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La salvezza senza fede o il ritorno del paganesimo

Non vi è alcun dubbio che le vicende della modernità, il fallimento dei suoi progetti più ambiziosi, il senso di frustrazione che si ingenerato nell’uomo comune davanti al fatto evidente che la tecnica sta scavalcando le persone e che queste stanno perdendo la presa sulla realtà e sulla possibilità di incidere su di essa, orientarla e modificarla, hanno creato un vuoto; e che quel vuoto si presta ad essere riempito da un ritorno del religioso o, almeno, del sacro. Naturalmente si tratta di vedere quali saranno i contenuti specifici che prevarranno; ma che ci sia una forte "domanda di Dio", domanda che era scomparsa da almeno un secolo, secondo la definizione nietzschiana: Dio non sta più a cuore, questo è certo. Ora, uno dei contenuti coi quali si vorrebbe riempire quello spazio, potenzialmente assai promettente, e dare una risposta alla rinnovata domanda di senso in termini religiosi, è, fra i molti altri — il buddismo, lo yoga, l’induismo, il tantrismo, il sufismo, l’esoterismo di matrice più o meno esplicitamente cabalistica, l’occultismo, la teosofia, l’antroposofia, lo spiritismo, la magia, gl’innumerevoli culti della New Age, il chanelling, e perfino la stregoneria e il satanismo — una riproposizione, variamente declinata e aggiornata, del paganesimo classico, sia esso egiziano, persiano, greco, romano o anche, specialmente nei Paesi anglosassoni, celtico. Come si noterà, il solo denominatore comune in questo mare magnum di svariatissime "offerte" e proposte, in questo guazzabuglio che riflette pienamente l’estremo grado di confusione dell’uomo contemporaneo, nonché la sua estrema suggestionabilità e manipolabilità, è l’assenza, dovuta a un rifiuto viscerale, emotivo, irrazionale, del cristianesimo, e sia pure nelle forme più eccentriche ed eterodosse che esso sta assumendo sotto la spinta di un democraticismo che, dopo aver deformato e stravolto la fisionomia dottrinale e morale delle varie chiese protestanti, sta facendo ora breccia nel bel mezzo della Chiesa cattolica, veicolato addirittura dalla gerarchia, che si prodiga nella curiosa operazione di predicare la rivoluzione alla massa dei fedeli. Vedi l’arcivescovo Paglia che si fa ritrarre nudo in un affresco omoerotico nel duomo di Terni o che biasima la Segreteria vaticana per aver protestato (si fa per dire) contro il disegno di legge Zan-Scalfarotto; o il gesuita James Martin che da anni porta avanti, con successo, la sua battaglia per affermare il principio che omosessuale cattolico è bello, incoraggiato e approvato dal signore vestito di bianco che abita nella Casa Santa Marta.

La domanda è perciò se il paganesimo, o meglio il neopaganesimo, perché perfino i suoi fautori si rendono contro dell’assurdità di voler riproporre tale e quale la religiosità del mondo antico, senza contare che essi per primi non la vogliono né la vorrebbero (anche perché essa era pur sempre una cosa sbagliata, ma seria, e di serio c’è ben poco in questa proposta) possieda i requisiti per riempire questo vuoto, o una porzione di esso, assumendo un ruolo significativo nella prossima evoluzione culturale e spirituale della nostra società. Sul piano filosofico, una delle voci più coerenti che si fanno sentire auspicando questo ritorno alla spiritualità pagana è quella di Salvatore Natoli, del quale ci eravamo già occupati un’altra volta (cfr. l’articolo: L’etica del finito come neopaganesimo nella proposta di Salvatore Natoli, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 13/06/08 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/08/17). Ma come vede questo pensatore la possibilità concreta di un simile ritorno? Per rispondere a questa domanda, facciamo ricorso alla conclusione di uno dei suoi libri più significativi, La salvezza senza fede (Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 257-259):

Ormai, da tempo, dare o chiedere prove dell’esistenza di Dio è andato in disuso. Di ciò Nietzsche ha fornito la ragione: DIO NON STA PIÙ A CUORE. Si dibatteva su Dio quando la sua esistenza era rilevante per quella degli uomini: oggi non si dibatte più sulla sua esistenza perché di lui non si sente più il bisogno. Il moderno nel suo sviluppo ha estinto l’ontoteologia — Kant e la prova di ragione — ma ha soprattutto secolarizzato la teologia. La secolarizzazione ha riassettato le categorie teologiche in termini di filosofia e in particolare quelle della salvezza. Per converso la filosofia nel corso della modernità diventata a suo modo una teologia, ha rimpiazzato quella che la precedeva e per questo l’ha dissolta. Il moderno si è assunto il compito di realizzare nel tempo quel che il cristianesimo aveva promesso ma non adempiuto. La filosofia teologica — nella forma dell’autoaffermazione dell’uomo e quindi del potenziamento incondizionato della soggettività — trova nel movimento hegeliano della coscienza, e in quello operaio di Marx, alcune delle sue determinazioni più precise e paradigmatiche: qui si individua il soggetto — e il soggetto operaio motore della storia. Il SOGGETTO coincide con la dinamica dell’auotaffermazione liberatrice e redentiva, ed è in questa chiave che il moderno elabora grandi narrazioni, scrive grandi romanzi teologici. Ma il soggetto onnipotente oggi paga il fio della sua presunzione fino a disperare della salvezza. Più che mai inquietante, allora, la domanda di Nietzsche: «Da Copernico in poi, si direbbe che l’uomo è finito su un piano inclinato – ormai va rotolando sempre più rapidamente lontano da un punto centrale — dove? nel nulla? nel "trivellante sentimento del proprio nulla"?»

