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La Chiesa dal sì al trapiantismo al sì al vaccinismo

Molti di noi non avrebbero creduto possibile che si arrivasse fino al punto cui siamo arrivati, cioè ad una Chiesa cattolica che dice sì alla somministrazione di vaccini, anzi che ne consiglia l’impiego e lo pone addirittura come un obbligo morale, pur sapendo che nella loro composizione entrano cellule staminali di feti abortiti, e quindi che ciò equivale ad una correità oggettiva con la pratica dell’aborto. Eppure, a ben riflettere, la cosa non dovrebbe stupirci più di tanto, perché da anni la Chiesa aveva imboccato una strada che doveva condurre per forza di cose, prima o poi, alla scellerata presa di posizione odierna (chiamarla magistero non è possibile, per la contraddizione in termini). No, non stiamo andando fuori tema; e sì, il tema è e rimane sempre quello, sempre lo stesso: la Chiesa può cambiare radicalmente il proprio insegnamento su questioni etiche, dottrinali, pastorali e liturgiche? Non solo non può farlo, ma non le è consentito farlo neppure in misura marginale, neppure su questioni secondarie, neppure per ragioni tattiche e di carattere temporaneo: perché il modello del cristiano, e a maggior ragione della Chiesa in quanto tale, non può che essere Gesù Cristo, il Verbo Incarnato, Lui soltanto e nessun altri che Lui; e Gesù Cristo ha raccomandato ai suoi seguaci, con una chiarezza e con una autorevolezza inequivocabili (cfr. Mt 5,37): Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.

Nell’enciclica Evangelium Vitae del 25 marzo 1995, inserendolo e quasi nascondendolo fra le pieghe di un discorso molto più ampio, apparentemente tutto in difesa della vita, contro l’aborto e contro l’eutanasia, Giovanni Paolo II gettava un accenno che si sarebbe rivelato come la classica fessura, a prima vista pressoché impercettibile, attraverso la quale chi voleva cambiare il Magistero su temi così importanti, avrebbe trovato il modo di far leva, in un secondo momento e quando si fossero presentate le circostanze favorevoli. L’accenno alla donazione degli organi è contenuto in una frase del § 86 ed è così rapido e leggero, quasi una toccata e fuga, nel contesto di una enciclica decisamente lunga, e avvolto in una tale prudenza, ma al tempo stesso in una tale genericità (la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili è un’espressione talmente ambigua che in pratica non vuol dire niente di preciso e definito), che tutto sommato chiunque è libero d’intenderla come più gli conviene. Questa dose di ambiguità voluta, che lascia la porta socchiusa alle più svariate interpretazioni, è tipica del magistero post-conciliare e la si ritrova pressoché in tutti i documenti ufficiali, per non parlare delle esternazioni non ufficiali dei pontefici a partire da Giovanni XXIII. Essa è la sostanza stessa di tutti e sedici i documenti del Vaticano II, ed è precisamente ciò che li distingue dai documenti del Magistero anteriori al 1958, e in particolare dai documenti degli altri venti concili della Chiesa cattolica.

Al di là dei fatti clamorosi, c’è l’eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che alimentano un’autentica cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza.

Ad ogni modo, è stato lo stesso Giovanni Paolo II a chiarire, fino a un certo punto, quella che intendeva presentare come la posizione ufficiale della Chiesa cattolica nei confronti della questione trapianti; e lo ha fatto pochi anni dopo, parlando al 18° Congresso Internazionale della Società dei Trapianti, il 29 agosto del 2000: vale a dire nella più importante e nella più ufficiale delle tribune a ciò deputate. In quel discorso, ufficiale quanto alla sede in cui fu pronunciato ma non ufficiale, a ben vedere, quanto all’istituzione che egli rappresentava, perché la Chiesa, fino a prova contraria, parla in forma ufficiale nelle proprie sedi istituzionali e non in ambienti e circostanze ad essa estranei (e quanti criticano, a ragione, Bergoglio, per la continua confusione di piani e di ruoli che egli volutamente persegue, dovrebbe considerare che gli atteggiamenti suscettibili di generare confusione e sconcerto tra i fedeli non nascono con lui, e che Giovanni Paolo II vi ha fatto ricorso abbondantemente), si ammetteva l’esistenza di alcuni punti critici nella pratica dei trapianti. E in risposta a ciò, venivano fissati dei punti dirimenti:

1) il trapianto di organi deve provenire da un dono disinteressato, e quindi va condannato ogni tentativo di commercializzarne la pratica (§ 3:) ogni prassi tendente a commercializzare gli organi umani o a considerarli come unità di scambio o di vendita, risulta moralmente inaccettabile, poiché, attraverso un utilizzo "oggettuale" del corpo, viola la stessa dignità della persona);

2) è necessario che il consenso del donatore sia un consenso informato, cioè che egli conosca esattamene i termini medici in cui si pone la questione delle cosiddette donazioni (ma è proprio questo il punto dolente, che qui non viene affatto affrontato, ma solamente declamato);

3) gli organi da espiantare (ma viene evitata questa sgradevole parola) devono provenire, bella scoperta, da una persona morta (§ 4): gli organi vitali singoli non possono essere prelevati che EX CADAVERE, cioè dal corpo di un individuo certamente morto.

E qui si entra nel vivo della questione: vale a dire la possibilità o meno di accertare clinicamente, in maniera indubitabile e incontrovertibile, il decesso del donatore, onde poter procedere all’espianto dei suoi organi vitali. Ora, come si possa considerare irreversibilmente morta una persona i cui organi sono ancora vitali, è una questione che appare francamente irrisolvibile; pure, nel suddetto discorso Giovanni Paolo II provò a fissare un criterio che mettesse d’accordo tutti, vale a dire un discorso politicamente corretto (sempre al § 4):

Questa esigenza è di immediata evidenza, giacché comportarsi altrimenti significherebbe causare intenzionalmente la morte del donatore prelevando i suoi organi. Nasce da qui una delle questioni che più ricorrono nei dibattiti bioetici attuali e, spesso, anche nei dubbi della gente comune. Si tratta del problema dell’accertamento della morte. Quando una persona è da considerare certamente morta?

Al riguardo, è opportuno ricordare che esiste una sola "morte della persona", consistente nella totale dis-integrazione di quel complesso unitario ed integrato che la persona in se stessa è, come conseguenza della separazione del principio vitale, o anima, della persona dalla sua corporeità. La morte della persona, intesa in questo senso radicale, è un evento che non può essere direttamente individuato da nessuna tecnica scientifica o metodica empirica.

Ma l’esperienza umana insegna anche che l’avvenuta morte di un individuo produce inevitabilmente dei segni biologici, che si è imparato a riconoscere in maniera sempre più approfondita e dettagliata. I cosiddetti "criteri di accertamento della morte", che la medicina oggi utilizza, non sono pertanto da intendere come la percezione tecnico-scientifica del momento puntuale della morte della persona, ma come una modalità sicura, offerta dalla scienza, per rilevare i segni biologici della già avvenuta morte della persona.

Eppure, subito dopo, ammettendo che l’accertamento della morte ha spostato l’attenzione della medicina dai tradizionali segni cardio-respiratori al cosiddetto criterio neurologico, vale a dire alla cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, implicitamente Giovanni Paolo II riconosce che i criteri medici di accertamento della morte cambiano nel corso del tempo, e che una persona dichiarata morta perché il suo cuore ha cessato di battere, e i suoi polmoni di respirare, forse è in realtà ancor viva, perché il suo cervello seguita a funzionare. Ora, se la medicina riconosce che in passato vi sono stati certamente degli errori nell’accertamento della morte, perché i criteri erano insufficienti, cosa vieta di pensare che la medicina di domani arriverà a formulare una diversa diagnostica sul fenomeno della morte, e che una persona oggi ritenuta morta perché nel suo cervello non si registrano più segni di attività encefalica, in realtà potrebbe essere viva, come del resto si è visto in alcuni sia pure rarissimi casi di pazienti che si sono risvegliati dal coma profondo? Rarissimo non vuol dire impossibile: e la possibilità teorica che l’accertamento della morte sia più incerto di quel che si vorrebbe far credere, dovrebbe suggerire una prudenza ben maggiore di quella mostrata da Giovanni Paolo II allorché diceva testualmente (§ 5):

