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Il popolo eletto: perseguitati o persecutori?

L’argomento è delicato, eppure è necessario parlarne. Molti cattolici provano un certo qual senso di colpa nei confronti degli ebrei, sia per ciò che questi ultimi hanno subito nella Germania nazista, ma che, in effetti, non riguarda per niente il cattolicesimo, anzi è un fatto che anche i cattolici furono perseguitati e molti di essi si prodigarono per nascondere gli ebrei; sia per le vicende dei secoli passati, cominciando dalle Crociate e passando per i pogrom della Russia zarista (che non c’entrano, neppur essi, con la Chiesa cattolica). E tale senso di colpa, storicamente ingiustificato, è stato all’origine di una serie di atti di auto-mortificazione, come la decisione di sopprimere il culto del martire San Simonino di Trento, tirando un colpo di spugna sull’oscura vicenda del 1475 che vide l’assassinio del bimbo e che portò alla maledizione rituale contro la città da parte dei rabbini, quale risposta al processo che si concluse con la condanna di alcuni ebrei locali quali autori del delitto; maledizione ritirata solo nel 1965, quando il nome san Simonino è stato depennato dal Martirologio Romano (cfr. i nostri articoli: Alcune brevi considerazioni sui concetti di sionismo e antisemitismo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/04/08; La verità al tempo del controllo totale e Gli infami riti di sangue dei quali non si può parlare, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 01/07/19 e il 09/02/21). Al contrario, ai cattolici viene gelosamente negata, dalla cultura ufficiale, la conoscenza di tutti quegli episodi storici, e non sono pochi, né isolati, nei quali sono stati gli ebrei a scatenare persecuzioni e massacri contro i cristiani, tutte le volte in cui sono stati in grado di farlo grazie ai favorevoli rapporti di forza, come nel tardo Impero romano accadeva in città come Alessandria d’Egitto, o per l’alleanza con organismi politico-militari esterni: come accadde nel massacro di Mamilla, presso Gerusalemme, del 637 d.C., reso possibile dall’alleanza degli ebrei con gl’invasori persiani (del quale abbiamo parlato nell’articolo L’orgoglio è lo spirito del mondo che si oppone a Dio, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/04/20).

Le relazioni politiche fra cristiani ed ebrei nei secoli che vanno da Gesù Cristo a Carlo Magno sono state riassunte con limpida chiarezza da uno dei pochi storici che non soggiace alla sindrome del complesso di colpa verso gli ebrei, Massimo Viglione, nella sua vasta opera Dal buio alla luce. Civiltà cristiana e Medioevo. Dalle origini al 1303 (Roma, Maniero del Mirto, 2021, pp. 53-54):

Gli Ebrei perseguitarono i cristiani fin dagli inizi, dai tempi di santo Stefano. Lo fecero ogni volta che fu loro possibile: con l’imperatore Claudio (41-54), con Nerone — Poppea era giudaizzante — e poi costantemente nei secoli successivi, ancora nel IV secolo con Giuliano l’Apostata e in altre occasioni, anche durante la rivolta zelota di Barcochba, che condusse alla tremenda repressione di Adriano (117-38). La Chiesa invece, pur avvisando i fedeli di tenersi lontano da loro, predicava in generale una sorta di tolleranza civile nei loro confronti, sebbene non sempre rispettata dai cristiani, specie a seguito della loro affermazione politica nella società. Toni più duri troviamo invece in alcuni padri (specie in Ambrogio), che non rifuggivano dall’invito alla distruzione delle sinagoghe, sebbene mai alla violenza personale. Costantino li obbligava a svolgere lavori ministeriali, finché però nel 335 emanò un decreto molto duro contro quegli Ebrei che perseguitavano i cristiani o circoncidevano a forza gli schiavi cristiani. Costanzo II fu più duro e vietò loro di unirsi a donne cristiane o di comprare schiavi cristiani; ordinò anche la confisca contro i cristiani che si fossero fatti Ebrei. Nel contesto a loro favorevole di Giuliano l’Apostata, non mancarono di tornare a perseguitare i cristiani, come testimonia Ambrogio. Nei decenni a seguire, Valentiniano I e Valente e poi Onorio ebbero nei loro confronti un atteggiamento tollerante, mentre Teodosio affranca gli schiavi cristiani di Ebrei, sebbene poi nel 392 proibisce a i governanti cristiani di intromettersi nelle vicende interne alla sinagoga così come li tutela dagli assalti violenti dei cristiani. Già nel 416 abbiamo un decreto ravennate nel quale si mette in guardia dal fatto che gli Ebrei fingono di convertirsi ma restano legati al giudaismo; i giudici hanno il dovere di scovarli e obbligarli a tornare alla sinagoga. Onorio, nel 418, proibisce loro la milizia, ma non gli uffici curiali, Nel 423 un altro decreto imperiale ordina pene severissime contro il proselitismo ebraico.

