Satana potrebbe redimersi e diventare santo?
9 Giugno 2021
Pregare Gesù Cristo o pregare con Gesù Cristo?
12 Giugno 2021
Satana potrebbe redimersi e diventare santo?
9 Giugno 2021
Pregare Gesù Cristo o pregare con Gesù Cristo?
12 Giugno 2021
Mostra tutto

Le scelte del 1940, la pace del’45 e l’ora presente

Osservava il notissimo giornalista e scrittore Mario Appelius, all’inizio della Seconda guerra mondiale, nella sua Requisitoria contro l’Inghilterra (in: Parole dure e chiare (Milano, Mondadori, 1942, pp. 213-21):

Qual è la causa di questo spaventoso dramma intercontinentale che empie di lutti e di rovine il mondo e che minaccia di travolgere da un momernto all’altro altre centinaia di milioni di uomini e vastissime lontane contrade che nulla avrebbero a che vedere con le contese interne dell’Europa?
Non è fare della propaganda di guerra ma enunciare semplicemente una verità inoppugnabile della storia dire che la casa unica e suprema di tutti questi sconquassi del mondo è l’esistenza dell’Impero britannico.

Per disgrazia dell’umanità contemporanea esiste nel mondo questo gigantesco conglomerato di possedimenti coloniali e di conquiste territoriali che è l’Impero britannico, costituito da un popolo di pirati e di mercanti attraverso una lunga serie di colpi di mano, di rapine coloniali e di tradimenti internazionali. Questo mostruoso impero d’essenza fenicia sta accampato con la sua massa e con la sua dominazione politica e commerciale nei cinque continenti e tutti e cinque li disturba con la sua intrusione. (…)

L’alleanza dei pirati inglesi col Bolscevismo dimostra che questi secolari predoni di tutti i continenti non hanno non hanno nessuno scrupolo di scienza né civile, né europeo, né cristiano. Pur di impedire il Risorgimento dell’Europa, che non risponde all’interesse egoistico dell’Inghilterra, gli inglesi sono pronti a vedere l’Europa messa a ferro e fuoco dalle orde mongoliche di Stalin da Stoccolma ad Oporto e da Brest ad Atene. Per gli inglesi Parigi vale Bucarest, Roma vale Madrid, Berlino vale Praga. Questi lurchi mercanti hanno il cuore duro come l’oro che maneggiano e la coscienza sudicia come la carta moneta con cui s’imbottiscono il portafoglio. Quando Churchill ed Eden affermano che l’Inghilterra, gli Stati Uniti ed il Bolscevismo manterranno la guardia al mondo dopo la vittoria britannica dicono semplicemente che a Londra la civiltà europea importa quanto un fico secco. Per gli inglesi un allevamento di pecore dell’Australia o della Patagonia vale più di qualsiasi città dell’Europa, abbia essa anche mille anni di storia e di glorie sui suoi campanili e le sue torri.

Di fronte a questo pirata senza coscienza, che considera il sangue umano un sottoprodotto del petrolio, l’unica salvezza dell’Europa sta nella propria solidarietà. Un’Europa compatta, antibritannica, fermamente decisa ad espellere dal suo seno l’intruso inglese, fermamente risoluta a combattere in avvenire qualsiasi intrigo inglese è un’Europa che ha un sicuro destino di grandezza politica, di prosperità economica e di magistero civile. (…)

Il carattere intercontinentale dell’Impero britannico ha determinato, portato fatalmente questo conflitto a diventare un conflitto intercontinentale. Guerra intercontinentale contro un nemico unico, il conflitto non sarebbe tuttavia diventato una guerra di continenti tra loro. È Roosevelt che si è incaricato di regalare per la prima volta all’umanità una guerra tra continenti. Il nome di questo sinistro personaggio resterà eternamente vincolato a questo precedente, che fino a Roosevelt l’umanità si era rifiutata di crede possibile. Le dodici tribù randagie di Israele che hanno i loro attendamento nell’Impero britannico, che con le sorti del pirata hanno fuso i destini della loro razza, hanno piantato un grosso bivacco nella Casa di Roosevelt. È una vera disgrazia per gli Stati Uniti, per l’Europa, per l’Asia, per l’Africa e per l’Oceania che in questo momento la poltrona di Presidente degli Stati Uniti, invece di essere occupata da un vero nordamericano erede dello spirito antibritannico di Abramo Lincoln o almeno della saggezza antibritannica di un dottor Monroe, sia occupata da una specie di re Zorobabele incaricato di ricostruire il Tempio di Sion sulle rovine di cinque continenti.

