Hitler voleva tradurre in Germania Pio XII?
30 Giugno 2021Il trucco diabolico che serve a legittimare il male
1 Luglio 2021Senza dubbio i giorni della cosiddetta Liberazione sono stati fra i più bruiti, se non i più brutti in assoluto, nella storia d’Italia degli ultimi secoli: le vendette bestiali, i crimini, le violenze selvagge che chiusero il capitolo sanguinoso della guerra civile, e che proseguirono, a bassa intensità, per altri tre anni, con assassinii mirati e misteriose morti bianche, riportarono il clima morale di un popolo fra i più civili d’Europa e del mondo a un livello preistorico, degno delle tribù di cannibali e tagliatori di teste che mai avevano anche solo udito parlare delle cattedrali, della Summa Teologica, della Divina Commedia e della pittura di Giotto. Furono i giorni della vendetta senza limiti e senza rimorsi per i vincitori, o meglio per i profittatori che si presentarono nel vuoto di potere fra la ritirata tedesca e l’arrivo delle forze angloamericane, i quali non avevano vinto un bel nulla, ma che nell’aprile del 1945 assunsero le pose di un esercito eroico e vittorioso, mentre si erano dedicati perlopiù ad assassinare podestà e federali senza scorta, soldati tedeschi isolati e donne accusate di collaborazionismo, mentre erano magari semplicemente impiegate come dattilografe o interpreti o cuoche presso qualche comando germanico o della RSI, o maestre elementari la cui terribile colpa era stata dettare ai bambini un pensierino in lode di Mussolini, o peggio di tutto, crocerossine inquadrate nelle forze armate repubblicane, responsabili di aver amato la Patria e di aver voluto dare un contributo di umanità e solidarietà alle famiglie straziate dalla guerra e dai bombardamenti aerei dei "liberatori". E così padri e madri di famiglia, sacerdoti e perfino giovanissimi seminaristi, come Rolando Rivi, o bambine tredicenni, come Giuseppina Ghersi, vennero sacrificati alla furia dei sedicenti vincitori in una specie di macabro rito collettivo di morte, quasi una cerimonia di purificazione e di catarsi con la quale molti vollero rifarsi una verginità politica e accreditarsi quali affidabili elementi della nuova Italia libera, o meglio "liberata" (a suon di bombe), e naturalmente democratica. Democrazia gentilmente importata dai cingoli dei carri armati angloamericani e non certo dai quattro vecchi arnesi, don Sturzo, Salvemini, Orlando, De Nicola, inguaribili intriganti e ambiziosi senza fortuna, che da molti anni avevano preso la via dell’esilio o si erano rintanati in qualche comodo angolino, e dei quali nessuno più si ricordava, né aveva sentito la mancanza, fino a quando gli Alleati se li erano trovati sotto mano e li avevano utilizzati, assieme a un gruppo di mafiosi italo-americani, per impiantare una nuova classe dirigente e intellettuale che fosse funzionale ai loro interessi e ligia alla loro volontà.
Abbiamo già parlato di alcuni di quegli eccidi vergognosi e indegni d’una nazione civile, che in alcune zone, come nel "triangolo della morte" dell’Emilia, videro la mattanza di migliaia di persone e sovente l’occultamento dei loro cadaveri, infoibati (e non solo nella Venezia Giulia, ad opera dei partigiani titini, ma in tutto il Nord Italia!) anche quando i poveretti erano ancora vivi, talché fu impossibile, allora e anche dopo, fare un conto preciso delle vittime, che sicuramente arriverebbe ad alcune decine di migliaia. In altri casi le esecuzioni sommarie ebbero luogo alla luce del sole, davanti a folle abbrutite dall’odio e dalla sete di sangue, ora dopo la farsa di un "processo" per direttissima, ora senza nemmeno quello, ma così, su due piedi, per iniziativa dei sanguinari comandanti e commissari politici delle unità comuniste (cfr., fra gli altri: Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini, sul sito di Arianna Editrice il 03/11/09, e sul sito della Accademia Nuova Italia il 10/12/17; Rolando Rivi e le vittime nascoste d’una ideologia bugiarda e assassina, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17; Dongo, 28 aprile 1945. E forse erano i migliori, idem, il 07/09/20; e Donato Carretta accusa per sempre "l’Antifascismo", il 27/09/19).
