Questa è innanzitutto una battaglia per la verità
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6 Luglio 2021Ci proponiamo di svolgere una riflessione sulle Briciole di filosofia, nell’Intermezzo fra il capitolo quarto e il capitolo quinto, intitolato È forse il passato più necessario del futuro?, e precisamente sul § 3, intitolato Il passato (in: Søren Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni, 1993, p. 240):
Ciò ch’è accaduto, è fatto e non si può rifare; a questo modo non si può cambiare (lo stoico Crisippo, Diodoro di Megara). Quest’immutabilità è mai quella della necessità? L’immutabilità del passato è avvenuta mediante una mutazione, quella del divenire, ma una simile immutabilità non esclude ogni mutazione poiché essa non l’ha esclusa. Ogni mutazione infatti (dialetticamente rispetto al tempo) è esclusa unicamente per questo, ch’è esclusa in ogni istante. Se si vuol considerare il passato come necessario, ciò non è possibile che dimenticando ch’esso è diventato: ma una simile dimenticanza sarebbe anch’essa necessaria?
Ciò ch’è avvenuto è avvenuto nel modo com’è avvenuto, e sotto quest’aspetto immutabile: ma è forse questa l’immutabilità della necessità? L’immutabilità del passato è l’invariabilità del "così" com’è avvenuto: ma segue forse da questo che il suo "come" non poteva essere diversamente? Invece l’immutabilità del necessario si rapporta continuamente a se stessa e sempre allo stesso modo, con l’esclusione di ogni mutazione, non accontentandosi dell’immutabilità del passato, la quale non è (come si è accennato) dialettica soltanto rispetto alla mutazione precedente da cui procede, ma lo è anche rispetto a una mutazione superiore che la toglie (per esempio quella del pentimento che vuol togliere una realtà).
Il futuro non è ancora accaduto, ma non PERCIÒ è meno necessario del passato, perché il passato non è diventato necessario coll’essere accaduto, ma al contrario l’essere accaduto dimostrò che non era necessario. Se il passato fosse divenuto necessario, non si potrebbe dedurre una conclusione opposta rispetto al futuro, ma si dovrebbe dire che anche il futuro è necessario. Ammesso che la necessità possa infiltrarsi in un punto, non si può più parlare né di passato né di futuro. Voler predire il futuro (profetare) e voler comprendere la necessità del passato, sono completamente la stessa cosa e c’è differenza soltanto nel modo che a una generazione può sembrare più plausibile che a un’altra. Il passato è ormai accaduto; il divenire è la mutazione della realtà mediante la libertà. Se ora il passato fosse diventato necessario, non apparterrebbe più alla libertà, vale a dire a ci che l’ha fatta divenire. La libertà si troverebbe allora in una posizione critica e non si sa se si deve ridere o piangere, perché essa sarebbe responsabile di ciò che non le appartiene, come causa di ciò che deriva con necessità. E la libertà stessa diverrebbe un’illusione non meno del divenire; la libertà diverrebbe magia, il divenire un falso allarme.
A commento di questa pagina, potremmo anche dire che il passato è qualcosa che è accaduto nel tempo e dunque riguarda il tempo, mentre la possibilità che una cosa accada o non accada non riguarda il tempo, ma un altro genere di realtà, che è, in un certo senso, il contrario del tempo, ossia quel varco misterioso che s’insinua nella dimensione del tempo e la modifica: la libertà. La libertà sta al tempo come il poter essere sta all’esistente. Al tempo stesso, il passato non è tempo come durata, come successione di istanti, anni, secoli o millenni, bensì è la fossilizzazione del tempo: è il tempo congelato, pietrificato, reso immobile e definitivo, una volta per sempre. Ma immobile e definitivo, cioè irrevocabile, non significa, di per sé, necessario: Kierkegaard ha perfettamente ragione. Il passato può essere considerato come necessario solo dopo che è accaduto; ma prima che accadesse, necessario non lo era, così come non lo è il futuro. È un errore pensare che il passato sia più necessario del futuro; vi sono tante ragioni per supporre che il passato dovesse per forza accadere come è accaduto, quante ve ne sono per congetturare che il futuro sarà in un determinato modo, anziché in un altro. Ma divenire significa durata e mutamento; e dove ci sono durata e mutamento c’è la possibilità che una cosa sia in un modo oppure in un altro; e dove esiste questa possibilità, lì regna non la necessità, ma la libertà. La libertà non è un fattore temporale. I fattori temporali sono quantitativi, mentre la libertà è un fattore qualitativo o modale. Essa cioè significa che una cosa non accade perché deve accade, ma accade perché può accadere, o anche non accadere. Se si dovesse giudicare il passato come necessario solamente perché, a posteriori, vediamo che sono accadute certe cose e in un certo modo, dovremmo