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La filosofia moderna è l’anticamera dell’inferno

La filosofia, dicono i professori ai loro studenti sui banchi del liceo, è amore del sapere, dal greco phileîn, amare, e sophìa, sapienza. Benissimo. Quel che però di solito non dicono, quei bravi professori, ai loro studenti ancora ignari della disciplina che si accingono a esplorare, è che questo amore non si rivolge a un sapere qualsiasi, a una sapienza relativa e soggettiva, perché in tal caso ciascuno avrebbe il proprio sapere, mentre la caratteristica essenziale dell’uomo è la ragione, e la ragionevolezza vuole che chi cerca, sa cosa cercare, sia pure a grandi linee, e non se ne vada a casaccio qua e là: come appunto fanno i cosiddetti filosofi moderni. Ora, il sapere per eccellenza è il sapere del vero: perché qualunque altro sapere sarebbe al massimo un mezzo sapere, cioè un non sapere, e amare qualcosa che non si può raggiungere è intrinsecamente illogico e contraddittorio. Il che sarebbe indegno di una creatura ragionevole e perciò razionale, essendo la razionalità null’altro che l’estrinsecazione, in modalità precise, logiche e dimostrabili, della ragionevolezza, che è solo una potenzialità dell’essere (talché molti uomini, di fatto, pur essendo in teoria dotati di ragione, agiscono in modo del tutto irragionevole e irrazionale). Bisognerebbe dunque anche spiegare, a quei bravi ragazzi, che la filosofia ha un senso se è ricerca razionale ordinata al vero; diversamente è chiacchiera e perdita di tempo. A chi interessano le opini soggettive e i dotti sproloqui di questo o quel sedicente pensatore? Chiunque, infatti, può definire se stesso un pensatore, e in pratica ci accade spesso d’imbatterci in qualcuno che si definisce tale, dandosi da se stesso una simile patente. Ma è realmente filosofo chi pensa il vero, chi cerca il vero, o almeno chi ci prova; e chi no, chi si limita a frugare qua e là, a sfiorare il vero ma senza puntare ad esso, anzi puntando a tutt’altro, limitandosi a restare in superficie, a dedicare la sua attenzione ai singoli enti e ai singoli aspetti del reale, perdendo di vista l’orizzonte della verità, costui non è filosofo, ma sofista o professore da sbadiglio. Ora, di fatto la filosofia moderna ha abbandonato l’orizzonte di verità, perché ha abbandonato, con Cartesio, l’oggettività e l’università del sapere (io penso, e non così è), e ha abbandonato, con Kant, la metafisica e la cosa in sé. Ciò ha spalancato la porta a tutti i venditori delle più strampalate fumisterie, a cominciare dagli idealisti, i quali, con la loro curiosa asserzione che tutto è pensiero, pretendono che anche l’essere venga dal pensiero, e non il pensiero dall’essere; e inoltre che tutto ciò che è razionale sia anche, per ciò stesso, reale, e che tutto ciò che è reale debba anche essere, per ciò stesso, razionale. Delle due asserzioni, che stanno a fondamento di tutto l’idealismo, non si saprebbe dire quale è la più pazza, la più assurda, la più lontana dalla realtà. Ma cosa volete che sia la realtà, la banale realtà del mondo, per un mago portentoso come Hegel, capace di far scaturire il mondo dal mantello del suo pensiero, e così chiaro e consequenziale nei suoi ragionamenti, da aver ammesso lui stesso, in un momento di rara sincerità, di non saper più spiegare cosa intendesse dire quando scriveva una certa cosa, di non comprenderla più; e dunque figuriamoci quanto può esser chiara la sua filosofia per gli studenti o i lettori costretti a macinare le migliaia e migliaia di pagine del suo astruso, farneticante e incomprensibile sistema.

