La fiducia in Dio, condizione necessaria per la lotta
3 Giugno 2021Sconvolgente attualità della catechesi di 150 anni fa
5 Giugno 2021Se c’è una cosa sulla quale praticamente tutti, filosofi e persone qualsiasi, si trovano d’accordo, è la convinzione che tutti gli uomini cercano la felicità. Che lo sappiano o che non lo sappiano, tutti desiderano essere felici e tutti tendono alla realizzazione di questo loro desiderio più profondo. Il disaccordo nasce su quali siano le strade che conducono alla felicità e quali i mezzi più adatti per raggiungerla e, possibilmente, conservarla; non sul fatto in sé.
Ma perché gli uomini bramano la felicità? Non basta rispondere che a ciò li spinge un fortissimo istinto; perché l’istinto è una facoltà animale e nell’uomo, creatura razionale, l’istinto non può determinare il desiderio più grande di tutti senza che vi sia un concorso della ragione e della volontà, la quale è la capacità di dirigere l’azione verso un determinato fine e perciò, in definitiva, di scegliere fra il bene e il male. Negli animali, infatti, l’istinto della felicità coincide con l’istinto di conservazione della vita; mentre l’uomo è il solo animale capace di reprimere l’istinto di conservazione e affrontare la morte non solo per la protezione delle persone care (questo è un istinto che hanno anche gli animali), ma per dare testimonianza a una nobile causa, cioè per affermare un valore ideale. Certo, la brama della felicità, nell’uomo, si unisce all’istinto della vita, ma non si fonde del tutto con esso, rimangono due cose distinte: in determinate circostanze, la brama della felicità può separarsi dall’istinto vitale e spingere l’uomo a preferire la morte alla vita, come nel caso dei martiri cristiani. Dunque, per rispondere alla domanda: perché gli uomini bramano la felicità?, bisogna innanzitutto definire cosa sia la felicità, quello stato dell’essere che i romani chiamavano felicitas o beatitudo, e i greci eudaimonia. A noi sembra che la definizione migliore sia anche la più semplice possibile: gli uomini tendono a stare bene, e un completo star bene del loro essere viene chiamato felicità. Pertanto il desiderio della felicità è un assecondare una spinta naturale e spontanea dell’anima, il che non si può dire di tutti gli istinti, perché lo psicologo sa bene che esistono anche degli istinti perversi, i quali, evidentemente, non devono venire assecondati né dalla ragione, né dalla volontà. La riprova è che nessuno, spontaneamente, desidera star male, a meno che soffra di qualche disturbo psicologico: ma una cura appropriata lo rimetterà in grado di dirigere il proprio essere non verso lo stare male, come avviene, oggettivamente (anche se non soggettivamente), per il masochista cronico, ma verso lo stare bene, come avviene in tutte le persone sane e normali. La conclusione è che noi siamo fatti per star bene e non già per stare male: e se alcuni individui, anzi molti, perseguono tenacemente il proprio star male, e fanno di tutto per conseguirlo, ciò avviene per una deviazione della ragione, che non permette loro di capire cosa siano il bene e il male, o della volontà, che non permette loro di scegliere in maniera appropriata fra le due cose.
Ora, lo star bene è, nell’orizzonte esistenziale dell’uomo normale, il compendio di tutti i beni, ovvero il massimo del bene possibile nella propria vita. Ciò significa che per stare bene bisogna scegliere il bene e non il male, perché il male fa star male, cioè produce sofferenza e infelicità, mentre il bene produce piacere e felicità. Possiamo perciò definire la felicità non solo come la meta agognata, ma anche come lo stato normale dell’essere, fintanto che le condizioni di vita non vi si oppongono e riescono a operare, agendo dall’esterno o dall’interno, una significativa deviazione dal normale ordine di cose. L’uomo è ordinato alla felicità perché la desidera sopra ogni cosa e perché nel suo essere vi sono i mezzi per conseguirla, altrimenti non la desidererebbe o non la sentirebbe come il maggiore dei beni possibili. Opinare il contrario è assurdo: se all’uomo non fossero dati i mezzi e gli strumenti per raggiungere la felicità, come potrebbe provare una tale attrazione verso di essa? Tutto ciò che è desiderabile è anche possibile e tutto ciò che è possibile è anche reale. Per esempio, l’uomo è attratto dalla bellezza perché il bello è possibile, ed essendo possibile è anche reale; se il bello non esistesse o non fosse possibile, l’uomo non si sentirebbe costantemente attratto verso di esso.
