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Ci uccide la mancata copertura a chi fa il suo dovere

Una società funziona se i suoi membri possono vivere e lavorare in pace: dunque se esiste la certezza del diritto e quindi la certezza della pena; in altre parole, se quella società ha la forza e la volontà necessarie a far rispettare le proprie leggi e le proprie regole. Questo è il fattore numero uno. Ce ne soni altri, naturalmente, ma questa è la cosa fondamentale per la sopravvivenza di una società ordinata e degna di tal nome; se manca questo fattore, la società si trasforma in un aggregato disorganico e disarmonico d’individui più o meno insicuri, più o meno sbandati, fra i quali vige la legge del più forte, e dove i più onesti e laboriosi, i più pacifici e disciplinati, sono facile preda dei facinorosi, dei violenti, degli imbroglioni e dei parassiti di professione. Questo vale per quella microsocietà fondamentale che è la famiglia, così come per le società più complesse, come quelle che formano le grandi nazioni, e per quella più grande ancora, che, in tempi di globalizzazione, come sono questi che stiamo vivendo, coincide praticamene con l’umanità intera, o poco meno. Ora, bisogna evidentemente che ci sia qualcuno incaricato di far rispettare le leggi e le regole; qualcuno che, in considerazione dei rischi che corre e della delicatezza del suo compito, deve poter contare sulla copertura del proprio agire da parte della magistratura. Non si tratta, è ovvio, di una qualche forma d’immunità, ovvero di una licenza d’infrangere le leggi, proprio lui che è chiamato a farle rispettare; si tratta della certezza che, se nell’espletamento delle sue funzioni dovesse incorrere in situazioni giuridiche dubbie, lo Stato, in linea di massima, sarà prontamente dalla sua parte, e non certo da quella della controporte, vale a dire di quanti, violando le leggi e calpestando le regole, subiscono poi le conseguenze del loro agire al momento della cattura o durante la detenzione in carcere. Tutte le polizie del mondo godono di una tale certezza: i loro uomini sanno che, qualora al momento del fermo, uno spacciatore di droga, un rapinatore, un terrorista o anche solo un sospettato di qualsiasi crimine, nonché un immigrato clandestino la cui identità non è stata accertata e che perciò potrebbe essere un fior di delinquente o un infiltrato il cui scopo è preparare attentati, subissero lesioni, ferite o anche, nei casi più drammatici, la morte, la magistratura terrebbe conto del fatto che ciò è avvenuto mentre gli uomini delle forze dell’ordine si adoperavano, spesso con rischio personale, per far rispettare la legge e così garantire la scurezza dei cittadini, e dunque, nell’aprire un’eventuale inchiesta, partirebbe dal presupposto che chi viola la legge è il primo responsabile di eventuali danni, ferite o eventi luttuosi che dovessero verificarsi, e non colui che accidentalmente li ha provocati nell’espletamento del proprio dovere. Sarebbe assurdo, infatti, che le leggi di un Paese, e coloro che hanno l’incarico di farle rispettare, si rivolgessero proprio contro le forze dell’ordine, e trattassero il singolo poliziotto o carabiniere come un possibile o probabile criminale, solo perché ha fatto quel che doveva fare e il vero delinquente o il sospettato, da lui tratto in arresto, resistendo alla cattura e magari, come spesso accade, tentando di colpirlo, viene a sua volta colpito, ferito o anche, disgraziatamente, rimane ucciso.

Ebbene, questo è invece quel che accade in Italia, e non da oggi o da ieri, ma da molti decenni: le leggi sembrano fatte più per tutelare chi le viola che non chi, rispettandole, subisce un danno o un’offesa; e i magistrati paiono assai più solleciti nel sostenere le ragioni dei delinquenti che, al momento dell’arresto, restano contusi o feriti, che non quelle degli uomini delle forze dell’ordine che li hanno arrestati e che, facendolo, senza dolo sono stati costretti ad usare maniere energiche, in non pochi casi per difendere la loro stessa vita. Oggi un uomo delle forze dell’ordine che vede uno spacciatore mentre vende le dosi di eroina, o una prostituta che batte il marciapiede, o un individuo sospetto che si aggira con fare poco rassicurante intorno a un’automobile o al portone di un’abitazione, non di rado preferisce voltare la testa dall’altra parte e far finta di nulla: non per viltà o per menefreghismo, ma perché sa che in commissariato, quella sera, è di turno il magistrato tal dei tali, quello notoriamente e ostentatamente amico dei cattivi soggetti, per i quali ha sempre una giustificazione, perfino che spacciare e rubare non è un reato quando lo si fa per mancanza di altre fonti di reddito: e sanno che, se le cose dovessero farsi difficili e la cattura del soggetto dovesse presentare qualche complicazione, sarebbero loro a doversi giustificare. E di fatto non sono pochi i poliziotti costretti a versare mensilmente una parte del loro non ricchissimo stipendio a qualche rom, a qualche nigeriano, a qualche spacciatore o criminale, anche italiano, che al momento dell’arresto ha subito dei danni fisici, e al quale la giustizia ha riconosciuto il diritto al risarcimento. Che non gli viene pagato dallo Sato, ma proprio da quel singolo agente che ha avuto la sfortuna di essere di servizio in quel momento e in quel luogo: condannato a risarcire i danni subiti dal delinquente, lui che ha fatto solo il suo dovere. Quanto alle prostitute, specie se minorenni, sono le stesse amministrazioni comunali a raccomandare agli agenti di non fermarle, perché in tal caso dovrebbero farsi carico della loro assegnazione ai servizi sociali, con un aggravio tanto dispendioso quanto assurdo del proprio esercizio finanziario. E così le città, specialmente la sera e di notte, sono sempre più popolate di spacciatori, rapinatori, prostitute, transessuali e relativi protettori, e sempre più svuotate di cittadini perbene, i quali se ne stanno chiusi in casa e non si azzardano a metter fuori il naso fino al mattino, per recarsi al lavoro.