L’ontologizzazione dell’evento ha dato luogo alla teologia naturale, ma Dio resta l’imponderabile e per conoscerlo non è sufficiente la via del solo pensiero. Di questo divino si può avere cognizione non perché a essi si perviene, ma perché a esso si appartiene. E qui vale la pena di ricordare "Atti", 17, 28, ove Paolo dice: «In Lui infatti viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo, come alcuni dei vostri poeti hanno detto "Poiché di Lui stirpe noi siamo». Siamo interamente in Dio e Dio è in noi: tutta la grande simbologia rinascimentale è giocata su questo, qui la "coincidentia oppositorum".

Nella disillusione a cui ci hanno condotto le ambizioni di un’ormai consumata modernità, l’esperienza del divino ha la possibilità di ritornare nella percezione della divinità del tutto. Una versione modificata del detto di Talete: non più tutto è pieno di dei, ma invece il senso del comune appartenere e del reciproco appartenersi, liberi da ogni presunzione di onnipotenza. In questa configurazione il sentimento religioso si dispiega come pratica del legame, come un reciproco prendersi in custodia degli uomini e insieme un prendere in custodia il mondo come dimora del nostri transitare. Nel deficit della fiducia oggi si ha bisogno di speranza. E allora, nella dissoluzione del’ontoteologia, nel fallimento delle filosofie teologiche, qual è la potenza che salva? Il sentimento alto della provvisorietà e della contingenza oggi consente il riemergere di forme di vita religiosa: la "pietas"pagana, l’"eusébeia", il sentire ogni cosa come divina proprio perché degna di rispetto. Nella "pietas" si fa esperienza del divino come "grembo", ove la gioia dell’appartenere disattiva l’istinto a predominare e ad asservire. Nel reciproco prendersi cura ogni uomo muove in soccorso dell’altro e in ciò ognuno può rivelarsi all’altro come un dio. Divina, infatti, è la relazione originaria in cui siamo posti, e non tanto la relazione con un’alterità fuori dal mondo, ma con gli ALTRI dentro il mondo, nello spazio sconfinato dell’imponderabile in cui dimoriamo da ospiti. Il tutto è dunque UNO, non però nel senso che c’è un solo Dio, ma nel senso che Dio è lo spazio aperto in cui tutto può convergere e legarsi nella forma primaria della concordia e in quella piena della "caritas". Tutto ciò non è facile, in un presente fatto di egoismi e di separazione: per gli uomini è difficile contrarre legami, mantenersi fedeli e perciò capaci di fiducia. Una società slegata ha difficoltà a essere religiosa, e perciò è incapace di immaginare la possibilità di un mondo tutto divino: il mondo felice o Dio come LA FELICITÀ DEL MONDO. Trascendersi dunque nella reciprocità e non restare isolati nella separazione: chi separa è infatti il "diábolos", colui che disunisce, il sedizioso, il distruttore. E chi è Dio? Nessuno lo ha mai visto, ma come si legge nella prima lettera di Giovanni: "Se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noie l’amore di lui in noi è perfetto"(1 G 4,12). E allora, davvero, tutto il modo è pieno di dei.

Che dire di questa proposta di ritorno al panteismo e alla "gaia scienza" nietzschiana in versione neopagana, assumendo come base di partenza il criticismo kantiano (il brutto termine ontolteologia viene dalla Critica della ragion pura)? Vediamo.

Per prima cosa, notiamo che per l’autore, come per Nietzsche, Dio coincide con il problema di Dio: cioè non importa la discussione sulla sua esistenza, che, egli dice, è passata di moda e non interessa più ad alcuno, ma il bisogno che si ha di Lui, o meno. Però allo stesso tempo l’autore afferma che di Dio non si sente più il bisogno, ed è per questo che non c’è più alcun dibattito sulla sua esistenza: il che, in apparenza, chiuderebbe il discorso, senza bisogno di ulteriori approfondimenti. Infatti se Dio non è importante, di che cosa stiamo parlando? È evidente che tutto quel che seguirà del ragionamento non riguarderà Dio in se stesso, e neppure ciò che Dio, se esiste, rappresenta nella vita degli uomini, ma semplicemente il ruolo che gli uomini sono intenzionati ad attribuirgli, e disposti a riconoscergli, in base ai loro bisogni e alle loro necessità. Dunque non un Dio che è, ma un Dio che si pone al servizio dell’idea che gli uomini hanno di Lui e del ruolo che può svolgere, se credono e se ne hanno voglia, non Lui, ma la credenza che essi ne hanno. Quindi in effetti non si sta parlando più di Dio, ma dell’idea di Dio, che è cosa ben diversa.

