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Hitler voleva tradurre in Germania Pio XII?

Come è noto, quando ebbe notizia dell’esito della seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 e del successivo arresto di Mussolini per ordine di Vittorio Emanuele III, il quale incaricò il generale Badoglio di formare un nuovo governo non fascista, Hitler ebbe un terribile scoppio d’ira e, fra le altre cose, ventilò l’ipotesi di far arrestare il re con tutta la corte sabauda, nonché d’invadere la Città del Vaticano. A proposito di quest’ultima mossa, l’irruzione nel territorio dello Stato della Chiesa, disse:

È perfettamente uguale, io entro subito in Vaticano. Credete che il Vaticano mi dia fastidio? Quello è subito preso. Là dentro c’è prima di tutto l’intero corpo diplomatico. Non me ne importa nulla. La canaglia è là, e noi tiriamo fuori tutta la p… canaglia. Che cos’è? Poi, a cose fatte, ci scuseremo; per noi fa lo stesso. Laggiù noi siamo in guerra… (Lagebesprechungen im Führer-Hauptquartier, ecc., Institut für Zeitgeschichte, Verlag, 1963, 170-171).

Sia allora, il 26 luglio 1943, sia, soprattutto quando, circa otto mesi dopo, i tedeschi, premuti dagli anglo-americani, prevedevano di dover abbandonare Roma, l’idea di portar via con sé il papa e trasferirlo in qualche città tedesca, nominalmente per "proteggerlo", circolò effettivamente in alcuni ambienti nazisti, e ne è rimasta eco nella memorialistica e in alcuni saggi e manuali storici. Ma è vero che Hitler voleva fare quel che aveva fatto Napoleone nel 1809 con Pio VII, cioè farlo arrestare e deportare, praticamente come un prigioniero, nei propri territori, per distaccarlo da Roma e averlo più sotto controllo?

Siccome Hitler, sotto il profilo della morale politica, è stato quello che è stato, la maggior parte degli studiosi è propensa ad attribuirgli sempre e comunque le peggiori intenzioni in ogni cosa: per essa, è assiomatico che, se il dittatore nazista non agì, in questa o quella circostanza, con il massimo della brutalità e del sadismo, ciò fu dovuto a qualche causa accidentale o all’intervento moderatore di qualche suo collaboratore, non certo a una sua decisione autonoma: tale è il livello della radicale demonizzazione e della inappellabile damnatio memoriae che gravano su di lui, indipendentemente dai documenti storici e dalle fonti note (cfr. spec., fra i nostri scritti al riguardo, La questione della Weltanschauung di Hitler come problema storiografico, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/07/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/17). È come se la polizia, avendo fra le mani un considerevole numero di casi di omicidio irrisolti, li attribuisse a un omicida seriale già arrestato e convinto di colpevolezza per una parte di essi, ma non per tutti, anzi che certamente non può averli commessi tutti: ma che importa? L’occasione di dichiarare risolti tutti quei casi di omicidio è troppo ghiotta; e poi, quei poliziotti possono lavarsi la coscienza dicendo a se stessi: ha ucciso quattro volte; perché non avrebbe potuto uccidere altre sette od otto? E infatti è noto che il massacro della foresta di Katyn, che vide la spietata eliminazione di circa 22.000 ufficiali polacchi, in un primo tempo fu addebitata ai nazisti e solo successivamente l’evidenza dei fatti rivelò che era stata compiuta dai sovietici, su ordine diretto di Stalin. Ma poiché Hitler si è macchiato di tanti crimini, perché non attribuirgliene uno in più? Tanto, così ragionano ancora oggi molti studiosi, impregnati di una viscerale ideologia antifascista, ne sarebbe stato ben capace. Peccato che la storia non si faccia così.

Riferendosi alle parole pronunciate da Hitler subito dopo la caduta di Mussolini, uno studioso gesuita, lo statunitense Robert A. Graham (parliamo dei gesuiti di prima del Concilio Vaticano II, che erano perlopiù persone serie), al termine di una lunga inchiesta da lui condotta su fonti di prima mano, fa questa osservazione (in: R. A. Graham, Il Vaticano e il nazismo, raccolta di articoli apparsi su La Civiltà Cattolica e testi di conferenze, Roma, Casa Editrice Cinque Lune, 1975, pp. 99):

Per quanto siano drammatiche, queste parole non contengono un’esplicita minaccia di costringere il papa a lasciare il Vaticano. Ma una volta violata la neutralità della Città del Vaticano, Hitler si sarebbe forse limitato a confiscare dei documenti e ad arrestare i diplomatici nemici? Un’annotazione di Goebbels del giorno seguente, 27 luglio, dice che il Führer intendeva prendere il Vaticano ma che ne era stato dissuaso da Ribbentrop e dallo stesso Goebbels.