Né si obietti, con Gaunilone, che la possibilità di una cosa desiderata è altra cosa dalla sua esistenza: a ciò abbiano già risposto (cfr. l’articolo: Si nasce per amare, ma solo Dio è l’Amore perfetto, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/05/21) e ribadiamo che non potremmo né desiderare una cosa per noi assolutamente irraggiungibile, perché in tal caso non si spiega perché mai ne avremmo il desiderio, né immaginare l’esistenza di qualcosa di cui non avessimo la benché minima nozione, cioè che fosse per noi impensabile, inimmaginabile e inintelligibile. Se, al contrario, sentiamo in noi un’ardente brama di essere felici, cioè di stare bene, ciò accade perché la nozione del bene non è per noi un pensiero astratto, ma una nozione concreta, che possiamo sperimentare, sia pure parzialmente e fugacemente, o che abbiamo almeno intravisto, o di cui abbiamo udito che testimoni attendibili ne hanno fatto l’esperienza. Tutto il nostro sapere, infatti, proviene dall’esperienza: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, niente è nella mente che prima non sia stato nei sensi, come insegna la buona vecchia filosofia tomista. Perciò, se sappiamo che la felicità esiste, perché ci protendiamo verso di essa, e sarebbe da pazzi protendersi verso qualcosa che si sa non esistere, ciò significa che ne abbiamo fatta l’esperienza sensibile, e sia pure, ripetiamo, in maniera molto vaga e fuggevole, un semplice assaggio rispetto alla perfetta felicità cui aspiriamo ardentemente. Ma la perfetta felicità è il perfetto bene, e il perfetto bene è Dio, Bene Sommo e assoluto, senza traccia d’imperfezione, stabile, radicato nel proprio Essere, tutt’uno con il proprio Essere.
Ed eccoci arrivati all’importantissima conclusione che desiderare la felicità è la stessa cosa che desiderare di giungere a Dio.
Scrive Severino Boezio nel De Consolatione Philosophiae, dopo aver passato in rassegna i falsi beni che sono oggetto della concupiscenza degli uomini, e averne mostrato il carattere caduco e illusorio, ragion per cui nessuno di essi porta alla desiderata felicità (III,10; La consolazione della filosofia, traduzione di Ovidio Dallera e introduzione di Christine Mohrmann, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 231-232):
Che Dio, l’essere superiore a tutti, sia buono, lo sta a provare il modo di concepire comune alle menti umane; dal momento, infatti, che non si può concepire nulla di più buono che Dio, chi potrebbe dubitare che sia buono quello di cui nulla è più buono? E che Dio è buono la ragione lo dimostra in modo tale da indurre a crede che in lui sia posto anche il perfetto bene. Di fatti, se così non fosse, non potrebbe essere il fondamento di tutte le cose; perché ci sarebbe qualcosa superiore a lui e tale che, possedendo il bene perfetto, per ciò stesso risulterebbe anteriore a lui e di lui più antico; le cose perfette, infatti, sono sempre apparse chiaramente anteriori rispetto a quelle meno perfette. Perciò, per non procedere all’infinito con il ragionamento,si deve ammettere che in Dio sommo sia la pienezza del sommo e perfetto bene; ma noi abbiamo dimostrato che il sommo bene coincide con la vera felicità: ne deriva quindi necessariamente che la vera felicità si trova nel sommo Dio. (…)
Non devi, anzitutto, partire dall’idea che Dio, padre di tutte le cose, abbia ricevuto dall’esterno quel sommo bene di cui egli è considerato il detentore, o che lo possegga per sua natura ma in modo tale da far ritenere che Dio possessore della felicità e la felicità posseduta da Dio costituiscano due sostanze diverse. Qualora infatti tu supponga che questo bene Dio l’abbia ricevuto dall’esterno, chi gliel’ha concesso dovrebbe essere considerato superiore a lui che lo ha ricevuto, ma noi riconosciamo invece, e quanto mai giustamente, che è lui l’essere infinitamente superiore a tutti. Se poi il bene si trova in lui sì per natura, ma da lui formalmente distinto, non si vede da chi mai possano essere state congiunte queste due essenze diverse, dal momento che parliamo di Dio come dell’essere superiore a tutti. Infine, se una cosa è diversa da una qualsiasi altra, non può coincidere con quest’altra, dalla quale, per definizione, è appunto diversa. Perciò, quello che per sua natura è diverso dal sommo bene non è il sommo bene, cosa questa che sarebbe inammissibile pensare a proposito di colui che, come risulta provato, è superiore a tutti gli esseri. Nessun essere infatti potrà mai avere una natura migliore del principio da cui proviene; è perciò facile concludere con assoluta sicurezza che l’essere costituente il principio di tutti è lui stesso, per sua essenza, il sommo bene. (…)
Ma si è pure ammesso che il sommo bene è la felicità. (…)
Bisogna dunque riconoscere (…) che Dio è la felicità stessa. (…)
Osserva (…) come la stessa conclusione trovi una conferma anche più solida partendo da quest’altro punto di vista, che cioè non possono esistere due beni sommi, che siano tra di loro diversi. È chiaro infatti che tra due beni differenti, l’uno non è quello che è l’altro; perciò nessuno dei due potrà essere perfetto, dato che all’uno dei due manca l’altro. Ma ciò che non è perfetto, evidentemente non è sommo; in nessun modo, quindi, quelli che sono beni sommi possono essere diversi. Orbene, noi siamo giunti alla conclusione che sia la felicità sia Dio sono il sommo bene; è perciò indispensabile che sia felicità somma quella che è divinità somma.