Nel passo successivo Natoli dice quale Soggetto gli uomini moderni sono disposti a riconoscere come centrale nella loro vita: non un Dio creatore e trascendente, onnisciente e onnipotente, bensì un "dio" (a questo punto, fra virgolette) capace di potenziare illimitatamente l’individuo, come hanno insegnato Hegel e Marx — i quali, pertanto, si rivelano come i veri referenti culturali del nostro. A noi sembrano referenti un po’ vecchiotti: partire da Hegel e Marx per rifare un discorso su Dio nel XXI secolo ci sembra, francamente, voler versare vino vecchissimo nella botte nuova: perché se il Dio del cristianesimo si è usurato, ha impiegato però quasi due millenni ad usurarsi, e ha prodotto le cattedrali, la Divina Commedia e la Summa Teologica, mentre l’hegelismo e il marxismo, nel corso di centocinquanta anni, ci appaiono già preistoria e non hanno prodotto se non confusione, tentativi velleitari di rifare il mondo e tragiche disillusioni. Ma tant’è: ciascuno sceglie liberamente i propri numi tutelari. Resta una curiosa espressione: la volontà dell’uomo moderno, proiettata in un tale assoluto, dopo la lezione di quei maestri si è fatta autoaffermazione liberatrice e redentiva. Vada per la volontà liberatrice, anche se non viene precisato da cosa l’uomo moderno vorrebbe liberarsi; ma il concetto di redenzione rimanda al religioso in senso classico, e più specificamente al cristianesimo. È chiaro che qui si tratta di auto-redenzione; e infatti che altro è la salvezza senza fede, per parafrasare il titolo del libro, se non un’auto-redenzione dell’uomo? Il che ci riporta alla fatale aporia d’un simile concetto, da noi già esaminata a proposito di Nietzsche, l’altro nume tutelare della proposta neopagana (vedi in particolare La redenzione del passato, culmine dell’"eterno ritorno" di Nietzsche, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 14/07/07 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Se non che, l’uomo moderno, che per un momento si è creduto onnipotente, ora, nell’epoca delle cocenti disillusioni, si rende conto di scivolare verso il nulla, e si domanda chi o cosa lo potrà mai salvare.

A questo punto, citando addirittura due passi del Nuovo Testamento, e strumentalizzandoli ampiamente, uno di san Paolo e uno di san Giovanni, il nostro suggerisce che la soluzione del problema era già stata avanzata dallo stesso Gesù Cristo (e quindi, implicitamente, che tutto il cristianesimo è una gigantesca mistificazione, o un tragico fraintendimento, della Parola del Maestro), e cioè: nel reciproco prendersi cura ogni uomo muove in soccorso dell’altro e in ciò ognuno può rivelarsi all’altro come un dio. Una tale relazione fra uomo e uomo, infatti, è divina, e tale da rendere ogni uomo simile a un Dio per l’altro uomo. Ecco dunque da dove attingere le forze per l’auto-redenzione dell’umanità: dalla reciproca solidarietà e dal reciproco amore. Non è un concetto molto originale: lo aveva già espresso, e assai meglio, il Leopardi de La ginestra; e, prima di lui, Epicuro e Lucrezio, Spinoza e Kant. Roba vecchia; ma, quel che è peggio, aspirazioni vaghe e un po’ zuccherose, ma nessun ragionamento filosofico, nessun aggancio con la realtà. Cosa ci dice la realtà? Che l’uomo è lupo per l’altro uomo: homo homini lupus. E cosa ci dice la buona filosofia? Che non basta esprimere dolci auspici di fratellanza universale, né vagheggiare l’età dell’oro in cui ciascuno è sollecito del bene altrui: e qui non serve rifarsi a questo o quel filosofo, basta osservare la realtà di tutti i giorni; basta osservare il comportamento spontaneo di un bambino, che è l’uomo allo stato originario. Il fatto è che l’uomo non può redimersi da solo, perché in se stesso non trova, non ha mai trovato, e non può trovare, quella fonte di purezza e di bontà che, sola, può far scaturire la possibilità della redenzione. Ostinarsi a cercare la redenzione nell’uomo, magari "divinizzando", a parole, il creato, significa bruciare definitivamente l’ultima possibilità che resta di vera redenzione.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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