anche ignorare il fatto che il passato è tale visto dal nostro punto di vista; ma non così lo vedevano i contemporanei, quando esso era presente, e tutte le determinazioni future erano, o parevano, ancora aperte e possibili. Infatti, come noi pensiamo che il futuro sia imprevedibile, perché non è ancora accaduto, così dobbiamo pensare che si presentava quello che ora è passato, all’epoca in cui non era passato, ma presente, e coloro che lo vivevano non sapevano affatto cosa sarebbe accaduto, e in che modo. Potevano, tutt’al più, fare delle congetture e tirare a indovinare, proprio come noi facciamo nel nostro presente, riguardo al futuro. Ma anche quello che per noi è futuro, domani sarà passato; e quelli che verranno dopo di noi, guardando il nostro presente di allora, che per loro sarà passato, saranno portati a credere che esso doveva per forza di cose svolgersi così come si svolto, mentre i contemporanei non avevano alcuna idea di quel che sarebbe accaduto, non diciamo di lì a due o tre anni, ma neppure il mattino successivo. Quanti paesi si sono addormentati quieti e tranquilli, ma al mattino erano scomparsi, spazzati via da un terremoto o da qualche altra catastrofe verificatasi nella notte? È così: noi non sappiamo nulla del futuro, e non lo sappiamo perché il futuro è possibilità, e quindi necessariamente è anche libertà. La libertà esiste solo dove esiste la possibilità: dove non c’è la possibilità, vige la necessità assoluta. Ma quel che noi pensiamo del nostro futuro, vale per il futuro in generale, proprio perché non è ancora accaduto. Per gli uomini vissuti ieri, il loro futuro doveva ancora accadere, e perciò essi non ne sapevano nulla, ed erano tanto ignari di quel che sarebbe accaduto, quanto lo siamo noi di quel che ci accadrà.
C’è poi un’altra cosa da considerare, e cioè che il passato ci appare come il regno della necessità perché è già accaduto, ma la verità è che proprio il fatto di essere accaduto ci dà la prova del fatto che esso non era necessario. Infatti, se una cosa accade, quella stessa cosa potrebbe anche non accadere: solo Dio è l’assoluto e quindi solo Dio è, eternamente e assolutamente; tutti gli altri enti sono, ma potrebbero non essere; accadono, ma potrebbero non accadere. In ogni caso, se accadono, perciò stesso si manifestano attraverso un mutamento: c’è un prima e un dopo: prima non c’era nulla, poi c’è qualcosa; prima un certo ente era in un certo modo, poi è mutato. Ciò che muta appartiene al tempo, e ciò che appartiene al tempo appartiene al contingente, ma anche alla libertà. La libertà infatti si manifesta là dove le cose possono mutare, dove si apre un varco nella muraglia della necessità, là dove il tempo si deforma sotto la misteriosa azione del possibile che prende forma e modifica il reale. L’uomo è libero di scegliere e di agire — gode di una libertà relativa, ovviamene, e tuttavia per lui decisiva — proprio perché è contingente: c’è, ma potrebbe anche non esserci. Potrebbe perfino sceglie di non esserci, togliendosi di mezzo. Ma anche questa sarebbe un’azione di libertà, e dunque un qualcosa che avviene nel tempo — c’è un prima e un poi, prima la vita e poi la morte — ma al tempo stesso c’è una via di fuga dal tempo, se il tempo è necessità. Ma il tempo appare come necessità solo considerandolo nella sua durata: si guarda al passato e si vede che è stato; si guarda al futuro e si pensa che ancora non è stato, ma sarà — si pensa che sarà, in effetti potrebbe anche non esserci. In entrambi i casi, passato e futuro, il tempo è qualcosa che pare eludere la nostra libertà di scelta: il passato perché non è più, è andato via per sempre; il futuro perché non è ancora, e di esso non sappiamo assolutamente nulla. Se però consideriamo il tempo nella sua attualità, cioè nell’istante presente, senza passato e senza futuro – e il presente è la sola cosa che realmente esiste, dice sant’Agostino — allora vediamo che esso non è durata, ma assenza di durata: e ciò che è assenza di durata non appartiene più al tempo, ma all’assoluto e all’eterno. Ecco allora che il presente è fuori del tempo, è sospeso fra i due abissi del passato e del futuro, che sono tempo nel pieno senso della parola. In altre parole, il tempo racchiude in se stesso, come l’ostrica racchiude la perla, un tesoro inestimabile che è fuori del tempo: l’istante, che è tempo assoluto, o meglio assenza di tempo, così come il punto è assenza di spazio e non uno spazio definito, e sia pure infinitamente piccolo (cfr. i nostri saggi: Il punto è per Euclide qualcosa di esteso o di inesteso?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 31/12/07 e sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/11/17; e La disputa fra realismo e nominalismo: lo spazio geometrico è un oggetto "reale"?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/11/17).