Ci sarebbe molto da dire già sul concetto finale espresso qui da Mario Appelius, e che mette chiaramente a fuoco, con lucidità e preveggenza, quali forze internazionali si apprestavano a cogliere i frutti di una vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale. Qui tuttavia ci limiteremo ad una riflessione più circoscritta, sul significato della decisione italiana di entrare nel confitto nel 1940 e sulle conseguenze, a breve e lungo termine, che ebbe per l’Italia, per il modo di vita europeo e per la religione cattolica, la conclusione della guerra nel 1945.

Contrariamente a quel che tramanda la vulgata democratica e resistenziale, la guerra del 1940 non fu meno popolare di quella del 1915, semmai lo fu di più, perché registrò un maggior numero di volontari e un minor numero di renitenti alla leva, autolesionisti e disertori (che nel 1915-18) formarono delle vere bande in montagna, specie al Sud e nelle isole, mettendo in crisi il sistema dell’ordine pubblico). La vera ragione per cui nell’estate del 1943 venne memo la coesione nazionale fu molto semplice e non ebbe niente a che fare col fascismo in quanto dittatura: fu l’andamento sempre più sfavorevole delle operazioni militari, la crisi morale e la prospettiva sempre più imminente di una catastrofica sconfitta, che fecero riemergere il fondo di opportunismo e di qualunquismo tipico di un popolo che per troppo tempo era vissuto disperso nella dimensione municipale e che da troppo poco tempo aveva ritrovato, oltretutto in forme e con modalità antipopolari (leggi: massoniche e anticattoliche) la propria unità nazionale. Ma, si dice e si ripete, l’Italia nel 1940 avrebbe potuto tenersi fuori dal conflitto, e fu la decisione arbitraria di un uomo solo a precipitarla nel baratro, contro i sentimenti della stragrande maggioranza degli italiani. Si tace però che la stessa identica cosa si era verificata nel 1915, allorché l’Italia si trovò impegnata all’intervento, con il Trattato di Londra, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, e per la decisione esclusiva di Salandra, Orlando e Vittorio Emanuele III. Con la non lieve differenza che Mussolini, nel 1940, era immensamente più popolare — piaccia o non piaccia, questa è la pura verità – di quanto non lo fosse mai stato alcun capo di governo liberale, e in particolare di quanto lo fossero mai stati i Salandra, gli Orlando o i Giolitti ai primi del Novecento (sì, anche Giolitti: il quale era contrario alla guerra nel 1915, ma aveva deciso pressoché da solo la guerra contro l’Impero ottomano appena quattro anni prima, nel 1911). Il re, poi, era lo stesso che nel 1915 aveva approvato il Patto di Londra, ed era, come allora, il capo supremo dello Stato e delle forze armate: non si venga perciò a dire che non avrebbe potuto mettersi di traverso alla decisione del Duce, se davvero avesse ritenuto che questa andava a configgere con gl’interessi vitali della nazione, lui che venticinque anni prima aveva giocato alla roulette russa, puntando tutto, sia il destino della Patria che quello della monarchia, su una carta sola.