Ora vogliamo parlare della tragica fine del federale di Torino, Giuseppe Solaro. Così la descrive uno storico del versante filo-resistenziale, nonché esponente politico del PCI/PDS/PD, Gianni Oliva, nel suo libro La resa dei conti (Milano, Mondadori, 1999, pp. 36-39):
A Torino il "cadavere illustre" è Giuseppe Solaro, l’ultimo federale della città: dopo che il suo predecessore, Paolo Zerbino, nel febbraio 1945 è stato nominato ministro degli Interni a Salò, è diventato lui l’uomo più in vista del regime; la sua firma sotto i manifesti intimidatori della Rsi, la sua responsabilità in molte rappresaglie nelle fabbriche del capoluogo e nelle vallate della provincia, sua l’organizzazione dell’ultima difesa nelle vie della città, con centinaia di franchi tiratori asserragliati nelle case durante i primi giorni dell’insurrezione. Il suo atteggiamento sprezzante e la sua durezza sono penetrati a fondo nell’immaginario popolare torinese, così come è diventata famosa una sua presunta frase, «per i partigiani non è necessario il piombo, basta la corda». Catturato il 28 aprile e tradotto nelle carceri improvvisate della caserma "Bergia", in piazza Carlo Emanuele II, Solaro viene immediatamente giudicato e condannato a morte dal Comando dell’VIII zona militare, trasformato in tribunale per i crimini di guerra: insieme a lui stessa sorte per Giovanni Cabras, comandante locale della Guardia nazionale repubblicana.
Per la legge del contrappasso, l’esecuzione viene effettuata attraverso impiccagione ed è la stessa Giunta regionale di governo per il Piemonte a stabilirlo con l’apposito decreto legislativo n. 5 del 29 aprile: «Ritenuta l’assoluta necessità che la esecuzione capitale dei maggiori responsabili dei crimini nefandi che più profondamente hanno commosso la coscienza popolare durante il regime di occupazione, avvenga in una forma solenne ed esprima e consacri alla presenza del popolo l’indignazione della sua anima, decreta: in deroga alle vigenti disposizioni, l’esecuzione capitale di Giuseppe Solaro e Giovanni Cabras, condannati a morte da tribunali di guerra per atrocità di guerra, avverrà mediante capestro».
La messa a morte i Giovanni Cabras viene rinviata, quella di Solaro è eseguita invece il giorno 30. Automobili con altoparlanti l’annunciano per tutta la città, il luogo prescelto è corso Vinzaglio angolo via Cernaia, vicino alla stazione di Porta Susa. Come per Piazzale Loreto, si tratta di una scelta non casuale: lì, il 22 luglio 1944, sono stati impiccati quattro partigiani, tra i quali Ignazio Vian, un ufficiale della IV armata che nel settembre 1943 aveva animato a Boves uno dei primi nuclei ribellistici ed era diventato una delle figure più popolari della Resistenza piemontese. Anche a Torino c’è un accorrere confuso di gente, che si muove tra curiosità e rabbia assommate insieme [sic], e che prova l’ansia morbosa di assistere ad un rituale conclusivo; le fotografie mostrano folla nelle strade, sui balconi, alle finestre dei palazzi.