Questa è la situazione. Il nostro Paese, che dal 1945 gode di una sovranità limitata e che è campo di battaglia di svariati servizi segreti stranieri, venuti qui a farsi la guerra a suon di attentati e oscure trame terroristiche, soffre di un complesso buonista che gl’impedisce di essere giustamente severo nei confronti di chi viola le leggi e attenta alla sicurezza delle persone perbene. E adesso, in clima di falsa pandemia e di totalitarismo sanitario, assistiamo allo spettacolo sconcertante delle forze dell’ordine sguinzagliate, per mesi e mesi, ad affibbiare multe e a chiudere esercizi commerciali, mentre i clandestini continuano a sbarcare a migliaia e a installarsi in ogni località d’Italia come se fossero venuti ad occuparla. Il tutto mentre decine di migliaia d’immigrati islamici sfruttano illeciti assegni di povertà e gabbano il Paese ospitante fingendo che la seconde o terze mogli siano sorelle o cugine, così da moltiplicare il proprio peso demografico e preparare le condizioni per la completa sostituzione di popolazione; e gl’immigrati cinesi godono dell’assurdo privilegio di non pagare le tasse per i primi due anni delle loro attività commerciali, al termine dei quali essi le chiudono, per poi riaprirle sotto altro nome e proseguire così la beffa ai danni del fisco italiano; mentre non esiste supermercato o centro commerciale che in ciascuna città, piccola o grande, non sia piantonato da mattina a sera da due o tre africani nullafacenti, che chiedono l’elemosina offrendosi di portare i carrelli della spesa; né esiste quasi una stazione ferroviaria, piccola o grande, anche a ridosso dei maggiori centri storici, che non si sia trasformata in un perenne accampamento di personaggi di chi sa quale provenienza che vivono, mangiano, dormono, si lavano e depositano i loro rifiuti corporali nei giardinetti o sulle aiuole, a pochi metri dal flusso delle persone che vanno e vengono dai treni per andare o tornare dal lavoro: per portare a casa uno stipendio e con esso pagare anche le tasse destinate a mantenere un esercito permanente di scioperati venuti dai quattro angoli del mondo, per vivere sotto il bel cielo italiano senza un pensiero al mondo, senza faticare, senza darsi neanche la pena di cercare un’occupazione stabile che li renda autonomi e assicuri loro le condizioni per condurre un’esistenza dignitosa. Il tutto grazie a una cultura buonista, autopunitiva e auto denigratoria, secondo la quale chi è nato in questo Pese ed è riuscito, grazie al lavoro e allo spirito d’iniziativa, suo e dei suoi genitori e dei suoi ninni, a costruirsi un po’ di benessere, deve sentirsi in colpa per il proprio egoismo, il proprio capitalismo, la propria insensibilità. E meglio farebbe, come dice sovente il signor Bergoglio e come paiono attestare fior di sentenze di tribunale a conclusione di cause intentate a carico d’inquilini morosi, a regalare la casa o la proprietà a quei poveri stranieri che vengono qui in cerca d’un futuro migliore e che, poverini, non hanno alcuna colpa se nei loro Paesi c’è la povertà, mentre qui da noi, come tutti sanno, le vacche sono sempre più grasse e la gente non sa più come spendere i soldi; così come lo Stato dovrebbe dare la cittadinanza a chiunque nasce in Italia, anche se sua madre ci è arrivata (illegalmente) il giorno prima.