E’ ben noto che, da qualche tempo, diverse motivazioni scientifiche per l’accertamento della morte hanno spostato l’accento dai tradizionali segni cardio-respiratori al cosiddetto criterio "neurologico", vale a dire alla rilevazione, secondo parametri ben individuati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, della cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica (cervello, cervelletto e tronco encefalico), in quanto segno della perduta capacità di integrazione dell’organismo individuale come tale.

Di fronte agli odierni parametri di accertamento della morte, – sia che ci si riferisca ai segni "encefalici", sia che si faccia ricorso ai più tradizionali segni cardio-respiratori -, la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita ad esercitare la responsabilità evangelica di confrontare i dati offerti dalla scienza medica con una concezione unitaria della persona secondo la prospettiva cristiana, evidenziando assonanze ed eventuali contraddizioni, che potrebbero mettere a repentaglio il rispetto della dignità umana.

In questa prospettiva, si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica. Di conseguenza, l’operatore sanitario, che abbia la responsabilità professionale di un tale accertamento, può basarsi su di essi per raggiungere, caso per caso, quel grado di sicurezza nel giudizio etico che la dottrina morale qualifica col termine di "certezza morale", certezza necessaria e sufficiente per poter agire in maniera eticamente corretta. Solo in presenza di tale certezza sarà, pertanto, moralmente legittimo attivare le necessarie procedure tecniche per arrivare all’espianto degli organi da trapiantare, previo consenso informato del donatore o dei suoi legittimi rappresentanti.

Spiacenti, ma non è così. E se è comprensibile, anche se non condivisibile, che la scienza medica moderna, fondamentalmente materialista e atea, voglia far credere che non esiste alcun problema diagnostico e non vi è contraddizione fra l’espianto di organi vitali e la sopraggiunta morte del donatore, la Chiesa, proprio perché ammaestrata da antiche vicende nelle quali ebbe troppa fretta di prendere posizione su questioni strettamente scientifiche, accumulando poi sensi di colpa per tali errori, adesso non dovrebbe commettere l’errore uguale e contrario di aver fretta nel riconoscere che la medicina possiede gli strumenti infallibili per accertare la morte di una persona e poter quindi procedere all’espianto dei suoi organi, laddove la cosa non è per niente così evidente e assodata come Giovanni Paolo II mostrava di credere. E se così non fosse, se, cioè, non sussistesse un margine, sia pur piccolo, di dubbio e perciò di possibile errore, perché mai tanta insistenza nel raccomandare una cosa di per sé ovvia, ossia che l’operatore sanitario, per procedere all’espianto, deve fare tutto il necessario per raggiungere quel grado di sicurezza nel giudizio etico che la dottrina morale qualifica col termine di "certezza morale", senza di che non sussisterebbero le condizioni per poter agire in maniera eticamente corretta?

E che gli errori diagnostici nell’accertamento della morte vi siano, lo testimonia, fra gli altri, il fatto (fatto, non leggenda metropolitana) accaduto nel 2008 in un ospedale parigino, che qui riportiamo, e che abbiamo tratto dal sito di Corrispondenza Romana, il quale a sua volta lo aveva tratto dal quotidiano Libero dell’11 giugno 2008:

Un donatore di organi si risveglia in sala operatoria poco prima che i medici procedano all’espianto: è quanto è successo all’inizio del 2008, a Parigi, ad un uomo di 45 anni che, colpito da un infarto del miocardio, dopo tutti i tentativi dei medici di rianimarlo, anche durante il trasporto in ambulanza, giunto in ospedale "a cuore fermo" è stato dichiarato un potenziale donatore di organi in quanto non cerebralmente morto ma non più rianimabile.