Dunque, la filosofia moderna – che non è realmente filosofia, perché di essa si può dire quel che Maritain diceva dell’idealismo, che non è filosofia perché non rispetta nessuna delle regole ammesse da tutti i filosofi precedenti, e perciò, aggiungiamo noi, è costruzione di castelli in aria, indimostrabili e, non di rado, inintelligibili – somiglia a un edificio chiuso, asfittico e separato dalla realtà, popolato di maniaci e pazzi logorroici, ciascuno dei quali va elucubrando le sue stramberie e riceve l’applauso degli altri, o magari anche le loro critiche, ma pur sempre nella piena condivisione dell’orizzonte complessivo: soggettivista, relativista, agnostico riguardo al vero. Agnosticismo che consente a ciascuno di essi, appunto, di vendere la propria merce vantandone le eccelse qualità, anche se si tratta di merci che si contraddicono radicalmente e perciò si escludono a vicenda: infatti, in assenza di un criterio riconosciuto di verità universale, nessuno può essere smentito e nessuno può essere indotto a riconoscere il proprio errore. Così sono tutti contenti, si vantano tutti di essere dei grandi filosofi e mettono sulla vetrina della loro bottega il loro bravo cartello: Qui troverete le merci migliori al prezzo più basso; e non pochi di essi fanno quel che faceva Hegel secondo Schopenahuer, cioè i coribanti, agitando il timpano e danzando freneticamente, ebbri e divinamente ispirati, come danzava, nudo e divinamente ispirato, il povero Nietzsche sul letto della sua camera a pensione, allorché la pazzia scese pietosa sulla sua mente e gl’impedì di scrivere ulteriori deliri. Ma la cosa più triste è che costoro, oltre a non essersi neppure avvicinati alla verità, hanno gettato via la chiave, che pur possedevano, impedendo agli altri di entrarvi: così che gli uomini della società moderna, abbandonati al cattivo esempio di simili "maestri", si sono a loro volta allontanati dalla verità e si sono un po’ alla volta abituati a vivere in un mondo assurdo, paradossale, antiumano, solo perché quelli che se ne intendono, o dovrebbero intendersene, come l’idraulico s’intende di tubature e rubinetti e l’elettricista di impianti elettrici, hanno detto e fatto credere che la verità non esiste, o non è raggiungibile, perché nessuno può sapere cosa sia la cosa in sé, e dunque bisogna contentarsi di conoscere alla bell’e meglio gli enti, abbandonando l’immodesta pretesa di conoscere l’essere in quanto essere. Che fatica vana, che sport insensato diviene la filosofia, quando dichiara impossibile giungere al vero, anzi quando dichiara che la verità non esiste, perché tutto è relativo; e quanto tempo perso, quante energie sprecate, da parte dei professori e dei poveri studenti, ad imparare e a propalare quel che hanno detto i cosiddetti filosofi moderni da Cartesio in poi, con la sola eccezione dei pochissimi rimasti fedeli alla metafisica; quante cose più utili, per se stessi e per gli altri, si sarebbero potute fare, invece di seminare il mondo di errori, di spropositi e di vaneggiamenti spacciati per filosofia. Il risultato di questo grande equivoco è che agli studenti viene nascosta la cosa più importante: che filosofare è pensare l’essere, quindi pensare la verità, e pensarla secondo verità; e che all’infuori di questo la filosofia non serve a nulla, è come un vestito vuoto, un’impalcatura posticcia, una casa senza fondamenta.

Se ci si prende la briga di passare in rassegna la storia della filosofia moderna, e si la considera sotto questo punto di vista ossia la rinuncia della cosa in sé e l’indifferenza o il disprezzo della metafisica, ci si accorge che quasi nessuno dei suddetti pensatori merita di essere considerato filosofo; che i loro sistemi e i loro ragionamenti, per quanto possano essere acuti nei particolari, nell’insieme però mancano completamente sia di basi, sia di significato; e che la sola conclusione possibile di cinque secoli di non-filosofia è che per quei signori la ragione è stata data all’uomo come una sorta di beffa, perché a tutto può servire tranne alla cosa cui essa è ordinata: la ricerca e la comprensione del vero. Non potendo fare qui una simile rassegna, partendo da Cartesio, Spinoza, Leibniz, Locke, e arrivando fino a agli Eco, ai Vattimo, ai Galimberti e ai Cacciari, ci limiteremo a pochissimi casi, tratti dal pensiero del Novecento (per le citazioni degli autori ci siamo serviti dell’Atlante di Filosofia a cura di Peter Kunzman, Franz-Peter Burkhard e Franz Weidmann, Mümchen, 1991; tr. di Laura Burlando, Milano, Sperling & Kupfer, 1993).

Ecco Jean Paul Sartre, che distingue un essere in-sé, come essere delle cose indipendente dalla coscienza, e l’essere per-sé, ovvero l’essere dell’uomo che si determina nella coscienza. Parrebbe, qui, che ci si trovi almeno su terreno abbastanza solido; invece apprendiamo che per Sartre l’in-sé non si riferisce né a se stesso, né ad altro; inoltre che è impenetrabilità pura, ossia positività non interrotta da alcun non-essere; in breve, che è ciò che è. Bella scoperta. Prima dunque il nostro filosofo ci dice che per l’in-sé dobbiamo scordarci il principio d’identità, A è uguale ad A, perché l’in-sé non è se stesso, e che non è neppure altro, dunque dobbiamo scordarci anche il principio di non contraddizione (perché se A non è A, sarà almeno B: invece no). Infine Sartre sostiene che il nulla è la coscienza dell’uomo, e neppure questa conclusione si capisce bene da dove salti fuori: come può essere il nulla se è la coscienza, ossia qualche cosa? Di nuovo, tanti saluti al principio d’identità e a quello di non contraddizione. Ma ecco le parole precise di Sartre (e complimenti a voi se riuscite a capirci qualcosa):

L’essere tramite il quale il nulla entra nel mondo è un essere al quale nel suo essere interessa il nulla dell’essere: l’essere tramite il quale il nulla giunge nel mondo deve essere il suo proprio nulla. Sino alla formulazione esplicita di una anti-logica radicale: l’esistenza, dice Sartre, è un essere che è ciò che non è e non è ciò che è.