Quanto al fatto che la guerra, nel 1940, era evitabile, la verità sta all’opposto di come viene narrata dalla quasi totalità degli storici: perché la libertà di manovra consentita all’Italia dal gioco delle grandi potenze era allora ancor più ristretta di quanto lo fosse stata nel 1915, come altrove ci siamo sforzati di dimostrare (cfr. gli articoli: Londra voleva la guerra con l’Italia fin dal 1938 e intendeva colpirla nel Dodecaneso, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/11/17; Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?, il 10/12/17; Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla Seconda guerra mondiale, il 21/12/17; 1940: fu il blocco inglese a spingere l’Italia in guerra, il 15/11/19). La crisi del 1943 fu, a ben guardare, del tutto paragonabile a quella del 1917, all’indomani di Caporetto; anzi, se possibile, quest’ultima fu ancora più grave, con metà dell’esercito che si era letteralmente sfasciato e gli Alleati che non credevano più alle possibilità di tenuta del Paese. La ripresa sul Piave fu resa possibile dal fatto che l’esercito si era arroccato su un fronte assai più breve di quello tenuto prima di Caporetto e che la guerra era divenuta improvvisamente da offensiva, difensiva, cosa che ne rendeva evidente il significato anche ai più ingenui o sprovveduti. Nel 1943 l’esercito italiano era disperso su una quantità di fronti secondari, dalla Francia ai Balcani, e le forze impegnate per la difesa immediata del suolo patrio erano di mediocre qualità, truppe territoriali o di riserva scarsamente dotate di artiglieria e altri mezzi logistici (mentre si erano inutilmente sacrificate, in Tunisia, delle ottime divisioni, bene addestrate e bene armate). Senza contare che le province invase erano, per ragioni storiche, memo reattive di fronte a un’invasione nemica di quanto lo fossero state quelle del Veneto e del Friuli, per cui non si rinnovò, in Sicilia, il miracolo del Piave.

C’è inoltre un’osservazione di carattere storico-psicologico a proposito del crollo morale che fece svanire ogni possibilità di prolungare lo sforzo bellico nell’estate del 1943. Un’invasore proveniente dal Nord, dalle Alpi, e specialmente dal Nord-Est, cioè dall’Austria, evoca immediatamente l’idea d’un nemico che viene per conquistare e sottomettere, e ciò sicuramente ha pesato nel ricompattare il sentimento nazionale nell’autunno del 1917, dopo Caporetto. Ma un’invasore che arriva dal Sud, dal mare, e che effettua uno sbarco in Sicilia, può anche apparire non come un nemico, ma come un liberatore. Chi viene dal mare di solito non ha manifeste intenzioni annessionistiche e potrebbe giocare la carta di presentarsi come nobilmente disinteressato, venuto non per combattere l’Italia, ma per liberare l’Italia da un governo indegno e moralmente squalificato. C’è una lunga serie di precedenti storici di tal genere, dalla Guerra del Vespro, con lo sbarco degli Aragonesi contro gli Angioini nel 1282, allo sbarco dei Mille di Garibaldi contro i Borbonici nel 1860. Nel 1943 gli Anglo-americani sbarcarono, sì, fucilando i prigionieri di guerra e puntando alla resa incondizionata dell’Italia, anche mediante i bombardamenti aerei terroristici su Roma e le altre grandi città, ma gli invasori, non appena entravano nei centri urbani, per prima cosa gettavano dalle torrette dei carri armati scatolette di carne, tavolette di cioccolata e calze di nylon, ostentando cioè una generosità e una larghezza di mezzi che fecero un’enorme impressione sulle popolazioni stremate da tre anni e mezzo di restrizioni e sacrifici sempre più pesanti, e dando la sensazione che proseguire la lotta contro un tale nemico sarebbe stato al tempo stesso inutile e assurdo. A che scopo farsi stritolare da quella formidabile macchina bellica, se, alzando la bandiera bianca, si sarebbe potuto ricevere un trattamento più che amichevole, addirittura fraterno? Sensazione aumentata dalla presenza di militari italo-americani "giocati" al preciso scopo di avvalorare l’idea che il nemico non era un vero nemico, ma un liberatore e, quasi, un fratello di sangue, che conosceva molto bene le cose dell’isola (anche troppo), al punto di sapersi servire della rete mafiosa per agevolare le proprie mosse. Si fece così strada, in pochissimo tempo, l’idea che gli Angloamericani non fossero venuti in armi per piegare l’Italia, ma per cacciare il fascismo; e che pertanto fosse cosa logica e giusta che gli italiani contribuissero a una così generosa liberazione, impugnando le armi contro quei loro connazionali che non volevano saperne di essere liberati in tal modo, che volevano seguitare a combatte per la difesa della Patria, e addirittura, orrore degli orrori, mantenere la fedeltà all’alleato tedesco, che in Sicilia, nel luglio del 1943, e prima ancora in Nord Africa, si era strenuamente battuto proprio per ritardare l’invasione e fare da scudo ai bombardamenti alleati e alle altre delizie della decantata liberazione.