Già il trasferimento del condannato sul luogo del supplizio ha un tratto di spettacolarità: Solaro viene prelevato con un camion dalla caserma "Bergia" e condotto in corso Vinzaglio lungo vie del centro cittadino, preceduto da un’auto sulla quale sono i comandanti della 19.a brigata Garibaldi, cui è affidata l’esecuzione. L’automezzo è scoperto, l’ex federale deve risultare ben visibile al pubblico accorso. Con lui, ad assisterlo, c’è don Giuseppe Garneri, parroco del Duomo, che ricorda così l’atmosfera della città: «La gente, invitata ad affluire lungo il percorso, formava in crescendo due fitte ali di popolo. Molti gridavano il loro odio. Ho visto donne urlare contro il condannato. Non dimentico mamme che additavano ai bambini Giuseppe Solaro. La scena ebbe momenti drammatici. Ricordo un episodio. Quasi a inserire un gesto di bontà fra tanto tumulto di folla, io presi una mano di Solaro nelle mie mani. Il gesto fu notato. Sentii un crescendo di odio e di ferocia. Furono indirizzate a me, prete, parole di insulto e di minacce, che per rispetto non riporto qui. Mi furono puntati anche tre mitra. Due partigiani del camion con delicatezza e prontezza mi fecero da schermo e da scudo. Poi fecero salire in piedi Solaro sulla panca perché fosse più visibile». La stessa tensione popolare è testimoniata da Gianni Dolino, commissario politico della 19.a brigata garibaldina: «Via Cernaia nereggia di popolo, si alzano grida di morte, volano sputi, taluni tentano un assalto a strappare il prigioniero, dissuasi da una raffica in aria. Arrivati sull’angolo di corso Vinzaglio, si è davanti allo spettacolo di folla assiepata che urla, maledice, esige riparazione». (…)
La scena di corso Vinzaglio si complica però con un imprevisto macabro: quando il corpo viene fatto spenzolare nel vuoto, il ramo a cui è stato appeso il capestro si spezza e l’ex federale precipita ancora agonizzante. (…)
Secondo una testimonianza orale, l’esecuzione viene ripetuta e il rituale ricomincia: un partigiano lega il capestro ad un ramo più robusto, lo annoda con forza e, poi il cappio viene reinfilato nella testa e il Solaro viene sollevato una seconda volta. Secondo altri, è invece la bastonata rabbiosa del padre di un partigiano fucilato e finire l’ex federale: «All’esecuzione cede il ramo dal quale pende la corda. Solaro cade, nasce un parapiglia che a un partigiano costa una ferita al viso: il padre di un partigiano impiccato lì poco tempo prima, finisce Solaro con una bastonata in testa».
Come si sarà notato, l’autore si sforza costantemente di offrire pezze d’appoggio ad una interpretazione minimalista e giustificazionista dell’inutile, barbarica ferocia che contrassegnò il martirio di Giuseppe Solaro, il quale aveva, sì, comandato la Prima Brigata Nera Ather Capelli, ma i cui crimini di guerra non vennero accertati da un tribunale imparziale, bensì dati per scontati dal doppio ruolo, politico e militare, da lui ricoperto in posizione di primo piano nei quadri della Repubblica Sociale, ragion per cui la sua colpevolezza era "dimostrata" da ragioni essenzialmente politiche. Pertanto ogni elemento, per quanto penalmente irrilevante, come il suo "atteggiamento sprezzante", concorre a predisporre il lettore ad accettare come cosa normale la sua brutale esecuzione; per non dire la citazione di quella frase forcaiola, «per i partigiani non è necessario il piombo, basta la corda», che però potrebbe anche essergli stata messa in bocca da altri, perché perfino chi gli è politicamente nemico si vede costretto a definirla "presunta". Poi l’Oliva evoca un clima dantesco parlando di legge del contrappasso (concetto non troppo storico, ma che viene ripresentato due pagine più avanti, parlando dello strascinamento del cadavere per le vie), che poi serve a giustificare il ricorso all’impiccagione, contrario alla legge italiana, ma reso