È chiaro: se esistessero due o più sommi beni, perciò stesso non potrebbero essere il sommo bene, perché il sommo bene è unico e sovrasta tutti gli altri. Non quindi pensabile che il sommo bene sia una realtà plurale di stati dell’essere, è pensabile, invece, e anche dimostrabile, che nel sommo bene si trovano, come le facce di una stessa pietra preziosa, tutti quei beni che appaiono più desiderabili e che, da una prospettiva parziale e limitata, quale è quella di chi si trova immerso nella dimensione dello spazio e del tempo, con tutte le sue aporie e le sue imperfezioni, appaiono come distinti e separati. In realtà nel Sommo Bene tutti i beni supremi coincidono: la verità, la bellezza e la giustizia si uniscono alla bontà, e sono come tanti aspetti di una cosa sola e indivisibile. Abbiamo detto, infatti, che il sommo bene, per l’uomo, è la felicità; ma abbiamo anche visto che il sommo bene è Dio. Dunque, Dio è per l’uomo la somma felicità, e in essa non vi sono separazioni di stati o distinzioni di gradi e di modi. Chi è felice è assolutamente felice: la verità, la bontà, la giustizia e la bellezza concorrono a formare un unico stato dell’essere, che si chiama felicità o beatitudine, come la chiamavano i latini. E come in Dio sono riunite queste distinte facoltà, formando una cosa sola, così in colui che giunge fino a Dio, a conoscerlo, amarlo e servirlo, vi è una beatitudine piena e indifferenziata, che non conosce differenze o discontinuità. Giungere fino a Dio significa essere felici, ed essere veramente felici significa essere giunti a Dio e aver riposto la propria vita nelle Sue mani, incondizionatamente e assolutamente.
È triste, ma non casuale, che così tanti esseri umani siano lontanissimi dal capire dove sta di casa la felicità e si ostinino a cercarla dove essa non c’è, inseguendo fantasmi di beni fugaci e ingannevoli, mentre disdegnano il vero Bene, nel quale la loro brama di felicità verrebbe totalmente appagata. Non è casuale perché l’intera civiltà moderna è stata costruita, scientemente e pervicacemente, in opposizione a Dio e con la manifesta volontà di deificare l’uomo stesso. Ma l’uomo, creatura, non può fare le veci del suo Creatore: può solo scimmiottarlo; e, così facendo, degradare la sua nobile natura e abbassarsi perfino al di sotto del livello delle bestie. Lontano da Dio, infatti, e sprezzante della Sua legge morale, l’uomo è capace di fare cose terribili; cose che gli vengono ispirate da una forza più antica e più potente di lui, quella dell’eterno avversario. Così, di fatto, la civiltà moderna, nata da un disegno anticristico e portata avanti da un’oscura sinarchia di Padroni Invisibili, i quali sono giunti a controllare tutti i mezzi dai quali dipende la formazione del carattere, della cultura, della concezione di vita degli uomini, continua a sfornare individui smarriti, sbandati, accecati, i quali, inseguendo l’eterno desiderio della felicità, si precipitano con i loro stessi piedi sulla strada dell’infelicità, dell’autodistruzione e della morte. E la catena dell’inganno e dell’autodistruzione prosegue, una generazione dopo l’altra, assumendo un ritmo sempre più veloce; finché, per dargli la spinta decisiva, i Padroni Occulti hanno scatenato il terrore di una falsa pandemia, per mezzo del quale, e con la complicità delle classi dirigenti degli stati, stanno procedendo a instaurare l’ordine, o meglio il disordine, finale: una trasformazione irreversibile dall’umano al transumano, nel quale l’uomo, fatto a immagine di Dio, diventerà una essere semi-artificiale, controllabile e manipolabile al cento per cento dai suoi signori. Per scongiurare un simile esito, c’è una strada sola da percorre, e bisogna ritrovarla in fretta: la strada della vera felicità, quella che porta a Dio, unico e Sommo Bene.
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