Qualche mese dopo, verso il Capodanno del 1944, la voce di un possibile trasferimento forzato del papa in Germania tornò a circolare, anche su informazioni in possesso del capo dell’Abwehr, il servizio di spionaggio militare, l’ammiraglio Wilhelm Canaris, che era segretamente antinazista nonché amico personale di Pio XII fin dai tempi in cui Eugenio Pacelli era stato nunzio apostolico in Germania, dal 1917 al 1929; e che alla fine avrebbe pagato con la vita il suo coinvolgimento nell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944.

Scrive ancora Robert A. Graham (op. cit., p. 104 e 104n):

Eppure non ci sono prove e documentate che la minaccia, se mai ci fu, sia arrivata al punto da divenire un piano preciso, un ordine di avvio a un tale piano.

Il dott. Robert Kempner, sostituto accusatore di Weizsaecker [ambasciatore tedesco presso il Vaticano] al processo di Norimberga, attribuì le accuse a dichiarazioni tendenziose fatte da persone desiderose di farsi valere. Interrogando padre Zeiger, che testimoniava a favore di Weizsaecker, l’accusa si espresse in questo modo:

«Lei sa che questo ‘piano’ era semplicemente un tentativo da parte di pochi sismi per potersi vantare di aver avvisato il papa in tempo, e che Hitler non ha mai avuto un piano di questo genere? Al contrario, nei riguardi del papa, Hitler era molto timido, non per ragioni di umanità, ma per motivi di propaganda» (Kempner). (…)

Weizsaecker ricorda nel suo promemoria (ma non nelle "Memorie") che Kappler gli aveva detto con molta convinzione di non aver ricevuto istruzioni per quei preparativi che sarebbero stati necessari se il papa fosse dovuto partire. L’ambasciatore aggiunse che, nel suo colloquio con Hitler prima della sua partenza da Berlino per raggiungere la sede presso il Vaticano, questi non aveva fatto alcun cenno ad invasioni del Vaticano. Allora, ricorda Weizsaecker, Mussolini era ancora al potere. Ma come dimostrano i vari documenti del 1941 e 1942, tutti gli interessati sentivamo che c’era qualcosa nell’aria.

Pertanto, anche se la questione non è stata del tutto chiarita e forse non lo sarà mai, non esiste alcuna prova che Hitler intendesse prendere prigioniero Pio XII e poi deportarlo nel Terzo Reich, sebbene circolassero alcune voci in proposito, provenienti anche da fonti di per sé attendibili, ma che potrebbero essere state influenzate dalla smania di qualcuno di farsi bello, a guerra finita — e tutte le persone intelligenti avevano ormai capito in che modo la guerra sarebbe finita, Hitler e Mussolini compresi, checché se ne dica – vantandosi di aver fatto pervenire al Santo Padre la preziosa informazione di una sua possibile cattura da parte dei tedeschi, affinché la scongiurasse in tempo.

Il boccone però è troppo ghiotto per quegli studiosi che si sentono chiamati a giudicare i personaggi storici, guarda caso sempre e solo quelli della parte che esce sconfitta (chi ha fatto il processo a Truman per le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki? o a Churchill per la distruzione a sangue freddo di Dresda, poco prima che la guerra terminasse?) e a infliggere loro il massimo della pena, vale a dire a dire dichiarare perverse non solo le loro azioni accertate, ma anche quelle dubbie e perfino le loro intenzioni. In fondo, perché farsi troppi scrupoli e andare tanto per il sottile? Se Hitler non ha esitato a decretare la morte di sei milioni di ebrei — gira e rigira, si torna sempre a questo punto: è l’architrave sulla quale si regge tutto il resto, o quasi — perché mai avrebbe dovuto farsi dei riguardi a ordinare la cattura e il trasferimento forzato del pontefice?

Ma esistono documenti certi che attestino la volontà genocida di Hitler nei confronti degli ebrei? E il conto finale delle vittime corrisponde veramente alla cifra spaventosa di sei milioni? Qui scatta un fattore emotivo e ideologico: è proibito discutere simili argomenti, perché non si tratta di fatti storici, come tutti gli altri, da accertare ed, eventualmente, confermare o smentire: si tratta di un dogma religioso; e i dogmi, per loro natura, non si possono, né si devono discutere. E’ chiaro pertanto che qualunque discussione intorno a Hitler si avvita in un inesorabile circolo vizioso: egli va condannato a prescindere, va condannato in maniera assoluta, poiché è stato il responsabile del Male Assoluto, e quindi ogni tentativo di ragionare su di lui come si fa per qualsiasi altro personaggio storico incorre automaticamente nel delitto di lesa morale. Anche un eventuale parallelismo con Enver Pascià per lo sterminio degli armeni nel 1915, o con Stalin per il genocidio degli ucraini nel 1932-33, suscita immediate e sdegnate reazioni: il Male Assoluto, per definizione, non ammette confronti di sorta; è incommensurabile. Che c’entrano gli armeni; che c’entrano gli ucraini? I loro sono stati drammi storici, simili ad altri; ma quello dei Sei Milioni è stato unico, eccezionale e soprattutto imperdonabile. Chi vi è implicato, anche solo indirettamente, merita un eterno disprezzo e non ha più il diritto di ricevere il normale trattamento che spetta ai colpevoli di crimini ordinari. Il suo crimine, infatti, è stato di natura religiosa, e gli è stato dato appunto un nome religioso: Olocausto, che richiama il sacrificio delle vittime designate alla divinità (un nome del tutto inappropriato, quindi, se le parole hanno un senso), e tale da privare i suoi artefici del diritto di essere considerati alla stregua di esseri umani; ne fa dei mostri. E se si tratta di mostri, a che serve arzigogolare sul loro grado di colpevolezza?