Nell’attesa dell’arrivo dei chirurghi che dovevano operare su di lui per l’espianto, i quali tardavano, i colleghi hanno continuato le pratiche di rianimazione per un’ora e mezza, salvandogli inconsapevolmente la vita. Infatti il paziente, trasportato in sala operatoria all’arrivo dei chirurghi e preparato per l’operazione, ha ripreso a respirare ed ha cominciato a reagire agli stimoli dolorosi.

Questo grazie al ritardo dell’operazione e quindi ad un massaggio cardiaco prolungato oltre i tempi consueti. I medici interpellati in proposito hanno affermato: «Pazienti dichiarati morti, che sopravvivono a manovre di rianimazione protratte ben oltre i tempi ragionevoli, sono da considerarsi eccezionali, ma possibili».

In questo caso, il paziente stava per subire l’espianto e se non si fosse risvegliato, certamente i medici, animati dalle migliori intenzioni di questo mondo, lo avrebbero ucciso per procurare gli organi ad un altro paziente: precisamente quel tipo di situazione che per un cattolico dovrebbe avere valore decisivo nell’orientare la scelta in senso contrario alla liceità dell’espianto. Quel che a noi sembra chiaro è che la Chiesa, proprio perché non è tenuta ad avere una propria competenza scientifica in ogni ambito dello scibile umano, in tutte le questioni etiche nelle quali esiste un margine di dubbio e di possibilità di errore, dovrebbe astenersi dal dichiarare lecita e addirittura moralmente buona una scelta che contiene dei pericoli. Ed è certamente lo stesso tipo di situazione con la quale ci troviamo oggi a doverci confrontare riguardo ai vaccini, specificamente ai vaccini per il Covid-19. I quali non solo rappresentano un pericolo oggettivo per chi li riceve, in quanto non sono stati testati a sufficienza, anzi sono stati appena prodotti, e già si registrano numerosi casi di effetti collaterali anche gravi, compresa la morte (se tali effetti si fossero verificati per l’eparina o un altro farmaco di tipo tradizionale, non dubitiamo che avrebbero condotto alla sua immediata messa fuori commercio), ma costituiscono anche un avallo indiretto alla pratica abortiva, e quindi anche alla commercializzazione dell’aborto, perché nella loro composizione entrano o possono entrare cellule staminali provenienti da embrioni umani.

Il punto centrale che va chiarito nella prospettiva cristiana è se la vita rappresenti un valore assoluto o no. Secondo il vero insegnamento cattolico, la risposta è no: altrimenti non si capisce perché Gesù Cristo avrebbe offerto la sua vita sulla croce, né per quale ragione gli Apostoli e migliaia e migliaia di cristiani avrebbero seguito il suo esempio, affrontando volontariamente il martirio nel corso delle persecuzioni, o per assistere i malati di gravi patologie infettive, nello spirito di amore insegnato dal divino Maestro. La vita è certamente un bene ed è un dono prezioso di Dio, ma non è un valore assoluto; ed è per questo che san Tommaso e tutto il Magistero, catechismo compreso, hanno sempre insegnato che la pena di morte è in certi casi legittima, come lo è, in certi casi, la guerra "giusta", ossia quella di difesa (checché ne dica, ora, il signor Bergoglio, il quale ha fatto cambiare d’autorità, dalla sera alla mattina, il § 2267). Invece per l’umanesimo cristiano uscito dal Concilio Vaticano II la vita tende a divenire un valore assoluto, proprio perché l’uomo tende a divenire un valore assoluto, mentre nella vera dottrina cattolica l’uomo rappresenta un valore nel momento in cui, seguendo la ragione naturale e la divina Rivelazione, decide di fare della sua vita ciò che Dio vuole che egli faccia. L’umanesimo cristiano è una contraddizione in termini: o si è umanisti o si è cristiani. Per il cristiano il fine è sempre e solo Dio; l’uomo è la creatura prediletta da Lui, che, uscita dalle Sue mani, a Lui aspira a fare ritorno. In una prospettiva umanistica, l’uomo tende a essere una creatura autonoma, un organismo biologico dotato d’intelligenza e volontà proprie; e quando ci si pone in tale prospettiva, è inevitabile che si finisca per considerare la sopravvivenza di tale organismo come il bene supremo dell’esistenza. Il che porta a sottovalutare i rischi e gli errori contenuti in una scienza medica che vede l’uomo come un donatore di organi, i quali, per ragioni cliniche, si ha una fretta un po’ indecente di espiantare, il più presto possibile, subito dopo la morte (?), prima che diventino inutilizzabili. Ma questo non è vedere nell’uomo una creatura di Dio, transitoria sulla terra e destinata a ritornare al Padre: che non cerca disperatamente di rinviare la morte, anche a rischio di togliere la vita qualcun altro, ma è pronta, in qualsiasi momento, a fare la Sua volontà, e dunque anche a rispondere alla Sua chiamata finale.