Poi, con la caduta dell’Impero d’Occidente, il loro destino variò a seconda dei vari sovrani barbarici, finché, con i carolingi, non vissero un lungo periodo a loro estremamente favorevole.

In modo ancor più specifico, per quel che attiene alle relazioni politiche fra cristiani ed ebrei nei primi secoli dell’era cristiana, ecco cosa scrive Vittorio Messori in un brano di prosa che oggi sarebbe inconcepibile veder pubblicato da una qualsiasi della grandi case editrici nominalmente cattoliche (Messori, Pensare la storia, Edizioni Paoline, 1992, pp. 407-408):

Chi conosce la storia della Chiesa primitiva sa che essa si salvò dalla distruzione da pare ebraica solo grazie alla potenza romana che imponeva la sua legge. Gli "Atti degli Apostoli" ci testimoniano di Paolo e degli atri apostoli e discepoli più volte salvati dalle mani della Sinagoga grazie al rude intervento dell’autorità imperiale. Non si salvò Stefano, lapidato dagli ebrei con un colpo di mano, né Giacomo di Zebedeo, il fratello di Giovanni, decapitato nel 44 da Erode Agrippa esplicitamente per ingraziarsi le autorità giudaiche. Nel 61 bastò (lo racconta un giudeo come Giuseppe Flavio) che il procuratore romano Festo morisse e che il successore Albino tardasse a venire perché il Sinedrio condannasse a morte l’altro Giacomo, il "fratello" di Gesù, il primo vescovo di Gerusalemme «e altri (cristiani) colpevoli di avere violato la Torah», dice Giuseppe. Quando, 5 anni dopo, nel 66, scoppiò la prima, terribile rivolta, la comunità cristiana, privata della protezione della legge e delle armi di Roma, si salvò dall’ira ebraica soltanto fuggendo in massa in Perea, in territorio in maggioranza pagano.

Ma, nel 132, ecco la seconda rivolta, capeggiata da Simone Bar Kokheba, acclamato Messia anche dal grande rabbi Akiba. Quella volta, non ci fu tempo per fuggire, per rifugiarsi sotto l’autorità di quella Roma che nel cristianesimo primitivo assolse a un ruolo insieme di protezione e di persecuzione. (Anche qui, verità impone di non scordare che alcune almeno delle persecuzioni pagane si devono alle denunce presso l’autorità romana fatte dalle autorità dell’ebraismo, allora "religio licita", riconosciuta dalle leggi dell’Impero, a differenza della "eresia dei Galilei". Per molti storici, è certo che, nel 64, Nerone dirottò sulla comunità cristiana le accuse di aver incendiato Roma — scatenando il crudele massacro — dietro consiglio di Poppea, la quale, come molte matrone romane, si circondava di rabbini, probabilmente essendosi fatta "proselita", cioè convertita all’ebraismo. Del resto, Svetonio ci informa che già verso il 50 Claudio era stato costretto a espellere da Roma «i Giudei i quali, ad impulso di CRESTO, facevano frequenti tumulti». Per dirla con Max Weber, il famoso sociologo, soprattutto della religione: «Il fortissimo inasprimento delle relazioni tra giudaismo e cristianesimo è stato, nei primi secoli, provocato essenzialmente non da parte cristiana ma giudaica. Gli ebrei, in una posizione garantita verso i Romani, sfruttarono la posizione precaria dei cristiani, non protetti dai loro privilegi verso il dovere del culto all’imperatore, per mettere in movimento contro di essi la forza dello Stato. Essi furono quindi considerati dai cristiani come i primi responsabili della persecuzione»).

