avere una famiglia dissestata, con una moglie che ha dato pubblico scandalo andandosene con un altro uomo, e un figlio scioperato e sospettato dalla polizia di trafficare negli ambienti ove si spaccia la droga: un colpo basso e meschino, che lo mette in ginocchio non per quello che egli è, o che ha fatto, ma per quello che hanno fatto i suoi familiari, e per ciò che pensano i vicini pettegoli. A quel punto lo spettatore comincia a sospettare che nel mirino del regista non ci siano tanto i cattolici tradizionalisti, ma anche, e forse sopratutto, i progressisti falsi e politicizzati, che badano alle apparenze e vogliono un cambio della guardia non per motivi di sostanza, ma di presentabilità. Non solo. Quando, rivolto agli amici (ma ha degli amici, poi, quest’uomo vinto dalle disgrazie e inaridito dalle amarezze?) avanza il sospetto che a volere la sua testa sia proprio il cardinale in persona, il pensiero corre a colui che era arcivescovo di Bologna a quell’epoca: il pessimo cardinale Lercaro, una delle figure più negative del Concilio, talmente ultraprogressista da far apparire, al confronto, i personaggi più audaci e spregiudicati come prudenti e moderati. Anche la scelta di girare l’intero sceneggiato nella città di Bologna la rossa, può essere letto in due maniere differenti. Da un lato può essere stata una mossa per strizzare l’occhio al comunismo e al cattolicesimo di sinistra; come dire: «Veniamo in mezzo a voi, sapendo quel che pensate di noi, per farvi vedere concretamene che la nostra idea di dialogo non è solo teoria, ma che vogliamo e sappiamo metterla in pratica, anche dove siamo in evidente minoranza». Non è in quella città che si è formata la Scuola di Bologna; non è da lì che Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni hanno iniziato la glorificazione storiografica (e antistorica) del Vaticano II? Però può essere stato anche un segnale di umiltà: «Guardate, noi cattolici ci mettiamo in discussione proprio qui, dove siamo in minoranza, e dove la cultura laicista e anticlericale è sempre stata ben più forte della nostra; non abbiamo alcuna difficoltà a lavare i nostri panni sporchi in pubblico (il che è sempre una pessima idea), perché non abbiamo nulla da nascondere».

È un dubbio destinato a restare irrisolto. L’aspetto più commovente di questo sceneggiato, infatti, è proprio l’evidente sincerità dei personaggi, specie dei giovani, nel loro sforzo di trovare un cristianesimo adatto alle condizioni del mondo moderno, laicizzato e secolarizzato, e lo stridente contrasto di essa con la consapevolezza, maturata nel corso degli anni (non certo allora: chi scrive frequentava ancora le scuole elementari, pur ricevendo una forte impressione da quel programma televisivo), che quella volontà di dialogare a ogni costo con chiunque, anche coi nemici che non cessavano d’essere tali perché il Concilio aveva proclamato il disarmo unilaterale, e anzi proprio allora celebravano la loro storica vittoria, impadronendosi del vertice della Chiesa e insediando sul soglio di Pietro i candidati della massoneria ecclesiastica, tutto ciò avrebbe portato al disastro. Commuove e lascia assai turbati il pensiero che uomini e ragazzi puliti, come Chiara e lo stesso Leonardo, si siano illusi e siano stati ingannati, strumentalizzati e traditi. Eppure è stato proprio così.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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