La fabbricazione e l’impiego di vaccini, utilizzando cellule staminali di feti abortiti, non è solo un obbrobrio dal punto di vista morale, tanto più che commercializza la pratica dell’aborto e quindi ricade esattamente nella situazione paventata e deprecata da Giovanni Paolo II; è anche, se possibile, qualcosa di peggio. Non dobbiamo scordare chi sono i Padroni Universali, i signori della grande finanza che stanno facendo tutto questo: creando il problema (pandemia) per offrire la soluzione (vaccino) dopo aver sconvolto la vita di centinaia di milioni di persone, fatto perdere il lavoro e i risparmi a tanti padri e madri di famiglia, traumatizzato i vecchi e i bambini. Sono, fra le altre cose, dei massoni di altissimo livello, degli "illuminati" e dei satanisti, che praticano le messe nere e i sacrifici umani. Come nelle antiche religioni pagane, offrono al Principe del mondo il sangue innocente dei bambini, e vogliono che anche noi, sia pure inconsapevolmente, facciamo altrettanto: assumendo quelle cellule, è come se partecipassimo al loro mostruoso sacrificio, così come praticando l’interruzione volontaria della gravidanza nelle strutture pubbliche è come se uccidessimo e offrissimo al diavolo i piccoli che stavano per nascere. Questa è un’altra ragione, estremamente seria, per astenerci dall’assumere i cosiddetti vaccini anti-Covid: vengono dal diavolo e sono destinati alla sua gloria. E alla nostra dannazione.