Per tornare al 132, a quando l’ebraismo, scacciati i Romani, ritorna, per un paio di anni, padrone di Israele, e si coniano addirittura monete con impresso "Anno primo dell’era messianica", abbiano al proposito la testimonianza di Giustino nato in Palestina che scrive pochi anni dopo soltanto. «Bar Kokheba — testimonia quel santo — fece subire ai cristiani, e ai cristiani soltanto, gli estremi supplizi se non rinnegavano e non bestemmiavano Gesù Cristo».

Da questo – e da molti altri inquietanti precedenti — sembra sicuro che, SE con Costantino e successori, l’Impero si fosse convertito all’ebraismo e non al cristianesimo, per quest’ultimo ci sarebbero state ben poche possibilità di sopravvivere, almeno alla luce del sole. Il che, Dio scampi, non significa certo, per i credenti in Gesù come Messia, negare la necessità di rivedere il proprio passato e di fare buoni propositi per il futuro. Ma ("repetita iuvant") pentirsi e perdonare — la storia lo testimonia — è dovere per tutti, non per i cristiani soltanto.

Ma se è dovere per tutti, certo non lo è per i fratelli maggiori, o quantomeno per i loro rappresentati qualificati: i quali mai hanno parlato di pentimento e richiesta di perdono per le loro colpe, ma sempre e solo pretendono pentimento e scuse dagli altri, specialmente dai cattolici. Eppure, come abbiamo visto, le persecuzioni della Sinagoga contro i seguaci di Cristo iniziano subito, non appena la Chiesa nascente muove i primi passi: già i Discepoli diretti di Cristo furono perseguitati, così come era stato messo a morte il loro divino Maestro. Già contro di loro venivano adoperate tutte le armi, dalla calunnia alla falsa testimonianza, per trascinarli in tribunale e farli condannare; e se ciò non bastava era pronto il pugnale dei sicari, come nel caso di san Paolo, che doveva essere assassinato dagli uomini del Sinedrio durante il trasferimento alla presenza del procuratore romano (cfr. Atti, 23, 12-21); progettato assassinio che venne sventato solo all’ultimo momento grazie a una provvidenziale "soffiata". Poi, dietro la persecuzione di Nerone, ecco s’intravvedono le mali arti della sua crudele amante Poppea; così come dietro le denunce anonime che piovevano sul tavolo dei procuratori romani, come nel caso di Plinio il Giovane, governatore della Bitinia sotto Traiano, c’era quasi sempre la mano dei giudei. Di quel che fecero i giudei ai cristiani quando furono padroni del campo, nel 66, nel 132, poi ancora al tempo dell’invasione sassanide, nel 637, abbiamo detto: nell’ultimo caso, la strage fu talmente spietata ai danni di uomini, donne e bambini, che gli stessi persiani ne furono disgustati e decisero di porvi termine con la forza. Scene simili accaddero quando, nei Paesi cristiani della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, si affacciarono le schiere dei seguaci di Maometto: ovunque, dalla Siria all’Egitto e dal Nord Africa fino alla Spagna, gli ebrei agirono come quinta colonna degli invasori o si abbandonarono a sanguinose vendette anticristiane, nella confusione del passaggio da una dominazione all’altra. Anche nell’unico Stato ufficialmente convertito al giudaismo, l’Impero dei Khazari, i cristiani furono espulsi o perseguitati: soltanto essi e non gli islamici, non i seguaci di altre religioni. Di tali cose, però, non vi è traccia nei libri di storia sui quali studiano i nostri giovani; e i professori ripetono senza fine quanto furono crudeli e irragionevoli i cristiani, nei secoli del Medioevo, verso le comunità giudaiche, senza peraltro mai ricordare che la Chiesa fece del proprio meglio per difendere gli ebrei da ogni ingiusta persecuzione. Silenzio totale, poi, sulle radici ultime di tale antipatia, vale a dire la pratica dell’usura e l’atteggiamento di disprezzo dei giudei nei confronti della società che li ospitava. Disprezzo che manifestavano perfino verso i potenti: come non ricordare che Pilato, quando vennero a portargli Gesù per farlo condannare, dovette uscire e parlare con i capi del Sinedrio all’aperto, nel cortile del pretorio, perché questi ultimi non volevano contaminarsi entrando nella casa di un pagano? Dante, osservatore lucido e imparziale, ammoniva già i suoi contemporanei: Uomini siate, e non pecore matte, sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida! (Par. V, 80-81).