E dopo le forze dell’ordine, gl’insegnanti. Anch’essi sono una categoria a rischio: non sono per niente tutelati dallo Stato, anche se lo Stato chiede loro una missione sempre più impossibile: fare scuola a una percentuale crescente, e ormai talvolta preponderante, di giovani e giovanissimi di recente immigrazione, molti di quali non pensano affatto a integrarsi, né ad imparare, con amore e rispetto, la cultura italiana, ma semmai ad imporre la loro, insorgendo ogni qualvolta una maestra o un professore si permettono di dire qualcosa che suoni male ai loro orecchi, ad esempio far leggere in classe Dante Alighieri, là dove, nel canto ventottesimo dell’Inferno, si parla di Maometto, mobilitando le famiglie, in diversi casi aggredendo fisicamente l’incauto, e spessissimo rivolgendosi al dirigente scolastico affinché sanzioni l’insegnante poco inclusivo e in odore di razzismo. Il che viene fatto prontamente, il più delle volte, senza neanche ascoltare la versione dell’interessato. Anche in questo caso, le leggi e le istituzioni sono matrigne verso i loro servitori; non difendono colui o colei che, nell’esercizio della propria professione, cerca di far rispettare la legge e l’istituzione in cui opera, ma al contrario piantano in asso il troppo zelante educatore e prendono sistematicamente posizione a favore del povero immigrato, vittima di evidenti discriminazioni. Stesso atteggiamento nei confronti delle altre minoranze, non solo etniche, ma di qualunque tipo, le quali, da alcuni anni a questa parte, avendo fiutato il cambiamento in atto e sentendosi le spalle ben coperte dai poteri mondialisti che di esse si servono per disgregare quel poco che resta della famiglia naturale, della società e dello Stato, alzano continuamente la posta delle rivendicazioni, danno sfogo a un rancore lungamente accumulato e pretendono le scuse e le dovute riparazioni per tutto ciò che hanno subito, o dicono di aver subito, nel corso degli ultimi sei o sette secoli, da parte dei cittadini maschi, bianchi, eterosessuali e magari anche, horribile dictu, cristiani cattolici, vale a dire eredi e corresponsabili dei crimini di Torquemada e della Santa Inquisizione. Noi stessi conosciamo personalmente alcuni casi di questo tipo: ad esempio quello di un’insegnante che ha subito un provvedimento disciplinare per aver chiesto, senza se e senza ma, la bocciatura di uno studente svogliato e indisciplinato, il quale però, essendo di etnia albanese, ha fatto subito scattare, come un riflesso condizionato, tutto l’apparato buonista, antirazzista e solidarista che sempre, in questi casi, infallibilmente si agita, strepita ed esige pronta riparazione. Oppure il caso di una maestra che ha dovuto recarsi all’ospedale per i graffi e i morsi ricevuti da un alunno caratteriale (la ribellione all’autorità non è un fatto solamente etnico, ripetiamo) e che non solo non è stata difesa dalla dirigente, ma è stata in pratica scaricata poiché i genitori del ragazzino si sono recati in presidenza a fare una terribile sfuriata perché quella maestra, a loro dire, aveva mancato di tatto nei confronti del loro mite e innocente pargoletto. Conclusone: maestre, professori, ricordatevi della Lettera di don Lorenzo Milani, e scordatevi qualsiasi idea di premiare il merito, di portare avanti i meritevoli e di fermare i fannulloni e gli strafottenti: sarebbe una battaglia persa in partenza. Otterreste solo di farvi ridere in faccia, per la strada, da quei ragazzi che ingenuamente avevate pensato bene di non promuovere, sia perché non lo meritavano, sia per un senso di giustizia nei confronti dei loro compagni che si erano impegnati. Proprio come i poliziotti o i carabinieri che, a rischio di prendersi una coltellata alla carotide, hanno arrestato uno spacciatore nigeriano e l’hanno tradotto in centrale, e al mattino se lo vedono passare beffardo sotto il naso, libero come l’aria, perché il magistrato buonista e progressista di turno ha ritenuto che una notte al fresco fosse una pena più che sufficiente per il poveretto che, dopo tutto, spacciava, sì, ma solo perché non aveva altro modo di sbarcare il lunario. E questo mentre i magistrati bravi e coraggiosi, quelli che aprono le inchieste scomode e scottanti, come Angeli e demoni contro il perverso sistema degli affidi di Bibbiano, o magari contro la mafia o la camorra, vengono sistematicamente puniti con un brusco trasferimento in qualche sede sperduta e disagiata, per la terribile colpa di essersi avvicinati troppo ai centri occulti del potere e aver dato noia a qualche pezzo grosso che siede in Parlamento e deve pur difendere la sua illibata reputazione da calunnie e persecuzioni giudiziarie.

Che dire di una società che attua da tempo una vera e propria selezione all’incontrario; che non solo non si difende, ma reputa sconveniente e vergognoso farlo; che non osa neanche chiamare le cose col loro nome, ma s’inventa dolcissimi eufemismi per descrivere i mali fatali che l’affliggono, e dei quali è lei stessa responsabile? Che si è votata al suicidio. E la sua fine è questione di poco tempo: a meno che le forze sane che ancora esistono abbiano uno scatto di vitalità e d’orgoglio. Questa dovrebbe essere la missione di quanti amano la famiglia, la patria e la sorgente del Bene, del Vero e del Giusto: risvegliare la coscienza di ciò che serve per difendere una società vitale, sana e ordinata.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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