accettabile da un apposito decreto emesso, con qualche strafalcione di forma, dalla Giunta regionale piemontese. Straordinaria sollecitudine: non ci fu il tempo di fare a Solaro neppure una parvenza di processo, perché la coscienza popolare era stata commossa dai crimini nefandi dei nazi-fascisti e l’anima indignata del popolo esigeva un’esecuzione pubblica, immediata e infamante come l’impiccagione, tuttavia la Giunta regionale trovò il tempo di riunirsi per emanare il decreto che dava una patina di legalità a quella barbarie mascherata da giustizia. Non si può neanche parlare di furore esploso in un impeto d’ira, perché l’impiccagione di Solaro venne annunciata da automobili con l’altoparlante che percorrevano le vie cittadine, invitando la popolazione ad assistere al supplizio, il che significa che i capi comunisti della Garibaldi decisero a freddo di offrire un crudele spettacolo pubblico. E la popolazione, purtroppo, invece di chiudersi in casa e sbarrare le finestre davanti a un tale ritorno di barbarie, affollò le strade, i balconi e le finestre delle case, lanciando fischi e sputi sul morituro, con e mamme che si portavamo dietro perfino i bambini per farli assistere a un simile spettacolo. La stessa gente, non vi è alcun dubbio, che aveva riempito le strade e i balconi per festeggiare la proclamazione dell’Impero, il 9 maggio 1936, e che aveva salutato la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, il 10 giugno del 940, sventolando freneticamente bandierine tricolori e ritratti di Benito Mussolini.
La sola nota di umanità, in questo spettacolo di ferocia quasi inimmaginabile, è quello del buon don Giuseppe Garneri che, salito sul camion che conduce Solaro al supplizio, a un certo punto gli prende le mani in un gesto di cristiano conforto: gesto che è più che sufficiente a scatenare un’ondata di rabbia furibonda da parte della folla imbestialita e da indurre qualche partigiano duro e puro a puntargli contro il mitra, come se con esso si fosse macchiato d’un crimine orrendo. E in un certo senso era vero: quando ogni pietà è morta, mostrare un minimo di compassione per chi va a morire rischia di aprire una breccia nella fortezza di odio che si vuol costruire e dal quale è proibito dissociarsi. La scena finale del ramo che si spezza e del disgraziato che cade a terra semimorto, ma solo per subire una seconda impiccagione, o forse per essere finito a bastonate sulla testa (ma, si prenda nota, da parte del padre di un partigiano impiccato proprio in quel luogo!, il che renderebbe quel gesto esecrabile un po’ meno rivoltante), sembra uscita da un film dell’orrore. Del resto, il fatto che non si sappia neppure quale delle due versioni sia la vera, indica a sufficienza che razza di bolgia infernale deve essersi scatenata attorno al morituro; e una delle due, quella del partigiano comunista Dolino, commissario politico garibaldino, è stata messa poi nero su bianco sotto il titolo ferocemente compiaciuto: Anche i boia muoiono. L’orribile conclusione di quel sabba di demoni in forma umana si ebbe quando il cadavere fu legato per il collo a un autocarro e trasportato lentamente per le vie della città, prima di essere gettato nelle acque del Po, negandogli anche una cristiana sepoltura. Ciliegina sulla torta: sia il dirigente comunista Osvaldo Negarville, su L’Unità del 30 aprile 1945, sia Giorgio Amendola, dirigente di spicco del PC e anche lui comandante partigiano, in Lettere a Milano (Editori Riuniti, 1973, pp. 572-573), descrissero in termini sprezzanti le ultime ore di vita di Giuseppe Solaro, dipingendolo come un vile disposto a scaricare le proprie responsabilità sui suoi stessi compagni pur di salvarsi; ma le testimonianze di parte fascista sono di tenore ben diverso, poiché parlano di un uomo onesto e coraggioso il quale seppe affrontare la fine con estrema dignità e compostezza.