Ma queste, si dirà, sono storie vecchie; oggi, dopo lo splendido Concilo Vaticano II, che ha ripristinato un clima di stima e di fiducia fra le due parti, nessun giudeo nutre sentimenti ostili verso i discepoli di Cristo. Certo, sarebbe bello crederlo; però chi lo pensa, evidentemente non ha mai letto certi passi del Talmud, il libro fondamentale del giudaismo post-esilico, nei quali vi è tutto un florilegio d’insulti e imprecazioni contro Gesù e i suoi seguaci. Né ha mai letto il Toledot Yesu, libello della letteratura talmudica, ristampato in una preziosa edizione critica dallo studioso ebreo Samuel Krauss nel 1902, nel quale si proferiscono le più oscene accuse verso Gesù Cristo e Maria Santissima, descritti come viziosi, depravati, immorali. E soprattutto non hai mai considerato che, per molti rabbini ed ebrei ortodossi, vale tuttora il principio della doppia morale: si deve fare il bene, sì, ma solo ai propri correligionari; fare il male agli altri, specie ai cristiani, non solo non è male, ma è bene. Perché il vero Dio è il loro ed è solo per loro, le sue promesse le ha fatte a loro e non ad altri, e i cristiani sono i seguaci di un falso rabbi che ha avuto l’incredibile audacia di farsi Dio ed è stato perciò giustamente punito, lui e i suoi discepoli. A causa di tale ignoranza, o di tale ingenuità, se pure non è qualcosa di peggio, i cattolici, a partire dal 1962-65, non hanno fatto altro che auto-mortificarsi, inibirsi qualunque senso di fierezza per la loro storia passata e presente, e introiettare ogni senso di colpa nei confronti dei poveri fratelli maggiori ingiustamente perseguitati dai loro antenati. Ed è così che la canonizzazione di padre Léon Dehon, già programmata per il 24 aprile 2005, è stata rimandata a tempo indeterminato da Benedetto XVI: perché si è "scoperto" che il padre Dehon diceva e scriveva quel che dicevano e scrivevano moltissimi sacerdoti e religiosi cattolici prima del Concilio, ossia che la misericordia andava rivolta alle persone degli ebrei, non al giudaismo in quanto tale, e neppure alle attività usuraie di tanti ebrei. Così la pensava anche san Massimiliano Kolbe, che fece ben di più (e di peggio, secondo i punti di vista) che scrivere qualche articolo antigiudaico, nel senso religioso della parola, di quanto aveva fatto padre Dehon: favorì la diffusione dei Protocolli dei savi anziani di Sion, libro che egli definiva il testo fondamentale della massoneria, indicando la stretta connessione esistente in chiave anticristiana fra giudaismo e massoneria. Un aspetto, questo, dell’opera di san Massimiliano Kolbe (il quale si prodigò, quando i nazisti invasero la Polonia, per offrire protezione agli ebrei perseguitati) che oggi le autorità cattoliche si guardano bene dal rievocare.

Arrivati a questo punto, un terribile sospetto, a noi inguaribili complottisti, si insinua nella mente. Il primo atto importante del pontificato di Bergoglio è stato la repentina, inspiegata e inspiegabile azione contro i francescani dell’Immacolata, attuata con il commissariamento e lo smantellamento della loro regola, cosa che ha costretto molti di essi a uscire e tornarsene a casa, stante la proibizione di essere incardinati nelle diocesi. Ci siamo sempre chiesti cosa mai avranno fatto di così grave quei bravi frati, specchio e modello di virtù cristiane; e abbiamo almanaccato varie ipotesi, in assenza di una qualsiasi motivazione ufficiale da parte del despota che siede attualmente in Vaticano. Vuoi vedere che la ragione vera di tanto accanimento è, in ultima analisi, l’ispirazione stessa del fondatore, padre Stefano Maria Manelli: ispirazione mariana, come quella di padre Kolbe, unita, come in lui, alla forte convinzione che per servire e difendere l’Immacolata, bisogna svelare e combattere a viso aperto le trame degli eterni nemici di Lei e del suo divino Figlio, quelli che padre Kolbe, padre Dehon, ma anche Pade Pio da Pietrelcina, o, se vogliamo risalire indietro nel tempo, san Bernardino da Siena, avevano individuato così bene, e denunciato ai cristiani con coraggio ed esemplare chiarezza?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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