Ora ecco Albert Camus, ovvero la nostalgia di un’armonia perduta e irrecuperabile fra l’uomo e il mondo, con il conseguente scacco della ragione e il destino di una vita sospesa sull’abisso dell’assurdo:

L’estraniazione ci coglie: la percezione dell’imperscrutabilità del mondo, la sensazione di quanto un macigno sia a noi estraneo e impenetrabile e l’intensità con la quale la natura o un paesaggio ci respingono… Il mondo ci sfugge: torna a essere se stesso.

Percezione, sensazione: sono questi elementi del pensiero filosofico, o sono fattori meramente sensoriali, sui quali il pensiero razionale dovrebbe esercitare un’opera di chiarificazione o quantomeno di riflessione? Dire che il mondo ci è estraneo e impenetrabile e che la natura o il paesaggio ci respingono non è fare filosofia, semmai fare poesia. Come in Leopardi.

Ecco Martin Heidegger. L’uomo è gettato nel mondo come esserci (Dasein), cioè come coscienza che riflette sulla propria esistenza. L’esserci si determina a seconda delle sue possibilità e quindi l’uomo deve rinunciare a dedurre l’esistenza da un ente universale preesistente. L’esserci deve quindi comprendere se stesso a partire dalla propria esistenza: anche qui, niente punti di riferimento trascendenti e assoluti. Salvo che poi, a un certo punto, il pensiero di Heidegger compie una svolta radicale e la comprensione dell’essere nell’esserci passa di mano dall’esserci all’essere, che si rivela spontaneamente all’uomo.

L’uomo è gettato dall’essere stesso nella verità dell’essere, sicché, esistendo custodisce la verità dell’essere e con ciò, nella luce dell’essere, l’ente appare come quell’ente che è. Se e come esso appaia, se e come Dio e le divinità, la storia e la natura entrino nella natura dell’essere, presenti o assenti, questo non viene stabilito dall’uomo. La venuta dell’ente si fonda sul destino dell’essere. Per l’uomo rimane l’interrogativo se egli possa trovare nella convenienza della sua essenza ciò che a questo destino corrisponde.

Domandiamo sommessamente a qualsiasi lettore imparziale ed onesto se queste frasi sono improntate alla logica filosofica, o se sono anche soltanto intelligibili. Sembrerebbero quasi un gioco della parola che crea una realtà fittizia, fatta di belle frasi: la luce dell’essere; l’ente appare come quell’ente che è; la venuta dell’ente si fonda sul destino dell’essere: che diavolo vogliono dire espressioni di tal genere? La prima ci sembra piuttosto poesia; la seconda è una tautologia; la terza è semplicemente incomprensibile. Bisognerebbe che Heidegger spiegasse cosa intende, ad esempio, per venuta dell’ente o per destino dell’essere; nessuna delle due proposizioni ha un senso logico. A noi non sembra che l’ente venga (e da dove, poi?) ma che esista; né che l’essere abbia un destino, perché l’idea di destino si applica all’uomo, dotato di libera volontà, non all’essere, che è la condizione propria di ciò che esiste e quindi non ha un destino, semmai pone un destino (per gli enti). Certo, l’espressione il destino dell’essere è molto suggestiva: anche troppo. Fa pensare agli sproloqui di Hegel, coi quali qualsiasi imbecille può riempirsi la bocca e sentirsi un grande filosofo. Ma è troppo facile fare filosofia in questo modo: evocando parole ed espressioni suggestive che però sfuggono a qualsiasi verifica oggettiva e a qualsiasi concatenazione logica. Potremmo seguitare a lungo, per pagine e capitoli, passando in rassegna quasi tutti i cosiddetti filosofi moderni, e troveremmo più o meno le stesse assurdità e le stesse contraddizioni.

Come mai nessuno si è accorto che è il re è in mutande? È semplice: chi scrive i libri e chi insegna filosofia nei licei o all’università, viene fuori dallo stesso identico brodo di coltura della modernità. E allora coraggio: bisogna ripulire le stalle d’Augia e farvi entrare l’aria pura, per poter ricominciare.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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