A questo punto, proviamo a tirare le somme del nostro discorso, riferendoci al cristianesimo. Lo sviluppo e la diffusione mondiale del cristianesimo, fino a noi uomini d’oggi, era qualcosa di necessario? Per rispondere a questa domanda, bisogna rifarsi al concetto della libertà come dimensione assoluta. Dio era libero d’incarnarsi oppure no; era libero di redimere gli uomini oppure no? Quelli che affermano che Dio ha bisogno degli uomini, e inoltre che Gesù è certamente morto sulla croce, come dice la storia, mentre non si sa se sia davvero risorto, ciò che crede la fede, non sanno quel che vanno cianciando — oppure lo sanno anche troppo bene. Dio è il Bene Assoluto: e il Bene Assoluto sa quel che è meglio per le creature, molto più di quanto non lo sappiano esse. Per questo Egli le chiama, una ad una; ma esse, il più delle volte, non lo ascoltano – e poi si lamentano del fatto che non ne odono la voce. Ma non la odono perché non vogliono ascoltare; hanno la testa piena dei rumori di quaggiù, e l’anima sconvolta dalle passioni carnali Chi vive secondo la carne, non vede, né ode ciò che è secondo lo spirito: fra le due cose, la dimensione spirituale e quella carnale, vi è un abisso incolmabile. Dunque, essendo Libertà assoluta, ma anche Amore assoluto, Dio si è incarnato e ha voluto offrire agli uomini la possibilità della Redenzione. La Redenzione non è per tutti, perché se lo fosse, il biglietto d’ingresso al Paradiso sarebbe gratuito, mentre è vero il contrario: che la strada che conduce al Paradiso è lastricata di difficoltà, lacerazioni e incomprensioni, e quindi richiede un autentico esercizio di libertà. Da una parte c’è la via più facile, quella del mondo; dall’altra la via erta e scoscesa, quella che conduce a Dio, e che consiste nel fare, qui, adesso, la Sua volontà, ora e sempre. Chi fa la volontà di Dio, è con Dio e si sottrae alla tirannia della carne; a certe condizioni, si sottrae anche alla tirannia del tempo, perché vive già nell’assoluto, o meglio in un’anticipazione dell’assoluto, quasi una caparra del Paradiso. Dio poteva non incarnarsi; poteva non offrire la possibilità della Redenzione? Lo poteva, essendo Libertà assoluta; non lo poteva, essendo Amore sconfinato, e solo con quella forma estrema di amore poteva venire in aiuto degli uomini. Parliamo da un punto di vista umano, si capisce: ma cos’è la mente dell’uomo, cosa i suoi ragionamenti, al cospetto di Dio?
Dunque, Dio si è incarnato e si è offerto per la Redenzione: ma tutto questo avrebbe potuto restare nascosto, sconosciuto, circoscritto? O era fatale, cioè deciso secondo necessità, che il cristianesimo si espandesse fino a raggiungere tutti i popoli che vivono sulla terra? Qui bisogna distinguere fra la prescienza di Dio e la necessità secondo il punto di vista umano. Dio sapeva, anzi sa, perché in Lui ogni cosa è eternamente presente, che le cose sarebbero andate come poi sono andate: perché Egli chiama ciascun uomo, e gli uomini che hanno risposto alla sua chiamata, hanno diffuso la sua Rivelazione per tutta la terra. Ma avrebbero anche potuto non farlo. Chi risponde alla chiamata, lo fa perché è libero. Lutero, nemico del libero arbitrio, è costretto a negare che le scelte degli uomini, frutto del libero arbitrio, facciano la differenza per il loro destino. E a questo punto Kierkegaard non segue più Lutero, ma guidato dalla ragione naturale giunge da sé, a dispetto del suo luteranesimo, alla conclusione opposta: che i discepoli di Cristo, oggi, sono nella stessa situazione di quelli a Lui contemporanei, perché come essi, allora, non sapevano quel che sarebbe accaduto, neppure se Egli sarebbe risorto dalla morte, così noi, che siamo venuti al mondo duemila anni dopo, dobbiamo scommettere su qualcosa che non vediamo, non tocchiamo, ma che, pur essendo in accordo con la ragione naturale, non ha carattere di assoluta necessità, quindi potrebbe essere il frutto d’un disegno divino, ma anche una generosa illusione tutta umana. Ed ecco la tentazione furbesca, oggi di gran moda fra i modernismo che si spacciano per cattolici, di separare le certezze della storia, come la morte di Cristo sulla croce, dalle verità di fede, come la Sua Resurrezione. Ed è questo l’appuntamento cui il cristiano non si può sottrarre: quello con l’eterna domanda: e voi, chi dite che io sia? Tutto dipende dalla risposta a questa domanda: il relativo e l’assoluto, la necessità e la libertà.
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