L’idea che bisognasse ricompensare i liberatori combattendo con loro e contro i propri fratelli era assurda, ridicola, vergognosa, e nondimeno mise velocemente radici, e poi è passata pari, pari, nella storiografia ufficiale: gli Angloamericani in fondo erano gli amici dell’Italia, venuti a liberarla; e gli italiani dovevano scegliere se contribuire alla propria liberazione o se mostrarsi così ingrati da continuare a combattere contro di loro. Quando, oltretutto, c’erano tutti i segni che la guerra si avviva alla conclusione con la schiacciante vittoria alleata e che perciò seguitare a resistere contro i liberatori sarebbe stato non solo insensato, ma anche suicida. L’assenza di un maturo sentimento nazionale impedì alla maggioranza di capire che le guerre si possono anche perdere, ma che, se le si perde con dignità e onore, i destini futuri della Patria non sono sostanzialmente compromessi. Cosa che fatalmente avviene, invece, se la sconfitta è accompagnata dal disonore e dal tradimento, come l’8 settembre del 1943; e che disonore e tradimento non pagano se non in moneta falsa, come poi apparve chiaro con l’umiliante trattato di pace di Parigi del 1947, dove i "liberatori" mostrarono il loro vero volto e le loro vere intenzioni, che erano sempre state quelle di far fuori l’Italia come grande potenza e anche come Stato sovrano, non certo di regalarle lo status di nazione amica e con pari dignità e pari diritti dei vincitori.

Un’ultima osservazione, sul versate religioso della geopolitica. L’Italia, nel 1940, era l’ultima grande potenza cattolica a livello mondiale, come lo era stata l’Austria-Ungheria nel 1914. La Francia era completamente in mano ai massoni anticattolici e la Spagna, che aveva rischiato di cadere sotto una dittatura comunista nel 1937, non contava più sulla scena internazionale. Poi c’erano le potenze anglosassoni protestanti, e l’Unione Sovietica atea e anticristiana. La conclusione della guerra, nel 1945, portò all’eliminazione del cattolicesimo come fattore di potenza geopolitica, con il Vaticano screditato dai Patti Lateranensi col fascismo, e umiliato dalla doppia conquista di Roma, quella tedesca nel 1943 e quella alleata nel 1944; per non parlare della campagna di denigrazione organizzata contro Pio XII per i suoi supposti silenzi sulla sorte degli ebrei. Restavano i cattolici, numerosi in tutti e cinque i continenti, ma senza più uno Stato guida, e gravati dai sensi di colpa deliberatamente istigati da quanti volevano istituire un’arbitraria connessione fra la loro fede religiosa, o, se non propria la fede religiosa, la loro visione del mondo, e Auschwitz. Insomma, dopo il 1945 nulla poteva tornare più come prima, non solo per l’Italia come Stato sovrano, ma anche per la Chiesa cattolica, e specialmente per il Papato, come istituzione mondiale saldamente fondata sulle proprie basi, sicura di sé e giustamente fiera del proprio passato. A partire dal 1945 si sviluppò una potentissima offensiva culturale e psicologica, accompagnata dall’azione economica e politica del Piano Marshall: se dapprima erano state sigarette, tavole di cioccolata e scatolette di carne, poi fu tutto l’insieme dell’americam way of life, il torrente fangoso del consumismo, la rivoluzione dei costumi sessuali, coi suoi inevitabili sviluppi nelle leggi sul divorzio e sull’aborto: un’offensiva che, per lo stile di vita cattolico e per i principi della morale cattolica, si sarebbe rivelata perfino più esiziale di quanto lo fu la dittatura comunista nei Paesi dell’Europa centro-orientale. Tanto è vero che dopo la caduta del Muro di Berlino quelle popolazioni sono tornate alla pratica della vita cristiana, mentre il declino della vita cristiana in Italia e nel resto dell’Europa occidentale si è rivelato irreversibile, fino al punto di vedere i "cattolici" schierarsi a sostegno dell’aborto fino al nono mese di gravidanza, per non parlare dell’ideologia gender e della richiesta di benedizione alle coppie omosessuali.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.