Ma attenzione: nel caso del progetto di rapimento di Pio XII da parte dei nazisti, si profila a un certo punto un mostro perfino più malvagio di Hitler: Martin Bormann, il suo più stretto consigliere nella fase più fosca e sanguinosa del suo regime. Fu Bormann, dunque, il sinistro Bormann, l’uomo che incuteva paura perfino a Himmler e, forse, a Goebbels, a concepire il piano per la deportazione del papa?

Ecco cosa scrive Graham in proposito (o. cit., pp. 108-109):

Nelle sue memorie, Walter Schellenberg, capo del servizio informazioni di Himmler, stabilisce un collegamento particolare tra Bormann e il progetto di rapimento. Egli scrive che Berlino pensava a una specie di "cattività avignonese" per il papa, e aggiunge che questa era l’intenzione non solo di Bormann, ma anche di Goebbels. Schellenberg afferma di aver dissuaso Himmler, dicendogli che, se il progetto veniva eseguito, la colpa sarebbe ricaduta su Himmler e non sugli altri due, i veri istigatori, Inoltre, ciò avrebbe distrutto qualsiasi speranza di Himmler di poter negoziare una pace con l’Occidente.

Una volta tanto, commenta Schellenberg, Himmler discusse con Hitler senza servilismo, con il risultato che alla fine Hitler respinse il piano.

La parola di Schellenberg è l’unica base per questa versione della responsabilità di Bormann e del ruolo di Himmler nel respingere il progetto di rapimento. Si osservi che Goebbels, alla data del 27 luglio 1943, annotò nel suo diario di essere stato lui a dissuadere Hitler dall’occupare il Vaticano. Se (per una volta) Goebbels dice la verità, allora deve aver cambiato idea, oppure Schellenberg non era bene informato. Il capo del servizio informazioni di Himmler aggiunge però che un suo agente segreto lavorava in Italia alla fine dell’estate e al principio dell’autunno del 1943 e che i rapporti mandati da costui descrivevano la situazione in termini tali che fu facile convincere Berlino a non compiere azioni drastiche contro il papa per la parte che si sospettava avesse avuto nella caduta di Mussolini.

Strano a dirsi, l’uomo che più è accusato di aver promosso il rapimento del papa è l’unico che abbia smentito l’esistenza di un piano del genere. Costui era proprio Martin Bormann, che in un "Fuehrungshinweis", o "direttiva", del 30 novembre 1943, attribuisce queste voci alla propaganda nemica. L’avviso era una circolare inviata a tutti i Gauleiter e aveva per oggetto: "Voci sopra un probabile imminente forzato allontanamento del papa da Roma. Bormann diceva ai funzionari locali del partito che non c’era nulla di vero; secondo una voce, il papa doveva essere portato nel Liechtenstein; secondo un’altra, in Germania.

Pare che le voci su una prossima deportazione di Pio XII, rilanciate da Radio Londra, avessero origine, almeno in parte, dal fatto che l’ambasciatore brasiliano Ildebrando Accioly aveva convinto i diplomatici alleati residenti in Vaticano a seguire il papa, SE questi fosse stato trasferito altrove forzatamente. Ora, se neanche il cattivissimo Bormann, oltretutto ferocemente anticattolico, concepì il piano di far rapire il papa dai nazisti prima che Roma cadesse nelle mani degli Alleati, se ne dovrebbe concludere che tale piano, effettivamente, non fu mai messo a punto, ma, tutt’al più, considerato come una semplice possibilità, da valutare a seconda degli gli sviluppi della situazione, in taluni ambienti della corte di Hitler. Il quale, ad ogni modo, se non diede il proprio assenso alla fase operativa di quei vaghi progetti, certamente non lo fece per senso di umanità e nemmeno di responsabilità, poiché era e restava un pazzo criminale, capace di ordinare senza rimorsi qualsiasi nefandezza, ma tutt’al più per un furbesco opportunismo, come si addice a un personaggio machiavellico e totalmente amorale come lui.

Quod erat demonstrandum.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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