Notevoli le contorsioni letterarie di Gianni Oliva per rendere un po’ più tollerabile l’odioso scenario che vide le ultime ore del federale di Torino. Per esempio, dopo aver evocato, per la seconda volta in poche pagine, la pena del contrappasso, non si perita di tirare in ballo la nemesi, altro concetto non troppo storico, sostenendo che lo strascinamento del cadavere di Solaro fu una probabile ritorsione per una eguale sorte che i fascisti avevano inflitto a Pietro Ferrero, un antifascista torinese, nel dicembre del 1922. Dal 1922 al 1945 la distanza è di ventitré anni, ma per il nostro autore non è un problema e improvvisandosi psicologo, o forse psicanalista, sostiene con sicurezza che il trascinamento del cadavere di Pietro Ferrero sopravvive nella memoria dei resistenti torinesi e forse per nemesi storica suggerisce un uguale trattamento per quello di Solaro. Però si guarda bene, lui che non esista a tornare indietro di oltre quattro lustri per fornire una giustificazione morale al vilipendio del cadavere del federale torinese, dal ricordare che nella Torino del 1919 un ragazzo di appena diciannove anni, che aveva fatto in tempo a combattere sul Piave, poteva essere barbaramente massacrato dalla folla comunista per la terribile colpa di aver gridato Viva l’Italia!, ed essersi rifiutato di gridare, per aver salva la vita, Abbasso l’Italia! (vedi il nostro articolo: Pierino Delpiano fu assassinato per aver gridato: "Viva l’Italia!", pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/01/18). Perché se si vuol risalire indietro di tanti anni per stabilire una continuità ideale fra l’antifascismo della prima ora e quello esploso dopo il 25 aprile del 1945, quando decine di migliaia di ex fascisti si misero un fazzoletto rosso al collo e si gettarono sugli ultimi idealisti che erano rimasti fedeli sino all’ultimo alla loro idea, allora bisogna anche avere l’onestà di dire tutta la verità e non soltanto mezza, e cioè che coloro i quali, come Solaro, restarono al proprio posto mentre la nave affondava, invece di fare il salto della quaglia come tanti che si affrettarono a riciclarsi proprio nel Partito Comunista, erano gli stessi, fisicamente o idealmente, che nell’Italia del 1919 si erano levati in piedi contro la barbarie comunista che insultava e sputacchiava i reduci dal fronte e linciava per la strada i ragazzi come Pierino Delpiano per la colpa imperdonabile, e veramente fascista, di ostinarsi a gridare Viva l’Italia e a credere nei valori tradizionali della Patria, della famiglia e della religione dei padri.
Quanto a Solaro, non è questa la sede per approfondire la sua figura e per stabilire quali furono le sue colpe, se ne ebbe, mentre svolgeva le sue funzioni militari e amministrative, in un’epoca in cui anche i più ciechi vedevano e capivano che la guerra stava per finire con la disfatta totale dell’Asse e che pertanto chi ci teneva alla pelle doveva affrettarsi a cambiare casacca. Tuttavia una cosa ci sembra di poter dire, a conclusione del nostro ragionamento: che non doveva essere per niente quella persona spregevole che Amendola e Negarville hanno voluto dipingere, sfregiandolo anche dopo morto nel chiaro intento di fornire ai carnefici un’ulteriore giustificazione morale per aver fatto quello che fecero. Che cosa ci permette di fare una tale affermazione? Il fatto che un uomo difficilmente mente in punto di morte; e Solaro, poche ore prima di andare incontro al suo destino, scrisse alla moglie queste parole tutt’altro che spregevoli:
«Cara Tina, prima di morire ti esprimo tutto il mio amore e la mia devozione. Sono stato onesto tutta la vita e onesto muoio per un’idea. Che essa aiuti l’Italia sulla via della Redenzione e della costruzione. Ricordami e amami, come io ho sempre amato l’Italia. Cara Tina, viva l’Italia libera, viva il Duce! Tuo Peppino.»
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