Ma in fondo, di che meravigliarsi? È da un pezzo che il falso clero modernista ha imboccato la strada dell’eresia e dell’apostasia, e la situazione creata dalla cosiddetta emergenza sanitaria non ha fatto altro che mettere in evidenza la perdita della fede e il totale allineamento della chiesa modernista alle direttive dei poteri diabolici che hanno gettato la maschera e imposto l’agenda spietata del Nuovo Ordine Mondiale a gran parte degli Stati e della popolazione mondiale. Fin dal marzo 2020, quando il governo Conte Bis decise di procedere col lockdown e cancellò con un tratto di penna tutti i diritti e le libertà garantiti dalla Costituzione, scavalcando il Parlamento e decidendo volta a volta le misure restrittive a colpi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, è apparso chiaro che il clero non aveva alcuna intenzione di opporsi o distinguersi, sia pure in qualche sfumatura e sia pur limitandosi all’ambito strettamente confessionale, in nome della libertà religiosa garantita dal Concordato fra Stato e Chiesa, che prevede consultazioni reciproche in caso di restrizione all’esercizio del culto. Si è avuta anzi fin dal principio la netta percezione che il clero, non che opporsi o distinguersi dalle scelte del governo in materia di sanità pubblica, con le loro pesantissime ricadute sullo svolgimento delle pratiche religiose, avesse la volontà di scavalcare il governo in fatto di rigore pseudo sanitario, anticipando la decisione di chiudere le chiese, sospendere la santa Messa, applicare con eccezionale rigore tutte le norme sul distanziamento, l’uso della mascherina e la cosiddetta igienizzazione, al punto di far svuotare tutte le pile dell’acqua benedetta per porre al suo posto l’occorrente per disinfettarsi le mani. E quando vi è stato il pensoso, raccapricciante episodio dell’irruzione dei carabinieri in una chiesa di Soncino (Cremona), i quali hanno interrotto lo svolgimento della santa Messa per un funerale e intimato al sacerdote di sciogliere l’assemblea, una dozzina di persone ben distanziate e dotate di mascherina in un locale di 350 metri quadrati, ove non c’era neppur l’ombra di un assembramento, con tanto di multa irrogata al parroco don Lino Viola, il vescovo si è affrettato, con una nota peggio che pilatesca, a scaricare il sacerdote, rimproverandolo per non aver osservato le norme di emergenza. Bisogna poi parlare dell’orribile iniziativa di molte diocesi di mettere i luoghi di culto a disposizione delle autorità sanitarie per le vaccinazioni, sostituendo la nozione del divino Redentore con la pratica di una salvezza tutta umana, da perseguire facendosi iniettare nelle vene un diabolico intruglio che potrà essere qualsiasi cosa, ma non un vaccino, e che per certo è fabbricato utilizzando anche materiale cellulare proveniente da feti abortiti? E come non notare che questo clero indegno e codardo ha accettato la cancellazione della santa Messa pasquale del 2020, come si fosse trattato di un duro ma necessario sacrificio da compiere per il bene comune e non di un perfido inganno dei nemici di Cristo e dell’uomo per asservire, demoralizzare e umiliare la popolazione, specie quanti hanno conservato la fede religiosa? Come non prendere atto che tale clero ha profittato delle circostanze speciali per sopprimere interamente la distribuzione dell’Ostia in bocca, prescrivendo ai fedeli di riceverla solo sulla mano, pur sapendo che a molti di essi ripugna, e giustamente, tale pratica, visto che ciò comporta inevitabilmente la dispersione sacrilega dei frammenti del Corpo di Cristo? E che molti preti hanno spinto il loro zelo malriposto a redarguire e perfino scacciare dalla sacra assemblea quei fedeli che non avevano la mascherina o la tenevano abbassata, e in alcuni casi perfino a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, come si fossero trovati in presenza di pericolosissimi terroristi? E che alcuni preti indegni si sono rifiutati di amministrare il sacramento dell’estrema unzione ai moribondi che lo avevano richiesto, adducendo il rischio di rimanere contagiati a loro volta? E che lo stesso Bergoglio si è fatto propagatore dell’imperativo morale di farsi vaccinare, entrando a gamba tesa in un ambito delicatissimo che non attiene in alcun modo alla sfera del magistero ecclesiastico? Come non notare, infine, lo stridente contrasto con la linea che la Chiesa cattolica ha sempre tenuto in presenza di epidemie e pestilenze, anche le più mortifere, cioè il moltiplicarsi delle cerimonie religiose, delle processioni, delle preghiere pubbliche, confidando nell’aiuto di Dio più che nelle terapie messe a punto dagli uomini? Lo spettacolo della benedizione pasquale in una piazza San Pietro buia, vuota e spettrale, da parte di un papa che non ha saputo dire una parola di conforto spirituale, ma si è vilmente appiattito sull’agenda massonica dei Padroni Universali, è stata l’immagine visibile e teatrale, peraltro certamente studiata e voluta, di una chiesa che non è più fedele alla volontà di Gesù Cristo, ma si è sottomessa al principe di questo mondo.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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